Insegnante, è stato docente di Epistemologia della storia presso l’Università La Sapienza di Roma e l’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Invitato a parlare in convegni nazionali e internazionali, ha tenuto lezioni e conferenze in Brasile, Canada, Germania e Francia. Ha pubblicato più di 10 libri e circa 200 articoli scientifici.
Sommario
La crisi della scuola sembra endemica e valutata sempre solo negativamente. Nell’articolo si cerca di darne una lettura anche positiva grazie al fatto di leggere il termine crisi in tutto il suo spessore teorico e pratico. La crisi può così diventare il senso stesso per cui la scuola abbia valore per tutti coloro che la vivono direttamente.
Parole chiave
crisi, scuola, adolescenti, ascolto, complessità.
Summary
The crisis in schools institutions seems endemic and always viewed negatively. This article attempts to offer a positive interpretation of crisis by exploring this term in all its theoretical and practical dimensions. The crisis can thus become the very meaning by which school has value for all those who experience it directly.
Keywords
Crisis, school, adolescents, listening, complexity.
Parlare di crisi della scuola o nella scuola fa quasi ridere, per quanto è inflazionata questa espressione dalla tonalità quasi sempre negativa. Persino la bozza (poi edulcorata) delle nuove “Indicazioni nazionali” per la scuola dell’obbligo riviste e corrette dal Ministero dell’Istruzione e del Merito nel 2025 recitava: “La scuola, pur attraversata da una crisi frutto della più generale crisi della mediazione educativa…” e via di seguito, con proposte presuntuosamente volte a superare, se non risolvere tanto la crisi particolare dell’istituzione quanto quella generale della società.
La frase è stata poi tolta dalla versione definitiva e ufficiale: chissà, forse si pensava che parlare di crisi avrebbe creato panico e scandalo. Perché l’essenza di ogni crisi è uno scandalo.
Sono anni, anzi decenni che si parla della crisi della scuola italiana. Naturalmente quella degli anni Sessanta non era certo quella degli anni Settanta, Ottanta, Novanta, e poi Duemila e via di seguito, fino alla crisi tremenda, unica, irripetibile e catastrofica del Covid, e poi ancora e ancora…
Viene allora da chiedersi come possa qualcosa essere sempre in crisi. Oppure perché venga denunciata la crisi di qualcosa, se questo poi cambia nel tempo? Di solito la crisi è una fase che prelude a una trasformazione, per cui poi lo stato di crisi svanisce. Cos’è mai la crisi della scuola in Italia, quando se ne parla da almeno cinquant’anni? E la crisi della società? La crisi della politica? La crisi economica? Quella sanitaria? Quella della famiglia?
Forse c’è veramente qualcosa che non va. Qualcosa è in crisi. Per sempre? Com’è possibile? Che senso avrebbe? Non se ne esce.
Si può uscire da una crisi? Se ne deve uscire? Al giorno d’oggi, e non solo riguardo alla scuola come istituzione e come realtà sociale e psicologica, sembra che ogni via d’uscita sia preclusa, o che sia talmente oscura e nebulosa da non permettere di scorgere alcuna luce in fondo al tunnel.
Forse la crisi è proprio questo: che non se ne esca. Che non ci siano vie d’uscita. Nessuno scampo. Nessun futuro. Nessuna possibilità: c’è la crisi, siamo in crisi, è la fine.
Questo viene magistralmente rappresentato in alcune immagini di un fumetto di Michele Rech, in arte Zerocalcare (tratto da Macerie prime. Sei mesi dopo, Bao, 2018) riferite alla scuola:
La crisi è una via senza uscita. Il negativo per eccellenza. Un malessere. Un disastro. La scuola non ne è esente.
Partiamo infatti da due vecchie categorie ormai desuete, anche se sempre valide: quelle di teoria e prassi. Alla scuola italiana si applicano con tragica attualità: in teoria i principi, le indicazioni e le linee guida per la sua organizzazione sono (ancora) eccellenti – benché abbiano subito una flessione involutiva negli ultimi due decenni e le ultimissime indicazioni ministeriali, anche nella loro impostazione filosofico-pedagogica di fondo, stanno provando a scardinarne l’impianto fondamentale; in pratica invece le cose sono quasi sempre rimaste in condizioni disastrose nella maggior parte dei casi e lo stato di crisi incide negativamente su tutti i livelli.
Il fumetto rivela un sentire comune che legge la crisi come un fallimento, un ostacolo, un buco nero che assorbe ogni cosa. La strada per il futuro è sbarrata. Nel migliore dei casi è senza alcun tipo di garanzia. Nessuna certezza. Nessuna sicurezza.
Se la scuola doveva preparare le giovani generazioni ad affrontare il loro avvenire, fornendogli gli strumenti indispensabili per viverlo al meglio, allora veramente la sua crisi appartiene a un presente che non garantisce più nulla su ciò che avverrà: clima, ambiente, lavoro, sicurezza, affetti, bellezza, giustizia…
Basta leggere quanto si scrive abitualmente da qualche decennio, che si tratti di quotidiani, trasmissioni televisive o radiofoniche, siti internet, considerazioni e riflessioni sui social, convegni o articoli scientifici; quasi tutti concordano che – in ambito scolastico – la crisi riguarda un numero sorprendentemente elevato di punti, spesso correlati fra loro. Il loro elenco è straziante:
- Rapporto adulti-giovani (problema dell’ascolto, stress e ansia)
- Mancanza di prospettive professionali e lavorative future
- Scollamento dalla realtà vissuta dalle/dai giovani
- Scollamento fra principi (validissimi) e realtà pratica (persiste il divario nord-sud, le difficoltà degli studenti stranieri, il benessere psicologico dei ragazzi, ecc.)
- Disuguaglianze sociali ed economiche
- Scarsa valorizzazione istituzionale della scuola (pochi finanziamenti e stipendi bassi)
- Scarsa “collaborazione” attiva fra studenti e docenti, nelle attività della scuola e nella programmazione dello studio (manca l’ascolto veramente reciproco)
- Scarso riconoscimento del “lavoro” degli studenti (l’ipocrisia dei PCTO)
- Edifici scadenti e poco funzionali (si lega a scarsa valorizzazione istituzionale)
I protagonisti stessi della vita scolastica sono in crisi: bambine e bambini perdono punti
solidi di riferimento e vivono spesso in edifici e spazi che sembrano prigioni più che stimoli di libero sviluppo; studentesse e studenti più grandi non sanno a quale futuro appellarsi e perdono la voglia di sognare e costruirsi uno sviluppo che abbia prospettive a lungo termine, disorientati da una società che si nutre solo di presente a consumo; gli adulti insegnanti non credono più a una professione che li vede responsabili di un rapporto costruttivo con bambini e giovani, mortificati da scarsi riconoscimenti di statuto sociale, da una burocrazia sempre più invasiva e da tentativi di gerarchizzazione professionale.
Non c’è nulla di inventato, né di illusorio o pretestuoso nel parlare di “crisi”. Tanto più che negli ultimissimi tempi gli sviluppi tecnologici (dietro cui la scuola come istituzione arranca con ritardo e fatica), in particolare l’uso sempre più di massa dell’Intelligenza Artificiale, sta snaturando la didattica e i rapporti più o meno di fiducia fra docenti e studenti.
Sembra proprio che la crisi non sia solo endemica, ma sia destinata a radicalizzarsi ancora di più. Ma che senso ha una crisi che “peggiora”? Può una crisi peggiorare?
In effetti il termine “crisi” indica una condizione di anomalia, quando il corso delle cose si trova a un punto di svolta, in uno stato d’eccezione spesso imprevisto che porta a uno scarto, a una deviazione dalla normalità, alla difficoltà di continuare come si era sempre fatto, talvolta a uno stato di catastrofe e di crollo, stato di difficoltà estremo per cui poi nulla sarà più come prima. Non ha un significato necessariamente negativo. La sua valenza positiva è metafora di crescita e soprattutto di cambiamento, il più delle volte vitale e adattativo.
Sarebbe bello allora cambiare la crisi della scuola in una scuola della crisi. Capire in questo modo che il fatto di essere endemicamente in crisi non rappresenta soltanto una situazione negativa, ma una condizione di trasformabilità coerente con lo scopo principale per cui esiste ogni scuola: l’educazione formativa e l’acquisizione di capacità critiche atte ad affrontare insieme il mondo di oggi e di domani.
Crisi implica etimologicamente la critica, come abbiamo imparato da Kant. Criticare è mettere in crisi non necessariamente in senso distruttivo. Troppo poco la scuola sa insegnare a farlo, anche se è da secoli che si definisce “maestro” colui che sa preparare i propri studenti a metterlo in discussione.
Se la critica della scuola venisse da una scuola della critica, allora veramente l’istituzione potrebbe vantarsi di aver adempito al proprio compito. È questo cambiamento di prospettiva che ancora manca.
La critica indaga le condizioni di possibilità di qualcosa, ma anche le alternative e le prospettive differenziate dalle quali è possibile considerare ogni aspetto di un problema. E in primo luogo, la posizione di un problema.
Purtroppo oggi a scuola troppo pochi insegnanti permettono ai propri studenti di imparare a porre problemi, fare domande, mettere in discussioni le verità acquisite. E soprattutto sono ancora troppo pochi coloro che sanno farsi mettere in discussione in prima persona. Il carattere autoritario e unidirezionale dell’insegnamento del sapere è dominante in tutti gli ordini di scuola, da quella dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. Quando gli studenti provano a ribaltare i ruoli e ad appropriarsi dello spazio educativo rendendosi protagonisti (per esempio con le occupazioni), la levata di scudi contro di loro è quasi unanime. La funzione critica delle occupazioni – esempi spesso maldestri di cambio di prospettiva perché nessuno insegna mai ai giovani come farlo – è da decenni rimasta lettera morta: le si considera con sufficienza, se non con fastidio, come un rito di comodo ormai abusato, si continua a trattarle come esperienze negative da punire o da sopportare, e non se ne ascoltano le ragioni né si cerca di ammetterle come uno stimolo trasformativo.
Tutto rimane uguale, condannato appunto a ripetersi senza prospettive di cambiamento. La crisi viene subita, non colta, né agita.
Nessuno si sogna d’insegnare a bambini e adolescenti cos’è, come si affronta, come si provoca e come si vive una crisi. L’esempio del Covid resta come un trauma, irrisolto di fatto e di diritto, testimonianza esplicita dell’incapacità della scuola (e della società) di cambiare, di vivere la crisi per uscirne trasformata. Scuola in crisi, certo, ma nessuna scuola di crisi.
La fondamentale importanza della presenza, dell’incontro fra corpi fisici, dello stare fisicamente insieme in uno spazio di vita collettivo è stato dato per scontato. Inascoltato è stato il grido di dolore di migliaia e migliaia di bambini e adolescenti cui è stato sottratto un tempo lungo e prezioso di crescita. Quando tutto è “tornato alla normalità” il mondo adulto ha tirato un sospiro di sollievo, un po’ infastidito dall’impennarsi tragico della curva dei disagi psichici fra giovani e giovanissimi. La normalità ritrovata è stato il narcotico che ha spento definitivamente ogni luce, la crisi superata non ha cambiato nulla: se tutto è tornato apparentemente come prima, allora tutti hanno perso. A scuola i banchi con le rotelle sono stati messi da parte, i momenti di aggregazione democratica sono stati limitati, gli zaini si sono riempiti nuovamente di libri, qualche piattaforma digitale e azienda informatica ha fatto profitti favolosi, ma non c’è stata veramente alcuna reale via d’uscita trasformativa.
Altro esempio evidente di occasione mancata è la partecipazione di giovani e giovanissimi alle mobilitazioni ambientalistiche dei Fridays for Future. Gli adulti illuminati si sono spesso lamentati negli ultimi trent’anni della decadenza dell’impegno politico nei giovani, della loro mancanza di partecipazione e dell’assenza di spirito critico nei confronti della società; eppure quando si è trattato di mobilitarsi su temi ambientali l’impegno sembra essersi miracolosamente manifestato quasi come dal nulla. L’ansia per il futuro, invece di schiacciare, si è fatta vettore di rivendicazioni e proteste. In che modo la scuola in generale ha saputo ascoltare queste voci? Cosa si è fatto per rispondere alla legittimità di queste richieste? Nulla è cambiato. Si è atteso che lo slancio scemasse, che la pandemia mettesse a tacere ogni altro problema, che la società fosse distratta da altre più impellenti istanze, che la guerra tornasse a occupare con violenza le menti e nessuno (come istituzione) se ne è più preoccupato.
Nel corso della storia ci sono ovviamente anche state occasioni colte positivamente, che hanno dato una svolta all’organizzazione scolastica e al rapporto didattico: le proteste del ’68, i “decreti delegati”, il coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie. Altre sono rimaste a metà, come per esempio l’autonomia scolastica. E oltre a quelle elencate in dettaglio poche righe sopra, non sono state colte le sfide critiche poste dalla digitalizzazione, dall’avvento dello smartphone e adesso dall’Intelligenza Artificiale. Interessi politici, incapacità antropologiche, interessi economici e incapacità organizzative hanno fatto sì che i milioni di euro spesi negli ultimi 10 anni dal Ministero per rendere le scuole più “digitali” e “smart” si siano dispersi in canali del tutto inutili, senza permettere un consapevole, critico e intelligente uso dei computer, di internet, dei social, dei telefoni, ecc. I docenti continuano a fare lezione spesso nello stesso modo di cinquant’anni fa, i libri di testo hanno giusto acquisito negli anni più foto e immagini, oppure la loro versione digitale, senza che vi sia stato un cambiamento strutturale della didattica. Sul piano della valutazione si sono fatti drammatici passi indietro, col ritorno dei voti numerici che nella pratica fin troppo spesso vengono applicati dagli insegnanti con funzioni punitive (stimolati in questo da micidiali indicazioni e dichiarazioni ministeriali).
Insomma, di fronte a un mondo che si trasforma velocemente, la scuola è rimasta indietro talvolta persino volontariamente e consapevolmente per rifiutare il vento del cambiamento, non per rivendicare un uso più critico delle nuove tecnologie o per ribadire la validità di strumenti antichi come la calligrafia o il disegno a mano. Le occasioni non sono state raccolte e la crisi ha quindi colpito con violenza la realtà scolastica in tutti i suoi aspetti. I relativamente pochi esempi virtuosi che pure ci sono in varie parti d’Italia non fanno che evidenziare ancora di più il problema, mostrando che soluzioni interessanti e partecipate sarebbero e sono state comunque possibili.
La scuola in crisi sembra poi ignorare un altro, essenziale aspetto della crisi di cui si tratta, cioè quella che permea chi la vive direttamente, coloro ai quali la scuola è immediatamente rivolta: i bambini, gli adolescenti. La scuola è in crisi perché non sa riconoscere la crisi, non la sa vedere e non la sa ascoltare. Sarebbe potuta essere l’istituzione più attenta, l’antenna più avanzata dei cambiamenti in atto, l’organizzazione più capace di affrontare e vivere ogni forma di crisi proprio perché chi la abita quotidianamente è in pieno sviluppo, sempre, ininterrottamente.
Ogni bambino, ogni adolescente è un’occasione, un caso critico, un vettore di trasformazione, un esempio da considerare e valorizzare, un’interferenza nella società. Maestre, maestri e insegnanti sanno benissimo quanto i singoli individui facciano resistenza e non riescano ad adattarsi se non con grande fatica alle procedure di massa, alla standardizzazione di didattiche e valutazioni che cancellano proprio le singole particolarità, i talenti, le forze e le energie che ognuno alberga dentro di sé e a modo suo.
La scuola non è maestra, nel senso che si è detto sopra: rifiuta di farsi mettere in discussione dai suoi studenti, rifiuta di lasciarsi mettere in crisi. E questa è la sua crisi più grave, nella quale annaspa senza rimedio. Purtroppo proprio chi rivendica il ruolo di “magister” non è capace di esserlo fino in fondo. Riflettere sul termine “crisi” ce lo conferma ogni volta con grande evidenza. Scuola in crisi che non sa farsi scuola di crisi.
Invece il cosiddetto “capitale umano” della scuola vive inevitabilmente in uno stato permanente di crisi nel senso della trasformazione inevitabile di corpo e psiche, mentre nel caso degli insegnanti la trasformazione avviene allo specchio di coloro con cui hanno quotidianamente a che fare, se sono capaci di ascoltarli veramente e di coglierne le istanze fondamentali.
La scuola, ha scritto il filosofo Elio Franzini, è il luogo fisico dove la relazione simbolica si pone insieme alla relazione fisica, dove il corpo e la mente s’intrecciano e si confrontano, dove esperienza e ragione, emozione ed espressione, simpatia e antipatia (nel loro senso etimologico originario) coesistono e interagiscono. Non è possibile assumersene solo un aspetto: per la scuola la mente, per le organizzazioni sportive il corpo, e un po’ di socialità, ecc.
Non solo. Gli studenti di qualsiasi età non vivono in mondi separati, e così i loro insegnanti: ognuno porta dentro di sé ciò che gli accade intorno, ciò che agisce e subisce, ciò che sogna e ciò che vede, le informazioni che acquisisce e le riflessioni che gli suscitano, l’educazione che riceve e gli impulsi che sente. La famiglia, gli amici, le giustizie e le ingiustizie, la bellezza e la violenza, tutte le forme del dolore, ma anche tutte le articolazioni della gioia e del piacere. Gli ambienti, gli spazi, i tempi, le fantasie, i pensieri, i linguaggi… Siamo esseri complessi che vivono sistemi complessi: come può la scuola ignorarlo? In linea di principio (in teoria) non lo ignora, anzi lo assume come una importante responsabilità, ma nei fatti (in pratica), dentro la classe durante le ore di didattica, nei colloqui coi genitori e negli scrutini tutta la complessità sembra improvvisamente sparire e s’insiste solo su uno o due aspetti della persona che ogni studente è. Il comportamento sbagliato o corretto, i voti non adeguati o splendidi rispetto alle aspettative, gli stati d’animo preoccupanti o esaltanti.
Ogni studente, ogni classe, ogni istituto scolastico è invece un sistema in fibrillazione continua. Crisi è infatti anche relazione sorprendente e inattesa, intersezione di linee temporali e storiche che si fanno improvvisamente presenti. Una scuola di crisi dovrebbe permettere di cogliere al volo queste occasioni valorizzandole come istanze vitali, non come sorprese o situazioni negative.
Come ben sanno tutti gli adolescenti del mondo, ogni crisi è scandalo, infrazione, rivolta e rivoluzione, preludio a un cambiamento di stato. Lo scandalo di desiderarla, cercarla, volerla e persino pretenderla: ecco un “compito” che la scuola dovrebbe assumersi nel suo complesso, per trasformarsi da scuola in crisi a scuola di crisi.