Dirigente tecnologo ISPRA e National Focal Point IPBES, esperto in biodiversità, conservazione e ripristino ecologico. Si occupa di politiche ambientali, governance socio-ecologica e integrazione tra scienze naturali, sociali e umane per la sostenibilità. È stato membro del gruppo IPCC vincitore del Premio Nobel per la Pace 2007 per il contributo scientifico sui cambiamenti climatici e ha presiedutohair gli Open-Ended Meetings della settimana edizione del Global Earth Outlook dell’UNEP.
Sommario
La crisi ambientale, intreccio di clima, biodiversità e inquinamento, rivela una frattura profonda nel rapporto umano con la natura. L’articolo propone un approccio integrato che unisce scienze, filosofia e politiche, promuovendo un ethos basato su relazioni e responsabilità. Ripercorre l’evoluzione dei paradigmi di conservazione e mostra come strumenti internazionali e la comunità scientifica guidino azioni e politiche trasformative.
Parole chiave
crisi ambientale; crisi della presenza; biodiversità; Nature Restoration Law; Kunming–Montreal Global Biodiversity Framework; ethos dell’ecologia; Latour; Mace; IPBES; conservazione; sistemi socio-ecologici.
Summary
The environmental crisis—linking climate change, biodiversity loss, pollution, and land degradation—reveals a deep rupture in humanity’s relation with nature. The article offers an integrated philosophical, scientific, and policy analysis to define an ethos grounded in interdependence and responsibility. It traces shifting conservation paradigms and shows how global agreements and scientific bodies like IPBES and IPCC support systemic, transformative responses to intertwined climate-biodiversity challenges.
Keywords
environmental crisis; crisis of presence; biodiversity; Nature Restoration Law; Kunming–Montreal Global Biodiversity Framework; ecological ethos; Latour; Mace; IPBES; conservation; socio-ecological systems.
1. Introduzione: La Crisi Ambientale e la Crisi della Presenza
La settima edizione del Global Outlook (UNEP, 2025) mostra come la crisi ambientale derivi da tre crisi profondamente interconnesse e reciprocamente amplificanti — cambiamento climatico, perdita di biodiversità e inquinamento — cui si aggiunge il degrado del suolo e del territorio.
Queste crisi condividono cause strutturali comuni, radicate nei grandi sistemi che organizzano le società contemporanee: i sistemi energetici, alimentari, dei materiali e dei rifiuti, e quelli finanziari. Per questo devono essere affrontate come un unico sistema di problemi interdipendenti.
I sistemi energetici basati sui combustibili fossili, ad esempio, alimentano simultaneamente le emissioni climalteranti, l’inquinamento atmosferico e il degrado di ecosistemi attraverso estrazione e infrastrutture. Analogamente, i sistemi alimentari intensivi contribuiscono alla deforestazione, alla perdita di biodiversità agricola, all’inquinamento da nutrienti e al consumo eccessivo di suolo. I sistemi di produzione e uso dei materiali — dalla plastica ai minerali critici — generano rifiuti e dispersione di sostanze tossiche, oltre a pressioni crescenti sugli ecosistemi marine e terrestri. Infine, i sistemi finanziari, attraverso investimenti che privilegiano rendimenti a breve termine, continuano a sostenere modelli economici ad alto impatto ambientale, ritardando la transizione verso forme di sviluppo sostenibile.
Per questo la crisi ambientale non può essere letta solo nella sua dimensione materiale — aumento delle emissioni, perdita di specie, inquinamento o deterioramento dei suoli — ma richiede di riconoscere anche le dimensioni culturali ed epistemologiche che strutturano il rapporto tra umanità e natura. La letteratura ecologica e antropologica mostra, infatti, come la visione della natura come entità separata e dominabile abbia plasmato, nel tempo, sistemi sociali, politici ed economici orientati al controllo e allo sfruttamento delle risorse (Latour B., 1991; Mace G., 2014; Ciccarese L., 2023).
La storica dicotomia tra umano e naturale ha costituito per secoli la cornice entro cui si sono giustificati interventi aggressivi sugli ecosistemi, orientati alla massimizzazione delle risorse e a una crescita economica potenzialmente illimitata. Questa separazione concettuale si radica anche nella percezione tradizionale della natura come una forza autonoma e spesso minacciosa, capace di determinare la vita umana attraverso disastri naturali, epidemie o variazioni climatiche locali. In questo contesto si inserisce la riflessione di Ernesto De Martino, che nel suo saggio La fine del mondo (1952) interpreta tale condizione come una “crisi di presenza”: una situazione in cui gli individui, davanti all’imprevedibilità dei fenomeni naturali, perdono punti di riferimento simbolici ed emotivi, e si sentono incapaci di “essere al mondo”.
A questa vulnerabilità strutturale, che caratterizzava in modo particolare le società premoderne, nelle quali la natura esercitava una pressione costante e poteva facilmente mettere a rischio la sopravvivenza collettiva, le comunità risposero elaborando progressivamente strumenti culturali, tecnici e istituzionali che permettessero di contenere, organizzare e trasformare l’ambiente secondo logiche funzionali alla vita umana. L’agricoltura, l’allevamento, le opere idrauliche e le prime infrastrutture urbane rappresentarono, al tempo stesso, pratiche di adattamento e forme di dominio sull’ambiente.
Come ricorda De Martino, “per garantire la sopravvivenza e conquistare un posto più sicuro nel mondo, la natura doveva essere contenuta, trasformata, valorizzata e possibilmente dominata” (De Martino, 1952, pag. 47).
Con la modernità e, in particolare, con la rivoluzione scientifica tra XVII e XVIII secolo, la distinzione tra umano e natura si irrigidì. L’affermazione di un sapere scientifico fondato sulla misurazione, la previsione e il controllo dei fenomeni naturali rese possibile immaginare la natura non più come forza dominante, ma come oggetto manipolabile, governato da leggi conoscibili e sfruttabili. Durante la rivoluzione industriale, avviata con la macchina a vapore intorno al 1750, questa visione trovò piena espressione: la natura divenne una riserva di risorse — combustibili, materie prime, terre da convertire — al servizio del progresso tecnico, della produzione di massa e della crescita economica. La tecnologia, lungi dal limitarsi a mitigare la vulnerabilità umana, assunse un ruolo di potenziamento illimitato, orientato a superare ogni vincolo ecologico. In questo passaggio storico, la separazione tra umano e natura divenne così potente da apparire ovvia, inscritta nelle istituzioni, nell’economia, nella cultura e nelle categorie epistemologiche con cui veniva interpretato il mondo.
Tuttavia, lo sviluppo di questi modelli socio-economici ha generato effetti collaterali su scala planetaria — cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso, degrado dei suoli e degli ecosistemi — evidenziando i limiti intrinseci della logica del dominio. La natura, lungi dall’essere completamente controllabile, si manifesta attraverso retroazioni, instabilità e trasformazioni improvvise, che mettono in discussione la presunta autonomia e superiorità umana. In questo senso, la crisi ambientale contemporanea può essere letta come una nuova “crisi di presenza”: non più provocata dall’imprevedibilità della natura premoderna, ma dall’imprevedibilità degli esiti del nostro stesso modo di abitarla e trasformarla.
Con l’avvento della scienza moderna e dello sviluppo tecnico, il rapporto tra umanità e natura si è ulteriormente invertito: gli esseri umani sono diventati una presenza planetaria "incalzante", capace di alterare la stabilità dei sistemi ecologici su scala globale. La diffusione della cultura consumistica e del paradigma della crescita economica ha reso critica questa presenza, minacciando la capacità della Terra di sostenere la vita. In questo contesto, l’Antropocene — l’epoca geologica attuale, caratterizzata dall’impatto globale delle attività umane sugli ecosistemi, sul clima e sulla geologia terrestre — può essere visto come la trasformazione della crisi di presenza a livello planetario: la "presenza critica" dell’umanità produce impatti ecologici senza precedenti, ma genera anche una crisi culturale e psicologica, in cui le comunità contemporanee lottano per dare senso e controllare una realtà schiacciante.
Un elemento chiave che attraversa sia la natura che domina l’uomo sia l’uomo che domina la natura è la concezione dualistica di umanità e ambiente. Bruno Latour (1991, 2004) ha definito questo dualismo come il "Great Divide", una separazione epistemologica che ha
permesso alla scienza moderna di operare come se potesse accedere a una realtà indipendente da valori e contesti sociali, e alla politica di ignorare i limiti biofisici. Tuttavia, nell’Antropocene questa separazione appare ormai immotivata e arbitraria: la crisi ambientale è allo stesso tempo naturale, sociale e politica. Fenomeni come cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento e degrado del territorio non possono più essere compresi isolatamente. Come ha detto Latour, viviamo in un mondo di "ibridi" naturali-sociali, assemblaggi in cui attori umani e non umani co-producono fatti ed effetti materiali. Seguendo le reti che collegano tecnologia, ecologia e società diventa indispensabile per interpretare e governare la crisi planetaria, mentre il Great Divide si rivela una finzione organizzativa della modernità.
2. Evoluzione dei Paradigmi di Conservazione: Dal “Nature for Itself” al “People and Nature”
L’evoluzione del pensiero sulla conservazione riflette il progressivo riconoscimento della complessità dei sistemi socio-ecologici e della necessità di integrare prospettive umane e naturali. Georgina Mace (2014) identifica quattro principali paradigmi (framing, nel testo originario) che descrivono questa evoluzione.
Il paradigma originario, Nature for Itself, concepiva la natura come autonoma e separata dall’azione umana. Questa visione romantica della wilderness enfatizzava la protezione dei territori incontaminati, considerati intrinsecamente preziosi, ma non era in grado di riconoscere la co-dipendenza dei sistemi naturali e sociali.
Successivamente, Il paradigma Nature Despite People, si concentrava sull’impatto antropico, cercando di proteggere la natura dai danni dell’uomo senza affrontare le cause strutturali dei degradi ambientali. Sebbene avesse il merito di riconoscere l’influenza umana, questo approccio rimaneva principalmente difensivo e non favoriva un’integrazione attiva tra società e ambiente.
Con l’emergere del paradigma Nature for People, la conservazione si spostò verso una prospettiva strumentale: la natura veniva valorizzata in quanto forniva servizi ecosistemici diretti agli esseri umani, come cibo, acqua, regolazione climatica e benefici culturali. Tuttavia, questo approccio rischiava di strumentalizzare la natura e di trascurarne i valori intrinseci e ancor più i valori relazionali, riducendo gli ecosistemi a semplici strumenti di utilità antropica.
Infine, il paradigma contemporaneo People and Nature rappresenta una svolta concettuale: natura e società non sono più entità separate, ma co-costituenti e interdipendenti all’interno di sistemi socio-ecologici complessi. Questa visione riconosce che la sostenibilità richiede
politiche partecipative e inclusive, che integrino valori culturali, scientifici e pratici nella gestione delle risorse naturali. È proprio questo paradigma che ispira strumenti normativi recenti come la Nature Restoration Law e il Kunming–Montreal Global Biodiversity Framework, che puntano a una governance integrata e multilivello (CBD, 2022; UE, 2024).
In questo contesto è necessario distinguere i concetti di “natura” e “biodiversità”: mentre la natura rappresenta un concetto culturale e simbolico, la biodiversità costituisce la dimensione concreta, misurabile e funzionale della vita, essenziale per la resilienza dei sistemi naturali. Questa distinzione è fondamentale per impostare politiche di ripristino ecologico efficaci, orientate a rafforzare la capacità dei sistemi di adattarsi e rigenerarsi (Ciccarese L., 2023).
3. Verso un’Azione Trasformativa: Strumenti, Governance e Integrazione Socio-Ecologica
La consapevolezza della tripla crisi ambientale impone di superare approcci frammentari e reattivi, orientandosi verso strategie di trasformazione sistemica. La sola protezione dei ‘residui naturali’ e della ‘natura intatta’ non è più sufficiente; occorre intervenire attivamente per ripristinare ecosistemi degradati e per integrare la biodiversità in tutte le politiche settoriali e inter-settoriali, superando la tradizionale frammentazione della governance ambientale. In questo contesto, strumenti normativi come la Nature Restoration Law dell’Unione Europea (UE, 2024) e il Kunming–Montreal Global Biodiversity Framework (CBD, 2022) rappresentano progressi significativi. Entrambi mirano a tradurre i principi di sostenibilità e interdipendenza in pratiche concrete, stabilendo obiettivi misurabili di ripristino e protezione della biodiversità, incentivando la partecipazione attiva di attori pubblici e privati, e promuovendo l’integrazione tra conoscenze scientifiche e tradizionali.
Il concetto di governance multilivello emerge come cruciale per tradurre le aspirazioni normative in azione concreta. Secondo i rapporti dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), tra cui The Assessment Report on the Different Values and Valuation of Nature, in breve Values (IPBES, 2022), in breve Transformative Change (IPBES, 2024a), in breve Nexus (IPBES, 2024b) e le azioni isolate non sono sufficienti. La trasformazione richiesta è culturale, politica ed epistemica: occorre ridefinire la natura non solo come oggetto di protezione, ma come attore strutturale all’interno dei sistemi socio-ecologici, capace di influenzare e modellare i processi sociali, economici e politici.
Il rapporto Values di Ipbes (2022), redatto da 82 esperti di scienze sociali, economiche e umanistiche, afferma che il modo in cui la natura viene valutata e considerata nelle decisioni politiche ed economiche è un fattore chiave della crisi globale della biodiversità. La preminente attenzione del mercato ai profitti a breve termine e alla crescita economica ha privilegiato i valori e i benefici strumentali della natura, come la produzione in modo intensivo di alimenti e fibre, e viceversa ha trascurato i molteplici valori e benefici della natura, da quelli ecologici (mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, regolazione del ciclo dell’acqua e riduzione dei rischi associati ai disastri naturali) a quelli relazionali (spirituali, culturali ed emozionali). Ciò, secondo il rapporto, ha portato a decisioni sbagliate che hanno ridotto il benessere delle persone e contribuito alle crisi della natura e del clima.
Viceversa, il rapporto Values sostiene che una delle sfide fondamentali per il futuro della conservazione della natura e della biodiversità sarà quella di unire il divario tra le due culture, incluse le dinamiche semantiche ed ecologiche, di integrare le diversità di concezioni e visioni della natura e i diversi sistemi di conoscenza (come quelli delle popolazioni indigene e delle comunità locali).
È importante infine ripensare il rapporto diretto tra persone e natura, spostando l’attenzione da una prospettiva potenzialmente utilitaristica del framing attualmente dominante, “Nature for People” (gestire la natura per massimizzare il valore complessivo della condizione umana), a una più sfumata che riconosca le relazioni biunivoche e dinamiche tra persone e natura, “People and Nature”. È questo il solo modo per sviluppare politiche ambientali adeguate a creare condizioni di coesistenza tra i gruppi umani e gli ecosistemi.
Un elemento centrale di questa trasformazione riguarda la costruzione di un ethos dell’ecologia, inteso come insieme di valori, pratiche e orientamenti culturali che promuovono un equilibrio tra la presenza umana e i limiti biofisici della Terra. L’ethos dell’ecologia si articola su tre dimensioni fondamentali: valori strumentali, legati ai servizi ecosistemici come regolazione climatica, sicurezza alimentare e idrica; valori intrinseci, che riconoscono alla natura un diritto di esistere indipendentemente dall’uso umano; e valori relazionali, che riflettono legami culturali, identitari e spirituali con gli ecosistemi. Solo il sincrono riconoscimento di queste dimensioni consente di impostare politiche veramente sostenibili, capaci di rafforzare la resilienza dei sistemi naturali e umani, come sottolineato da Edward O. Wilson (1992) nel contesto della crisi della biodiversità.
4. Il Ruolo della Comunità Scientifica e di IPBES nella Trasformazione dei Sistemi Socio-Ecologici
La trasformazione dei rapporti tra umanità e natura richiede non solo strumenti normativi, ma anche un solido supporto epistemico. In questo senso, la comunità scientifica assume un ruolo cruciale nel guidare la comprensione e l’azione politica. Tra le istituzioni chiave, proprio l’IPBES si distingue per il suo contributo sistemico. Tradizionalmente impegnata nella produzione di valutazioni scientifiche sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici, IPBES si sta evolvendo in un vero e proprio attore strategico, capace di guidare politiche trasformative e di fungere da ponte tra conoscenze scientifiche e decisioni politiche a livello globale (Gustafsson R., Hysing E., 2023).
Attraverso le sue valutazioni, IPBES fornisce criteri, indicatori e linee guida per le attività dei settori pubblico e privato, promuovendo approcci basati sulla conoscenza co-prodotta e sulle soluzioni sistemiche. Rapporti recenti come Transformative Change, Nexus e Values evidenziano come sia necessario integrare prospettive diverse e considerare l’interdipendenza tra sistemi naturali e sociali. Le future valutazioni, tra cui il Business and Biodiversity Assessment e il Monitoring Assessment (attesi entro la fine del 2025), estenderanno ulteriormente l’influenza di IPBES nel definire percorsi concreti verso un futuro nature-positive.
Gustafsson e Hysing (2023) sottolineano come IPBES, grazie alla sua legittimità scientifica e intergovernativa possieda un “potere performativo” nel guidare trasformazioni strutturali su scala globale. In questa prospettiva, la scienza non si limita a informare le decisioni, ma diventa un agente attivo di cambiamento, contribuendo a progettare strategie integrate di governance, incentivare pratiche sostenibili e orientare la cooperazione internazionale.
La collaborazione tra scienza e politica, rafforzata da istituzioni come IPBES e UNEP, è fondamentale per affrontare la crisi ambientale in maniera coerente. La produzione di conoscenze sistemiche e co-prodotte consente di identificare soluzioni scalabili e adattative, capaci di rispettare la complessità dei sistemi socio-ecologici e di integrare la pluralità dei valori legati alla natura.
5. L’Ethos dell’Ecologia: Un Imperativo Culturale, Politico ed Epistemico
La costruzione di un ethos dell’ecologia rappresenta la chiave per superare le contraddizioni della modernità e guidare un cambiamento trasformativo. Questo ethos non è semplicemente normativo o tecnico, ma implica una ridefinizione dei valori, delle pratiche e della conoscenza. Latour (2004), nel suo Politiche della Natura, evidenzia la necessità di rompere con la tradizionale separazione tra umanità e natura, sviluppando una politica capace di integrare attori umani e non-umani all’interno di processi decisionali condivisi.
Un ethos ecologico efficace richiede innanzitutto la comprensione della natura come sistema complesso e relazionale. I valori strumentali devono essere affiancati dai valori intrinseci, che garantiscono il rispetto della vita indipendentemente dall’utilità per gli umani, e dai valori relazionali, che riconoscono le connessioni culturali, spirituali e sociali con le specie e gli ecosistemi. L’integrazione di queste prospettive consente di progettare azioni di ripristino ecologico che siano giuridicamente, socialmente e culturalmente legittime.
Inoltre, l’ethos dell’ecologia implica una trasformazione epistemica: la scienza non è più
neutrale e separata dalla politica, ma partecipa attivamente alla costruzione delle politiche ambientali. IPBES rappresenta un esempio paradigmatico di questo approccio, fungendo da agente di trasformazione e contribuendo a rendere le decisioni più informate, sistemiche e orientate ai risultati. Il riconoscimento della complessità dei sistemi socio-ecologici, unito a una governance multilivello e inclusiva, consente di affrontare la tripla crisi ambientale in maniera integrata, promuovendo resilienza, equità e sostenibilità.
6. Considerazioni finali
La crisi ambientale contemporanea rappresenta un punto di svolta cruciale nella storia della civiltà umana. Non si tratta più di una semplice crisi settoriale o tecnologica, ma di una crisi epistemica, culturale e politica che mette in discussione i framing moderni di separazione tra umanità e natura. Come osservato da Latour (1991, 2004), il cosiddetto Great Divide ha strutturato l’epistemologia moderna e la governance ambientale in modi tali da rendere difficile riconoscere la natura come co-produttore della realtà sociale. Superare questa separazione è quindi essenziale per comprendere e affrontare le sfide contemporanee, ponendo le basi per un nuovo ethos ecologico sistemico in cui la vita viene concepita come una rete di relazioni interdipendenti tra umani e non-umani.
In questo contesto, strumenti normativi e politici globali e regionali assumono un ruolo centrale nel tradurre principi e valori ecologici in azioni concrete.
Il Kunming–Montreal Global Biodiversity Framework (KM-GBF, 2022) rappresenta una pietra miliare a livello internazionale, fissando obiettivi ambiziosi di breve e lungo periodo per arrestare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030, per giungere “a vivere in armonia con la natura” entro il 2050. Il KM-GBF definisce 23 target “action-oriented”, da raggiungere entro il 2030 organizzati in tre categorie. La prima punta a ridurre le pressioni sugli ecosistemi attraverso pianificazione spaziale, ripristino del 30% delle aree degradate, ampliamento delle aree protette, gestione delle specie a rischio, controllo delle invasive e riduzione dell’inquinamento. La seconda promuove uso sostenibile e benefici, includendo agricoltura e pesca sostenibili, sicurezza dei servizi ecosistemici e ripartizione equa dei benefici derivanti da risorse genetiche e DSI. La terza riguarda mezzi di attuazione, come il mainstreaming (ossia l’integrazione di interventi di conservazione della biodiversità nei settori economici), la responsabilità del settore privato, la riforma dei sussidi e degli incentivi dannosi, i finanziamenti, il rafforzamento delle capacità dei paesi in via di sviluppo, l’inclusione delle comunità locali. Il KM-GBF chiede ai Paesi di attuare un sistema trasparente di monitoraggio, con relativi indicatori, che permetta di valutare i progressi e di orientare strategie correttive, consentendo un allineamento coerente tra conoscenze scientifiche, politiche e pratiche operative sul territorio.
Parallelamente, il KM-GBF promuove la partecipazione delle comunità locali e riconosce la pluralità di valori - strumentali, intrinseci e relazionali - attribuiti alla natura dalle diverse società, creando le condizioni per una governance inclusiva e integrata.
In parallelo, Il Regolamento UE sul Ripristino della Natura (2024/1991), meglio noto come la Nature Restoration Law fornisce meccanismi giuridici vincolanti che traducono gli obiettivi dell’Unione Europea per arrestare e invertire il declino della biodiversità in azioni concrete a scala nazionale (UE, 2024). La legge non si limita a proteggere le aree naturali residue, ma impone il ripristino attivo di ecosistemi degradati, promuovendo approcci basati su evidenze scientifiche e indicatori di biodiversità. La NRL incoraggia gli Stati membri a sviluppare piani nazionali di ripristino con obiettivi misurabili, considerando le interconnessioni tra biodiversità, servizi ecosistemici e resilienza socio-ecologica. In tal modo, la legge rappresenta un esempio tangibile di come la normativa possa tradurre in pratica un ethos ecologico sistemico, orientando scelte territoriali, agricole, energetiche e urbanistiche verso una co-evoluzione sostenibile tra umani e natura.
L’integrazione tra KM-GBF e NRL dimostra concretamente come la governance globale e regionale possa contribuire a riconfigurare le relazioni tra società e natura. Questi strumenti rendono visibili le interconnessioni tra sistemi naturali e sociali, promuovendo azioni trasformative co-progettate da scienza, politica e società civile. Il loro impatto supera la semplice conservazione: stimola la transizione verso una visione in cui l’umanità non è più concepita come dominatrice della natura, ma come nodo di una rete più ampia, responsabile del mantenimento e della rigenerazione dei sistemi viventi.
In questa prospettiva sistemica, anche l’Accordo di Parigi del 2015 - il trattato internazionale sul clima adottato nell’ambito dell’UNFCCC che impegna gli Stati a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, puntando a 1,5°C - si inserisce pienamente nella ridefinizione delle relazioni tra società e natura. Pur centrato sulla mitigazione e sull’adattamento ai cambiamenti climatici, l’Accordo riconosce l’interdipendenza tra stabilità climatica, integrità degli ecosistemi e benessere umano, superando la tradizionale separazione tra politiche climatiche e conservazione della biodiversità. Esso promuove un approccio ecosistemico all’adattamento, incoraggia le soluzioni basate sulla natura e valorizza conoscenze scientifiche, saperi locali ed equità, in linea con l’ethos relazionale proposto dal KM-GBF. Clima e biodiversità emergono così come dimensioni inseparabili di una medesima trasformazione ecologica globale, indicando che la transizione sostenibile richiede risposte integrate e co-evolutive.
In questo processo, la comunità scientifica gioca un ruolo strategico nella costruzione di una nuova epistemologia e pratica ecologica. IPBES, in particolare, si sta evolvendo da organismo principalmente valutativo a catalizzatore di politiche trasformative per la biodiversità. Attraverso rapporti come Values Assessment, Trasformative Change e Nexus, citati nei paragrafi precedenti, IPBES fornisce evidenze scientifiche, linee guida operative,
indicatori e strumenti di valutazione che orientano le decisioni politiche e la gestione dei progetti di ripristino ecologico. La piattaforma funge da ponte tra scienza e governance, rafforzando l’integrazione dei valori ecologici nelle politiche pubbliche e private e supportando percorsi di trasformazione sistemica.
L’adozione di un ethos ecologico sistemico, sostenuto da strumenti globali e regionali, permette di affrontare in maniera coerente la tripla crisi ambientale. Questo ethos comporta la piena consapevolezza dell’interdipendenza tra società e natura, la responsabilità verso le generazioni future e la necessità di operare secondo principi di resilienza, equità e sostenibilità. L’interazione tra strumenti normativi concreti, scienza applicata e partecipazione sociale crea le condizioni per una reale riconfigurazione delle relazioni umano-natura, rappresentando un passo fondamentale verso una società capace di vivere in armonia con i sistemi viventi di cui fa parte.
In sintesi, il KM-GBF e la Nature Restoration Law, insieme al contributo scientifico di IPBES e al pensiero critico di autori come Latour e Mace, offrono una visione integrata per la gestione della crisi della natura, traducendo principi teorici in azioni concrete. Essi costituiscono strumenti indispensabili per costruire un futuro in cui la biodiversità non sia solo protetta, ma attivamente ripristinata, e in cui politica, scienza e comunità collaborino per sviluppare una relazione con la natura basata sull’interdipendenza, la cura e la responsabilità condivisa. L’evoluzione dei paradigmi di conservazione, dal Nature for Itself al People and Nature, conferma la necessità di superare approcci dualistici e protezionistici, adottando strategie integrate, partecipative e orientate alla resilienza dei sistemi socio-ecologici.
Un ragionamento parallelo può essere sviluppato rispetto all’IPCC, il principale organismo scientifico internazionale sul cambiamento climatico. I suoi rapporti - in particolare il Sesto Rapporto di Valutazione (IPCC, 2023) - evidenziano come la crisi climatica e quella della biodiversità siano strettamente interconnesse: il riscaldamento globale accelera la perdita di specie e degrada gli ecosistemi, mentre la distruzione degli ecosistemi riduce la capacità naturale di assorbire CO₂. L’IPCC sottolinea inoltre che la tutela e il ripristino degli ecosistemi naturali rappresentano soluzioni climatiche essenziali, capaci di contribuire fino al 30% della mitigazione necessaria entro il 2030.
Queste evidenze scientifiche rafforzano il senso e l’urgenza del KM-GBF, evidenziando che gli obiettivi di conservazione e ripristino della natura sono non solo una priorità ambientale autonoma, ma anche una componente chiave delle strategie globali sul clima.
Il Regolamento UE per il Ripristino della Natura (RRN) incorpora esplicitamente questa integrazione, traducendo - ovviamente a scala europea - le indicazioni dell’IPBES in obblighi vincolanti di ripristino degli ecosistemi terrestri, marini e agricoli, riconosciuti come elementi fondamentali per aumentare la resilienza climatica e ridurre le emissioni nette.
Infine, costruire un ethos dell’ecologia rappresenta un imperativo culturale, politico ed epistemico, che richiede una ridefinizione dei valori, delle pratiche e della conoscenza. Solo attraverso un approccio integrato, inclusivo e sistemico sarà possibile affrontare la tripla crisi ambientale, garantendo sostenibilità, resilienza e giustizia ambientale a livello globale.
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