Professionista ed imprenditore del marketing e della comunicazione per 23 anni. Da circa altri venti anni ritirato a “confuciana” vita di studio. Leggo, studio, scrivo come pensatore indipendente sul tema della complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica. Ultima pubblicazione: Benvenuti nell'Era Complessa, Diarkos, 2025.
Sommario
Nell’epoca che stiamo vivendo, compaiono una serie di limiti che rendono convivenza e compresenza dei vari sistemi umani sempre più problematica. Da qui, non solo una serie di crisi specifiche (economiche, demografiche, geopolitiche, climatico-ambientali etc.), ma una crisi di sistema generale. L’immagine di mondo moderna è particolarmente refrattaria al concetto di limite, la cultura sistemico-complessa può aiutare a riformare tali impostazioni per avere una nuova immagine di mondo più adatta e adattativa.
Parole chiave
Era complessa, cultura della complessità, concetto di limite, adattamento.
Summary
In the era in which we live, a series of limitations are emerging that make the coexistence of various human systems increasingly problematic. This has led not only to a series of specific crises (economic, demographic, geopolitical, climate-environmental, etc.), but also to a general systemic crisis. The modern worldview is particularly resistant to the concept of limitations; complex systemic culture can help reform these approaches to create a new, more suitable and adaptive worldview.
Keywords
Complex Age, complexity culture, concept of limits, adaptive system.
Il limite, secondo la canonica definizione di Aristotele, è “il termine estremo di ciascuna cosa, vale a dire quel termine … al di là del quale non si può trovare nulla della cosa e al di qua del quale c’è tutta la cosa”, è ciò che segna i confini della cosa. Esistono limiti spaziali, temporali e concettuali. In termini di Teoria dei sistemi, il limite spaziale è ciò oltre il quale il sistema cessa di esser tale, il limite temporale è ciò oltre il quale il sistema cessa di esistere, il limite concettuale è ciò oltre il quale la funzionalità di quel sistema - tarata su precedenti condizioni - non funziona più. Questo può portare alla dissoluzione del sistema o alla sua riformulazione. Per i sistemi, esistono quindi limiti fisici interni ed esterni, funzionali e temporali. Quelli esterni sono in genere dati da altri sistemi con i quali il sistema è interrelato e dal contesto che funge da ambiente-contenitore in cui il sistema è immerso.
Ogni nostra attività di conoscenza è una relazione tra il conoscente e il conosciuto, sia esso materiale o immateriale. Come conoscenti, abbiamo spesso un problema con il concetto di limite soprattutto temporale. La nostra consapevolezza della certezza della nostra morte ci pone una irrisolvibile contraddizione tra l’evidenza ineliminabile del fatto e la nostra intera complessione psico-biologica che è fatta per vivere al meglio e al più a lungo possibile, evitare o rimandare il più possibile la morte. Ciò è rilevante, soprattutto per le culture che sono innervate dalle credenze spirituali che promettono qualcosa di preciso e attraente dopo la morte fisica. Queste credenze hanno depositato come pensabile e per certi versi come esistente (solo perché pensabile) il concetto contrario del limite ovvero l’illimite che diventa poi il non finito o infinito. Questa metafisica influente ci distrae e illude che anche quando trattiamo sistemi o processi materiali e concreti, di essi si possa pensare l’infinitezza. Purtroppo, però, che noi si abbia esperienza fattiva, nel tutto ciò che è non risulta esserci alcuna cosa infinita, concetto per altro problematico poiché mai ne potremo avere esperienza essendo noi enti finiti.
La cultura occidentale, a cui apparteniamo e che qui ci interessa e riguarda in particolar modo, ha avuto un rapporto cauto con il concetto di limite lungo tutta l’antichità. Per Anassimandro l’illimite (apeiron) era ciò da cui tutto proveniva per distinzione e opposizione salvo poi, raggiunto il limite di esistenza temporale, ritornarvi. Il trascendimento dei limiti di Icaro era sanzionato dal Sole che ne bruciava le ali di cera (limiti funzionali) e da qui anche il concetto di hybris, ammonimento che ricordava che trascendere i limiti portava disgrazia, così per la nemesi che regolava il senso di limite in termini di giustizia. Ancor più anticamente, è nella saggezza precedente la nascita stessa della filosofia il detto “Nulla di troppo”, la c.d. “sapienza antica” così fino allo stesso Aristotele con suo “giusto mezzo” che per altro si trova anche in Confucio. Le Colonne d’Ercole ricordavano i limiti spaziali del conosciuto oltre le quali, così come nelle cartine geografiche antiche dell’Africa (Hic sunt leones in seguito Terrae Incognitae), l’oltre limite prometteva paurose catastrofi. I pragmatici Romani abbracciavano la saggezza della tradizione come garanzia di ciò che è conosciuto e oltre il quale c’era pericolo. Tuttavia, fu proprio la loro ignoranza dei limiti che li portò a manifestare in grande la patologia tipica di tutti gli imperi vecchi e nuovi (Alessandro, Cesare e altri, Carlo Magno, Napoleone, Hitler ma non solo nella storia occidentale vedi Unni, Mongoli poi Giapponesi) ovvero l’espandersi oltre i limiti delle funzionalità interne finendo col trovare altri sistemi di vita esterni che reagivano all’eccesso espansionistico limitandolo o come con le invasioni barbariche, invertendolo. I limiti funzionali sono quelli per cui dimensioni più piccole formano funzionalità che in grande non funzionano più. Lungo tutto il Medioevo, il dominio della credenza religiosa, della casta sacerdotale, dell’ordine politico-culturale-militare tra signori e preti, imponeva di rimanere dentro i limiti imposti da Dio o da chi ne faceva le veci in Terra.
Scandaloso quindi pensare l’oltre i limiti di Giordano Bruno, ma anche le nuove idee della nuova astronomia post-aristotelica che svincolava il pensiero dall’idea di piccolo e limitato universo con noi al centro. Come sempre accade, il pensiero va in parallelo al mondo concreto, a volte determinandolo a volte da esso determinato in anelli di retroazione in cui è spesso improprio cercar di precisare cosa è stato causa di cosa. Infatti, prima di Bruno e Copernico, furono i Portoghesi (che vivevano affacciati all’Oceano Atlantico e non al chiuso Mediterraneo), nel XV secolo, a iniziare il periodo delle Grandi Navigazioni. Assieme a loro gli Olandesi, anche loro appena usciti dal Mare del Nord alle prese con le distanze oceaniche. Dalle antiche paure degli spazi sconosciuti, gli europei presero a veleggiar per l’intero mondo scoprendo nuove terre, passaggi, coste e isole impensate, immense grandezze, ricchezze e varietà estreme.
Parallelamente, fisica, in parte chimica, scienza medica, cominciavano a emanciparsi dal recinto delle credenze tradizionali e prima con la rivoluzione artigiana, poi con quella scientifica e infine con quella industriale, appresero come manipolare materie ed energie per creare cose nuove in una vera e propria eccitata sbornia demiurgica. Da Francis Bacon in poi e proprio grazie alla poderosa spinta della rivoluzione prima tecnica, poi scientifica, il pensiero si aprì alla scoperta del mondo, del nuovo, dell’oltre-limite, su fino al concetto di progresso, instancabile processo di cumulazione infinta con ampie ricadute in termini di qualità di vita. Rimaneva l’idea di una vita paradisiaca dopo la morte, ma forse un po’ di paradiso si poteva provare a crearlo anche prima. L’incedere del progresso inciampava a volte in qualche catastrofe, ma come notò Schumpeter, ogni distruzione è propedeutica e forse necessaria per ogni ulteriore creazione, ed era questo il motore dello sviluppo economico come ancora oggi con l’attribuzione del Nobel per l’economia del 2025 a tre economisti che ne riprendono il concetto per riproporre l’idea di innovazione motore della necessaria crescita. L’enorme sviluppo dei trasporti, delle telecomunicazioni, degli scambi commerciali (infine con l’ultima “globalizzazione”) del primo e secondo Novecento, hanno saturato di umano lo spazio-Mondo come mai prima era avvenuto. Il pianeta esiste da 4,5 mld di anni e da 3 milioni è abitato ed esperito da umani, da poco più di cinquemila anni viviamo in civiltà, ma solo nell’ultimo secolo possiamo dire di aver creato “un” mondo, un gigantesco spazio comune nei limiti dello spazio terracqueo ma che occhieggia anche al grande spazio astronomico, nuova prossima frontiera della nostra irrefrenabile hybris espansiva.
Ogni epoca storica ha forme di pensiero che dominano l’intero sistema del pensiero stesso, forme che riflettono l’ordinatore principale della vita associata di una certa epoca. Fu così col pensiero politico dei Greci, con quello religioso del Medioevo, con quello scientifico ed economico del moderno. Pensiero e sistema in atto nella vita collettiva, come detto, sono coordinati e reciprocamente causali. Così, le società europee del moderno, dal Seicento in poi - a partire dall’Inghilterra, poi Gran Bretagna, poi Regno Unito - vennero ordinate per lo più dal fatto economico. L’economia moderna è un sistema fatto di: materie, energie, capitali e idee che confluiscono dentro attività produttive trasformatrici che, in molti casi, distribuiscono salari a chi vi partecipa col lavoro, alla fine delle quali escono prodotti o servizi scambiati al mercato che rilasciano profitti, tenore di vita e scarti, sia scarti di lavorazione che di consumo. Molti chiamano questo sistema “capitalistico”, ma il Capitale e gli interessi delle classi sociali che vi fanno ansiosamente riferimento, sono solo un aspetto del sistema. Così la presunzione tutta europea che tale sistema debba coincidere con il liberalismo di mercato. In Cina si applica perfettamente il sistema di economia moderna ma oltre al privato c’è lo Stato (che per altro, al di là delle edificanti teorie dominanti, c’è ampiamente anche nei sistemi economici occidentali). Altrettanto per quanto riguarda l’associazione tra economia di mercato e un sistema politico che produce delega ad una élite di comando che, per varie ragioni, viene assai impropriamente detto “democrazia” in spregio ad ogni fondamento di ciò che dovrebbe davvero essere una reale democrazia.
Va tenuto presente che tale sistema nacque ovvero si saldò come sistema completo ed anche con la scarsamente considerata cinghia di trasmissione politica, laddove il parlamento inglese - dopo la Gloriosa rivoluzione del 1688-89 (parlamento votato da meno dell’1% della popolazione) - divenne l’effettivo sovrano deliberando sempre e comunque in favore dello sviluppo del sistema economico ovvero dei suoi principali attori, nella Gran Bretagna del Settecento. Stante che per tali sistemi storici vale la regola che c’è sempre una lunga gestazione pregressa, molte componenti del sistema economico moderno provengono infatti fin dal Quattrocento e, tra l’altro, dall’Italia. Comunque, l’Inghilterra del Settecento contava tra 6 e 9 milioni di abitanti e gli sviluppi prima coloniali, poi imperiali, portarono in dote una incredibile abbondanza di materie a buon mercato, lavoro schiavile e servile, dominio valutario e finanziario. Essi, quando finirono di usare quasi tutti gli alberi che avevano per combustione e dopo che estrassero grandi quantità di carbon fossile, andarono ad appropriarsi delle fonti di energia fossile mediorientale (petrolio, poi gas) garantendosi un ampio approvvigionamento energetico a costi contenuti e con scarsissima concorrenza. Il sistema moderno poi si allargò all’Europa e agli Stati Uniti fino alla creazione del “sistema occidentale” nell’ultimo dopoguerra. Esso ha dominato il Mondo tramite istituzioni (ONU e Consiglio di Sicurezza, IMF, WB, varie istituzioni multilaterali fino al WTO e i circuiti banco-finanziari nonché il dollaro americano come moneta internazionale), politica internazionale, egemonia culturale, imponenti forze armate e arsenale atomico. Fino, dunque, a qualche decennio dopo la fine della Seconda guerra mondiale, questo sistema non avvertì alcun limite importante e la sua connessa cultura mantiene quindi la vocazione all’illimitatezza. Lo sfruttamento naturale è pensato infinito, il consumo altrettanto, il profitto anche, la crescita connessa al sistema, questo sì, prettamente basato sul capitale in cerca di riproduzione, altrettanto infinita.
Tutto ciò lo possiamo intendere in analogia biologica come il DNA del sistema, il sistema di economia moderna occidentale che è nato e cresciuto dominando in lungo e largo senza significativi limiti lungo tutta la sua storia, tale è nelle sue funzionalità, tale è nel suo pensiero. Invito chi legge a concentrarsi su gli aspetti funzionali del discorso, lasciamo da parte i giudizi etico-morali e le sempre più profonde diseguaglianze che il sistema, invero mal amministrato dalla politica (con l’economia che domina la politica invece del contrario), crea. Quello che interessa è capire come ha funzionato fino a oggi per capire come e perché da un po’ di tempo non funziona più come prima e sempre meno, per noi occidentali, funzionerà nel futuro. Quello che ci interessa non è giudicarlo, ma comprendere a quali gravi disfunzionalità sta andando incontro e perché. Capire la sua crisi che è poi la crisi dell’intero Occidente e del suo modo di stare al mondo, per capire come evitarla, emendarla, gestirla poiché da essa dipende la vita delle nostre società e quindi quella di ognuno di noi.
I primi ripensamenti a questo spensierata vocazione all’illimitatezza provengono proprio dalla cultura sistemico-complessa. Si parte, negli anni ‘50 dalla famosa frase attribuita all’economista anglo—americano Kenneth Boulding che recita più o meno: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista” (la formulazione originaria non è così ma più o meno questo il senso). Boulding era forse il primo vero economista sistemico e fu influente per tutto il successivo sviluppo di pensiero economico non mainstream quale: l’economia evolutiva, la bioeconomia (Georgescu Roegen), l’economia ecologica (Herman Daly, Tim Jackson), l’economia circolare, l’economia della decrescita (Serge Latouche), in parte anche l’economia blu (Gunter Pauli) ed anche l’allargamento di alcune correnti keynesiane come economia dell’abbondanza senza crescita, (Robert e Edward Skidelsky). La “mossa” nel pensiero di Boulding, fu semplicemente considerare il sistema economico non un astratto ma un concreto ovviamente inserito nel maggior sistema natura-ecologico terrestre. Oggi ciò ad alcuni pare ovvio, il che ci dice due cose: a) che, se ad alcuni pare ovvio, alla maggior parte del pensiero economico che si insegna nelle Università ciò non è ovvio affatto ed anzi, non è semplicemente contemplato; b) ci voleva un pensatore che solo negli anni ’50 ed altri, decenni dopo, si accorgessero di tale ovvietà per dirci quanto bizzarri siano i presupposti infinitisti e matematico/astratti dell’economia moderna. Quanto, cioè le nostre “immagini di mondo” non rispecchino realisticamente il mondo in sé, ma il mondo delle ideologie socio-storicamente determinate, il complesso mondo delle ideologie anche in questa sfortunata disciplina che paradossalmente si reputa “scienza” aggiungendo presunzione a confusione.
Ma il substrato culturale di Boulding e la cultura sistemico-complessa ci dice anche altro. Proprio negli scambi epistolari con il padre della moderna teoria dei sistemi, Ludwig von Bertalanffy, Boulding lamenta la grande difficoltà a promuovere studi multi-inter-transdisciplinari. È questa una questione cruciale per l’evoluzione dei nostri sistemi culturali. La monodisciplinarietà e, nelle sue evoluzioni, la specializzazione sul frammento, rendono ciechi verso la natura intrecciata e ambientata, quindi complessa, di ogni cosa. Altresì, nascita e sviluppo dei primi pensieri di ecologia hanno portato a considerare il contesto e l’ambiente, da Rachel Carson a James Lovelock e Lynn Margulis con la loro “Ipotesi Gaia”.
Da ciò, quattro punti decisivi. Primo, l’economia moderna, se ne diamo data di compiuta nascita nel Settecento inglese, nasce senza alcuna preoccupazione ecologica poiché ai tempi il rapporto tra sistema produttivo e ambiente era talmente largo da non porre alcun problema. Secondo, il sistema inglese protetto e promosso attivamente dal governo inglese, fu il primo e l’unico per parecchio tempo, per poi comunque restare il principale, senza concorrenti di rilievo. Quando si espanse a Francia e Germania ne vennero fuori due guerre mondiali. In seguito, godette delle eccezionali condizioni di possibilità date dall’impero informale americano. Terzo, la capacità di dominio coattivo (materie, energie, lavoro schiavile o servile) del sistema di economia moderno occidentale rispetto a tutto il resto mondo era talmente forte da non porre alcun grosso problema di approvvigionamento e di conto economico, quindi di profitto.
Infine, se pensiamo all’economia moderna come ad una serie di pratiche umane atte a migliorare le condizioni materiali di vita di una popolazione (per quanto in maniera ineguale), c’è forse un limite concreto ancora non ben compreso in termini di bisogni materiali. Noi, oggi, abbiamo una tale abbondanza che si fa sempre più fatica a trovare qualche decisiva innovazione che crei del “nuovo”, un “nuovo” che ormai da tempo ha saturato il necessario e che continua a produrre, sempre più a fatica, vari gradi di superfluità. Sebbene quasi tutto il pensiero economico, anche quello “critico” non lo abbia ancora rilevato, noi proveniamo da una storia recente che beneficiò delle fondamentali invenzioni della meccanica e del motore a vapore, poi della rivoluzione elettrica, poi chimica, poi sanitaria, poi delle telecomunicazioni, e dell’avvento degli elettrodomestici da casa. Questo, nei primi settanta anni (1870-1950) della sua storia più densa. Dal dopoguerra a oggi, nei secondi settanta anni, segniamo solo l’innovazione info-digitale ma, sebbene questa sia molto esaltata narrativamente anche per alimentare bolle finanziarie speculative, ha un impatto molto relativo in termini di prodotto interno lordo e nasconde anche perverse insidie come la pari diminuzione del lavoro umano. Quest’ultimo, se ci fosse una gestione politica e sociale adatta e non un incedere cieco che non accetta le retroazioni che suggerirebbero un ripensamento del sistema, sarebbe anche una opportunità di emancipazione dal lavoro e del tempo di vita. Ma questa capacità di autocontrollo sistemico non l’abbiamo e quindi il taglio del lavoro umano si trasforma in disoccupazione, sottooccupazione, salari tenuti bassi dallo squilibrio tra offerta o domanda di lavoro. Inserito nel più ampio concetto di progresso, abbiamo pensato che queste innovazioni radicali (che offrivano nuove radici per nuove infiorescenze di prodotto) potessero essere infinite, ma l’evidente sbilancio tra l’impeto fine XIX-primi XX secolo non ha avuto pari nei settanta anni dal dopoguerra a oggi. Compare quindi, un limite imprevisto e impensato. Il modo economico moderno non ha applicazione infinita, oltre a limiti esterni e di funzionalità ha un limite intrinseco nella sua possibilità di creare “cose nuove”. Questo oggi si legge nei differenziali di crescita e prospettive tra economie avanzate (a fine ciclo) e affluenti (a inizio ciclo).
È di nuovo la cultura sistemico-complessa ad aver lanciato un altro allarme col famoso rapporto “Limit to growth” (1972) che il Club di Roma aveva commissionato ad uno scienziato statistico sistemico, Jay Forrester, del M.I.T. Il Rapporto segnalava correttamente le ricadute disastrose e disordinanti del sistema economico moderno in un mondo che si andava facendo sempre più, umanamente denso. Tuttavia, non si conosce e condivide l’eccezionale inflazione demografica degli ultimi settanta anni, nei quali la popolazione umana si è più che triplicata (!). Un fatto storico eccezionale per tempi (soli settanta anni) e dimensioni (da 2,5 agli attuali 8,2 mld di persone) che disegna semplicemente un mondo del tutto nuovo e che richiederebbe un modo del tutto nuovo di abitarlo. Ma se non riusciamo neanche a darci una intelligenza di sistema dentro i singoli Stati che riesca socialmente, politicamente e culturalmente a gestire le tante retroazioni disfunzionali del sistema, è vano e irrealistico aspettarsi sia possibile una intelligenza di sistema-mondo che tratti la sempre più difficile relazione tra sistema umano e sistema planetario.
Nel frattempo, quello che prima chiamavamo “Resto del mondo” (asiatico, africano, musulmano, sudamericano) si sta progressivamente emancipando dal dominio occidentale. Ad un certo punto, più o meno tra fine anni Ottanta e primi Novanta, noi stessi vi abbiamo visto l’opportunità di allargare il sistema moderno incentivandone lo sviluppo con una insensata globalizzazione che oggi proviamo a revocare (a partire dagli Stati Uniti d’America, il primo agente globalizzatore e oggi il primo de-globalizzatore) cercando di rimettere il famoso e impossibile coperchio al Vaso di Pandora. Tuttavia, questo processo di emancipazione è passato, a partire dalla Cina di Deng Xiaoping, all’utilizzo intenso dell’economia moderna. Il risultato è uno straordinario aumento dell’impatto di domanda di materie ed energie e produzione scarti con impatto ambientale, ma anche sempre più intensa concorrenza tra i giovani sistemi affluenti e lo stanco sistema occidentale composto per altro da popolazione sempre più anziana e in vistosa contrazione rispetto alle altre. Infine, la crescita intensa dei sistemi nuovi ha prodotto la ricchezza necessaria ad esser investita anche nei sistemi d’arma così che, come già noi ne beneficiammo in solitaria, la ricchezza economica trasforma la ricchezza economica in potenza geopolitica.
Come mostrano con autorevolezza e chiarezza concreta gli studi di Branko Milanovic sulla dinamica complessiva della “globalizzazione”, l’Occidente ha aiutato lo sviluppo del Resto del mondo dove si è andata formando una inedita e voluminosa “classe media” al prezzo dell’impoverimento della nostra classe media e l’enorme arricchimento di una frazione minima della sua popolazione che ha investito finanziariamente su quella crescita. Quella minima frazione occupa la cuspide di società sempre più allungate e domina non solo l’economia diventata ormai banco-finanza, ma anche la cultura e la politica, paralizzando ogni ripensamento e aggiustamento di sistema.
Da ciò, la grande crisi sistemica del mondo occidentale contemporaneo. Noi occidentali pesiamo demograficamente sempre meno (da più di un terzo dell’intero mondo dei primi ‘900 a meno di un sesto di oggi) e neanche più ci riproduciamo a livelli almeno di sostituzione (2,1 figli per coppia) per cui il peso è destinato a diminuire ulteriormente nei prossimi decenni. L’invecchiamento generalizzato sottrae forza lavoro, diminuisce produttività e accresce i bisogni di assistenza con Stati alle prese con pressioni su bilanci gravati da pesanti debiti. Da tempo, dagli anni Ottanta, abbiamo progressivamente esportato parti rilevanti e strategiche del sistema produttivo in favore di una meno solida economia dei servizi e soprattutto un enorme speculazione finanziaria che però non ridistribuisce ricchezza sociale e reale, tra l’altro indebitandoci verso le generazioni future senza limiti. Abbiamo forse esplorato e sfruttato gran parte dello spazio delle condizioni di possibilità di sviluppo, non troviamo più “invenzioni” generative come quelle di fine Ottocento e primi Novecento.
C’è stato un poderoso sviluppo delle economie degli altri Paesi del mondo, economie che hanno davanti decenni di crescita poiché lì lo spazio della necessità e delle possibilità è vastissimo e speso ancora vergine (si pensi all’Africa che tra l’altro nel 2050 peserà il 25% del mondo intero). Queste creano concorrenza di molti fattori a cui non siamo in grado di stare appresso e il vantaggio iniziale più elementare (ad esempio il costo del lavoro e la scarsa limitazione legislativa) oggi è passato a una concorrenza sempre più sofisticata e tecnologica (vedi Cina). Queste economie emergenti si vanno trasformando in attori geopolitici competitivi in uno scenario multipolare che facciamo sempre più fatica a comprendere. Il tutto crea anche un sempre più vasto e intenso problema di impatto eco-ambientale-climatico che non siamo in grado di leggere, accettare, gestire. Questo è un problema del mondo visto come un Uno, ma il mondo umano non è Uno, bensì è frazionato in attori concorrenti. Molti Paesi in via di sviluppo fanno notare che questo problema è comune, ma molto di esso lo abbiamo creato noi nel secolo e mezzo precedente portandoci al nostro attuale livello di ricchezza e potenza. Ora anche loro reclamano quel livello e suona ben poco credibile il nostro appello alla responsabilità comune quando nei fatti anche noi continuiamo ad estrarre, produrre, consumare e rilasciare scarti come se non ci fosse un domani.
La crisi del sistema occidentale va letta in maniera sistemica, va osservata leggendo la comparsa sincronica dei limiti citati all’inizio. Compare il limite di funzionalità poiché il modo economico moderno ha indubbiamente alzato il nostro tenore di vita materiale ma, da settanta anni, violenta la teoria dei bisogni con pubblicità, consumismo e superfluità poiché ha esaurito la sua iniziale spinta creativa propulsiva e le “ragioni delle necessità”. Un consumismo per altro limitato da restrizioni sul potere d’acquisto dovute a salari che dovevano renderci competitivi con Paesi ancora non sviluppati associate a politiche statali di austerità, un vero assurdo. Un sistema che non è in grado di soddisfare bisogni immateriali che non siano apparire quello che non si è, oltretutto generando frustrazione e depressione ormai dilagante. Inoltre, essendo scollegato da un sistema sociale e politico che ne controlli la ridistribuzione e la strategia, da almeno tre decenni corrode sempre più l’esistenza della classe mediana che è l’effettivo stabilizzatore di un sistema di vita associata. Compaiono poi vari limiti esterni. Quelli di un mondo che non dominiamo più, quelli dati da nuovi sistemi concorrenti, sistemi economici ma poi geopolitici che stanno portando il sistema cardine dell’Occidente ovvero gli Stati Uniti a defezionare progressivamente da ogni istituzione multilaterale. Limiti crescenti anche nella facile reperibilità di materie prime e fonti energetiche che ora ci spingono verso le profondità oceaniche, i circoli polari o addirittura lo spazio extra-terrestre. Infine, il grande ed epocale problema della compatibilità tra gli attuali 8 e i prossimi forse 10 miliardi di umani che usano il modo economico moderno massimamente entropico e perturbante per gli equilibri naturali, nella Natura di cui ed in cui tutti viviamo, essendone una parte.
Un limite di secondo livello è poi la forma dei nostri sistemi di conoscenza, che presiedono le nostre immagini di mondo, da cui le nostre teorie economiche, culturali, politiche e geopolitiche. Qui i limiti sono sia ontologici (ogni cosa è un sistema), sia gnoseologici (unicità delle forme disciplinari e successive ultra-specializzazioni e mancanza completa di forme multi-inter-transdisciplinari). Ma anche epistemici poiché risultano ignoti ai più i concetti di feedback, auto-organizzazione, emergenza, Secondo principio della termodinamica, dipendenza dal percorso, contestualismo, relazionalismo, adattamentismo e molto altro della nostra pur ricca cultura sistemico-complessa. Una cultura almeno conosciuta in ecologia e sociologia e un po’ in storia ma misconosciuta in economia e politica. Non solo mancano le “forme” idonee, ma abbiamo ingombri concettuali e teorici dati dalla persistenza di teorie sia sull’uomo, che sul mondo, che sono state forgiate all’apice dello sviluppo del sistema moderno, nel XIX secolo. Tra cui la totale assenza di qualsivoglia presenza proprio del concetto di limite visto che sia il concetto di progresso che quello di crescita economica erano, implicitamente o esplicitamente, intesi come infiniti potenziali.
Come ricorda l’etimologia, dal concetto greco di “crisi”, soprattutto nei casi di una “crisi sistemica”, si esce o con una catastrofe annichilente o riformulando interamente il sistema in crisi. I nostri sistemi di conoscenza, oggi, hanno grossa difficoltà a condurre una corretta anamnesi per formulare la corretta diagnosi di questa crisi. Da qui la successiva difficoltà di fare prognosi e somministrare la cura per evitare la catastrofe di sistema. Naturalmente non è solo un problema culturale, è che la cultura che ereditiamo - esplicitamente e implicitamente - è innervata con le forme sociali in cui e di cui tutti viviamo e ha occhiuti guardiani ideologici che cercano di prorogarne la vigenza ostracizzando ogni pensiero alternativo. La cultura sistemico-complessa è la nostra miglior opzione per riformulare i sistemi di pensiero in modo da poter trattare correttamente questo difficile passaggio storico. Un passaggio storico segnato da limiti che stanno provocando crisi a ripetizione in tanti aspetti delle nostre forme di vita associata.
Tuttavia, anche la nostra cultura ha i suoi limiti. Nata e sviluppata da non più di settanta anni, la sua componente “scientifica” è ben maggiore di quella dei saperi storico-sociali. Sebbene a vocazione multi-inter—transdisciplinare l’assorbimento del concetto di sistema complesso nella teoria, per non parlare nelle pratiche della politica, è praticamente nulla. Per chi si imbarca, come chi scrive, in studi multidisciplinari, non rimane altro che investire molto tempo nello studio su centinaia e centinaia di libri e manuali per entrare almeno in prima confidenza con i vari ambiti disciplinari, non facendo alcuna distinzione di rilevanza tra saperi scientifici, storico sociali e umanistici. Mancano sintesi e sintesi di sintesi e la multidisciplinarietà è ancora “terra incognita”. È una cultura non sistematizzata che per altro non ha praticamente alcuna presenza nella trasmissione istituzionalizzata del sapere e delle conoscenze (scuola, università, accademie, media). La nostra occidentale forma culturale, concetti, conoscenza, logica sono ancora prettamente moderne e così i sistemi di pensiero che chiamiamo ideologie. Vieppiù, come abbiamo visto, le forme sociali, economiche e politiche. Il concetto di limite che potrebbe retroagire cambiando la forma di molte teorie e saperi, nei nostri sistemi di conoscenza, spesso non c’è e troppo spesso facciamo spericolate analogie traendo schemi dal mondo delle cose morte a quello delle cose vive e a quello delle cose pensanti o, peggio, auto-coscienti.
Paradossalmente ma poi neanche così tanto, la nostra era in transizione mostra caratteri di crescente complessità tanto forse da meritare il nome proprio di “era complessa”, con un aumento vertiginoso delle varietà componenti (umane e socio-istituzionali) e delle interrelazioni tra le parti. Questa inflazione umana tocca ormai ripetutamente i bordi (i limiti) del pianeta (contesto) che siano ambientali, climatici, geopolitici, geoeconomici. Tutto ciò si è verificato in un tempo storico molto breve, solo settanta anni. Il mondo umano è e sta cambiando velocemente e nel profondo, i nostri schemi mentali, le mentalità, le immagini di mondo, no. Ecco quindi che letteralmente, a fronte di una fenomenologia sempre più vivace e inquietante (epidemie, colossi ecologici, perturbazioni climatiche, guerre, asfissia economica, tecnologie dai perversi impatti in nome della presunta “semplificazione”), capiamo il mondo sempre meno e quindi semplifichiamo oltre il dovuto e su queste semplificazioni manichee litighiamo, sebbene sul nulla ripieno di niente. I sistemi complessi si auto-organizzano di norma ma, mentre lasciamo mani libere al disordine creativo dell’economia, ormai più finanza che economia reale, abbiamo essiccato l’auto-organizzazione politica che ha la sua unica forma possibile in una reale democrazia. L’unica modalità che avremmo per cambiare la nostra società e stili di vita è sempre meno a nostra disposizione stante che neanche sapremmo bene in che direzione cambiare, non riuscendo a pensare l’intero e il reale visto che pensiamo ideologicamente e idealmente il mondo pezzo per pezzo.
Ne consegue il severo rischio di disadattamento. Il mondo sta andando vero una direzione, noi verso quella opposta. Più che rischiare una catastrofe concentrata nel tempo, rischiamo una lunga e continuata sofferenza sempre più caotica che chiamerà forme politiche sempre più imperative e sclerotiche per reazione. Il disordine chiama l’ordine e più dell’uno, più dell’altro. Ecco allora che noi della cultura sistemico complessa forse dovremmo fare di più, pensare di più e meglio, scrivere, dibattere, far entrare la nostra cultura nel tessuto del pensiero contemporaneo con maggior forza e intenzione. Non possiamo più limitarci ad interpretare il mondo, il mondo chiama il nostro cambiamento - individuale, sociale, culturale - e un mondo complesso chiama una maggiore comprensione e condivisione di una cultura sistemico-complessa in forme generalizzate, da portare soprattutto in politica. Abbiamo molto da fare e poco tempo.
Bibliografia
Aristotele, 2000. Metafisica, Bompiani, Milano.
Bodei R., 2016. Limite, il Mulino, Bologna.
Bertalanffy, L.v., 2004. Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, Mondadori, Milano.
Diamond J., 2014. Collasso. Come le società decidono di morire o vivere, Einaudi, Torino.
Gould, S.J., 1997. Gli alberi non crescono fino al cielo, Mondadori, Milano.
I Sette Sapienti. Snell B. (edizione di), 2005. Vite e opinioni, Bompiani, Milano.
Lakner, C., Milanovic, B. 2013. Global Income Distribution from the Fall of the Berlin Wall to the Great Recession, The World Bank.
McNeill, J.R., Engelke P., 2018. La grande accelerazione. Una storia ambientale dell'Antropocene dopo il 1945, Einaudi, Torino.
Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J, 2018. I limiti alla crescita. Rapporto del System Dynamics Group del MIT per il progetto del Club di Roma sulla difficile situazione dell'umanità, LuCe edizioni.
Schumpeter J.A., 2023. Capitalismo, socialismo e democrazia, Meltemi, Milano.
Scott, R. 2016. Kenneth Boulding, Palgrave Macmillan.
Tainter J. 1990. The Collapse of Complex Society, Cambridge University Press.