Epidemiologo, già dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità e direttore del Reparto Salute della donna e dell’età evolutiva del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della salute
Sommario
Il Servizio sanitario italiano è segnato da sottofinanziamento, sprechi e crescente medicalizzazione, con conseguenti disuguaglianze e rinuncia alle cure. La riforma del 1978 è stata tradita da interessi corporativi e scarsa attenzione agli esiti. Il percorso nascita mostra forte inappropriatezza: la gravidanza fisiologica è trattata come patologia e i consultori sono marginalizzati. La medicalizzazione genera disempowerment. Serve tornare a un sistema orientato a salute, equità e competenze.
Parole chiave
sanità pubblica, obiettivi di salute, equità, empowerment, medicalizzazione, inappropriatezza, impotenza appresa
Summary
Italy’s public healthcare system faces underfunding, waste, and growing medicalization, worsening inequalities and causing many to forgo care. The 1978 reform’s goals—participation, health promotion, and equity—have been eroded by corporatism and focus on services over outcomes. The childbirth pathway shows this drift: physiological pregnancy is treated as pathology, marginalizing midwives and counselling centers. Excessive intervention disempowers women and worsens outcomes. A renewed focus on health, equity, and professional competence is essential.
Keywords
public health, health goals, equity, empowerment medicalization, inappropriateness, learned helplessnes.
La crisi
Si sprecano risorse, poche, per fare troppo e non fare abbastanza.
Rispetto al prodotto interno lordo, la quota destinata al servizio sanitario pubblico è tra i valori più bassi nel contesto europeo, per di più la componente assorbita da interventi inutili o inappropriati è dell’ordine del 20-30 percento.
Circa il 10% della popolazione rinuncia alle cure per la lunghezza delle liste d’attesa, costi o difficoltà strutturali, non avendo risorse per accedere al privato.
Chi può disporre di risparmi, che preferirebbe utilizzare per altri scopi, è costretto a dirottarli per servizi che dovrebbero essere garantiti come ritorno delle tasse che paga, si stima qualcosa come 40 miliardi di euri (Sabbadini L.L., 2025; Gimbe, Rapporto 2025).
Il processo di medicalizzazione della vita è sempre più prepotente: chi promuove la medicalizzazione parte dall’assunto che la persona che si ritiene sana semplicemente non sa di essere malata e il tecnico, armato dei presidi tecnologici si fa strumento della medicalizzazione. Ma i presidi tecnologici sviluppati grazie al progresso delle conoscenze scientifiche non sono automaticamente validi senza adeguate prove scientifiche di efficacia nella pratica e in ogni contesto.
Aumenta la disuguaglianza delle condizioni di salute per stato sociale.
Il privato convenzionato conquista sempre più spazio a svantaggio del servizio pubblico.
L’allocazione delle risorse
Oggi la propaganda del nemico alle porte costruisce la giustificazione dell’aumento della spesa militare a scapito di quella per i servizi socio-sanitari, per la scuola e per la ricerca.
La scusa del nemico alle porte viene addotta anche per silenziare il pensiero critico con il tentativo di uniformare l’insegnamento secondo l’ideologia dominante. La sottrazione delle risorse alla ricerca favorisce il ricorso al finanziamento privato con conseguenze evidenti di condizionamento, e così la libertà della ricerca stessa, con il committente che si arroga il diritto di decidere se pubblicare o meno e cosa pubblicare dei risultati, viene messa in discussione. A livello europeo si bocciano le proposte di creazione di entità pubbliche sovranazionali per la ricerca e la sperimentazione di farmaci innovativi e farmaci orfani, secondo il modello del CERN, per la fisica delle alte energie.
I fondamenti della legge 833/78
Si è ben distanti dalla visione che ha ispirato la legge di riforma sanitaria del 1978 (833/78). I cardini si possono identificare nella centralità della persona come agente attivo e non passivo della salute (un aspetto dell’art.3 della costituzione) e nella promozione della salute. Con la riforma si ha un radicale cambiamento di paradigmi: da un modello biomedico a un modello sociale di salute e da un modello di welfare paternalistico direttivo a un modello partecipativo e di empowerment.
La legge incorpora le istanze che il conflitto sociale e il movimento delle donne hanno proposto all’ordine del giorno nel decennio precedente: il riconoscimento che quelle sociali sono le “cause dietro le cause”, dicibili solo dalla persona, a cui va riconosciuto il diritto alla parola. Altra istanza centrale è il recepimento della rivendicazione dell’autodeterminazione.
La creazione di un servizio sanitario pubblico universale dà attuazione all’art.32 della costituzione. Vale la pena ricordare che nell’articolo 32 non si fa riferimento a chi ha la cittadinanza italiana, si parla di tutti gli individui presenti sul territorio nazionale a qualsiasi titolo, con la consapevolezza che la salute di ciascuna persona dipende da quella di tutte le altre (salute come bene pubblico) e che la salute dei più abbienti migliora se migliora quella dei meno abbienti, il che è ulteriore giustificazione della progressione della tassazione.
Il governo del servizio sanitario nazionale
Ma un servizio sanitario pubblico universale può funzionare solo a condizione che sia considerato come un sistema fatto di integrazione e interazione tra le sue componenti, e messo in tensione dalla necessità di conseguire obiettivi di salute, misurabili con adeguati indicatori di processo (quante persone bisognevoli di cure o da coinvolgere nelle strategie di promozione della salute, sono state coinvolte), di risultato (per quante persone coinvolte sul totale le attività hanno prodotto i risultati attesi), e infine di esito (quanto si sono modificate/ridotte la prevalenza o l’incidenza delle condizioni o degli eventi di sofferenza nelle comunità). Gli indicatori non devono essere differenti per condizione sociale. Perché un servizio sanitario pubblico universale ha ragione di esistere se e soltanto si dimostra in grado di ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali.
È ragionevole che si possa parlare di democrazia solo quando il sistema è costantemente in tensione per ridurre le disuguaglianze sociali, condizione fondamentale per la piena espressione delle potenzialità della persona umana nella sua irriducibile individualità, perché ogni persona goda della creatività di ogni altra persona.
Riguardo la valutazione degli esiti e la disponibilità degli indicatori, la legge 833/78 delinea la rete epidemiologica nazionale negli uffici statistico-epidemiologici delle USL, negli osservatori epidemiologici regionali in rete con l’osservatorio epidemiologico nazionale presso l’Istituto Superiore di Sanità, organo tecnico scientifico del Servizio Sanitario Nazionale.
La partecipazione della comunità
La legge di riforma delinea anche come cardine la Conferenza Sanitaria Locale, organo consultivo della USL, promossa e diretta dal sindaco e alla quale partecipano le componenti attive della comunità, al fine, da una parte di valutare la “messa a terra” locale della programmazione regionale (a sua volta riferita alla programmazione nazionale) e, dall’altra di discutere del funzionamento della USL, alla luce degli indicatori locali, regionali e nazionali. Ciò permette al sindaco di avere cognizione di causa nell’esprimere parere, come previsto dalla legge, sull’operato del direttore generale al presidente di regione che lo ha nominato. La comunità quindi viene coinvolta nel funzionamento del sistema sanitario, e ha diritto di parola se è in grado di prendere la parola.
La legge prevedeva piani sanitari nazionali delineati a partire dagli obiettivi di salute, discussi nel Consiglio Sanitario Nazionale e approvati dal parlamento.
La comunità non è quindi passiva recettrice di prestazioni. Il ruolo attivo della comunità rende la salute da bene pubblico a bene comune.
Parlare di servizio sanitario nazionale come erogatore di prestazioni gratuite è assolutamente fuorviante, anche dal punto di vista simbolico, visto che il sistema è sostenuto dalla tassazione generale e il ritorno alla comunità delle tasse in termini di “salario reale” si ha solo se si ha a che fare con prestazioni e attività efficaci nella pratica e che producono impatto di sanità pubblica.
Se un servizio è gratuito bisogna accontentarsi di quello che elargisce il “sovrano”. Se il servizio è finanziato con le tasse, che qualcuno sciaguratamente le ha definite pizzo di stato, chi paga le tasse ha titolo di prendere la parola sull’uso che si fa delle tasse stesse, non solo in cabina elettorale ma in corso d’opera. La rete epidemiologica nazionale deve fornire i dati epidemiologici per la valutazione del sistema in tutte le articolazioni al fine di identificare gli aspetti critici su cui intervenire in termini di decisioni politiche sull’allocazione delle risorse, di modificazione delle strategie operative, di aggiornamenti strutturali e infrastrutturali e di aggiornamenti professionali, anche alla luce delle nuove conoscenze che si acquisiscono. Dal che si evidenzia che programmazione, valutazione e formazione rappresentano un circuito virtuoso senza il quale i singoli termini perdono di significato concreto e sono futili esercizi che sprecano risorse.
Le opportunità e le resistenze
La legge di riforma sanitaria indica il processo il cui rispetto fa sì che tutte le forze in gioco operino in trasparenza con assunzioni specifiche di responsabilità, evitando il gioco perverso di chi assume come alibi delle proprie manchevolezze, le manchevolezze degli altri.
Erano evidenti gli ostacoli allo sviluppo del processo di applicazione della legge 833/78. I servizi tradizionali di cura presentavano un personale formato secondo un modello biomedico di salute e con comportamenti paternalistico direttivi.
Certo, una parte non trascurabile del nuovo personale aveva vissuto il conflitto sociale degli anni sessanta e settanta, entrando nel sistema con grande volontà di farlo funzionare secondo i principi ispiratori. Un conflitto sociale che ha cambiato radicalmente il volto della società con una legislazione finalmente applicativa della Costituzione, dallo statuto dei diritti dei lavoratori, dal diritto di famiglia e dal divorzio, all’istituzione dei consultori familiari (legge 405/75), alla legge 180/78 (legge Basaglia), alla legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza e finalmente alla legge 833/78.
Singolare è la vicenda dei consultori familiari, unici servizi innovativi che esprimevano in pieno lo spirito della 833/78: modello sociale di salute (l’equipe multidisciplinare), approccio partecipativo e di empowerment, particolarmente dedicato alla promozione della salute, riconoscendo la centralità della salute della donna e dell’età evolutiva. Vicenda singolare perché questi servizi sono stati da subito non valorizzati appieno, emarginati e denigrati proprio perché avevano capacità di ascolto nell’approccio partecipativo e di empowerment: rappresentavano una minaccia al paternalismo direttivo dominante con la loro attenzione alle cause dietro le cause.
Tale marginalizzazione si è verificata nonostante le sistematiche e continue prese di posizione formali, da parte sia del Parlamento sia dell’Esecutivo, a sostegno dei consultori familiari. Ne sono testimonianza:
· le relazioni annuali dei ministri al Parlamento sull’applicazione della legge 194/78;
· la relazione finale del Comitato Operativo Materno Infantile (1987-89), istituito dal ministro Donat Cattin, a seguito della quale furono stanziati 50 miliardi per il potenziamento della rete consultoriale nelle regioni del Sud. Tale relazione fu poi inserita nella relazione al Parlamento sull’applicazione della legge 194/78 (Guzzanti E., 1995) presentata nel 1995 dal ministro Guzzanti, che aveva presieduto il Comitato. La discussione che seguì alla presentazione di questa relazione portò all’approvazione della legge 34/96, che fissava un consultorio ogni 20.000 abitanti e stanziava 200 miliardi per il potenziamento e la riqualificazione dei consultori familiari su tutto il territorio nazionale.
· il Progetto Obiettivo Materno Infantile, varato nel 2000 e inserito nei LEA nel 2002 (Presidente del Consiglio dei Ministri, 2001).
Un contributo determinante alla valorizzazione e al potenziamento dei consultori familiari è stato fornito anche dalle indagini epidemiologiche dell’Istituto Superiore di Sanità (Grandolfo M., Spinelli A. et altri, 1991).
Ma l’azione di contrasto all’applicazione della legge di riforma sanitaria è stata esercitata da subito dalle corporazioni professionali e dai produttori dei presidi medico sanitari. Quindi non più obiettivi di salute da raggiungere ma prestazioni da erogare. E ogni corporazione, anche in relazione alla forza corporativa, considerava le proprie prestazioni più importanti, a cui dedicare maggiori risorse. Tale approccio mina alle fondamenta il sistema: interazioni e integrazioni divengono opzioni, se non impacci burocratici. Rende il professionista sanitario indifferente ai risultati.
Va ribadito che i risultati sono valutabili solo a livello di comunità e non a quello individuale, per la non disponibilità della prova controfattuale. Il surrogato della prova controfattuale è fornito dalla ricerca epidemiologica al servizio di chi opera sul campo, con il confronto scientificamente impostato tra gruppi.
Viene privilegiato il modello dei re taumaturghi (Bloch M., 1973): se c’è il risanamento è merito del re, per grazia divina e a giustificazione delle legittimità del suo potere, se le cose vanno male significa che il risanamento non è meritato, eventualmente è il corso della natura. Il grande paradosso sta nell’affermazione di lavorare secondo scienza e coscienza, quando non infrequentemente non si tiene conto delle conoscenze scientifiche consolidate, non solo per ignoranza ma anche per conflitti di interesse.
L’esercizio della valutazione degli esiti in termini di salute è fondamentale perché le conoscenze scientifiche non sono date una volta per tutte, e in quanto scientifiche hanno un margine di errore e sono comunque acquisite in contesti molto limitati e sulla base di paradigmi assunti più o meno consapevolmente. Tali conoscenze devono essere messe alla prova in tutti i possibili contesti con studi controllati post-marketing che vedono i
professionisti attori imprescindibili. Pertanto i professionisti, attivamente coinvolti nel processo di valutazione grazie all’avere “le mani in pasta” divengono gli attori fondamentali del progresso delle conoscenze.
Si è preferita, invece, la strada della valutazione dell’”efficienza” data dal rapporto tra prestazioni erogate e risorse impiegate, dando per scontato che le prestazioni siano efficaci, efficaci nella pratica. Ma se non sono efficaci, per esempio quando non sono applicate appropriatamente, l’efficienza è zero, qualunque valore mettiamo a denominatore.
Linee guida e protocolli
Un tentativo per porre le basi per una valutazione della qualità è costituito dall’elaborazione di linee guida e di protocolli conseguenti. Ma se non si seguono le procedure raccomandate a livello internazionale (Institute of Medicine, 2011) si ha il rischio di produrre indicazioni autoreferenziali.
Peraltro, c’è il “vezzo” di considerare i trial clinici randomizzati, controllati con placebo, a doppio cieco, come le uniche modalità sperimentali che forniscono “certezze”. Non sempre sono eticamente ammissibili e non infrequentemente vengono effettuati, anche violando principi etici, per favorire l’immissione in commercio di farmaci “vengo anch’io (“me too drug)”. Classica violazione degli aspetti etici è l’uso del placebo quando è disponibile un farmaco con nota efficacia e raccomandato: usandolo il farmaco “vengo anch’io, ha poca possibilità di successo, senza il suo uso il farmaco a sperimentazione ha maggiore probabilità di essere commercializzato se dimostra comunque un’efficacia maggiore rispetto al placebo. Poi ci penserà la potenza della multinazionale a farlo affermare a discapito, e a maggior costo, di quello già in uso. Un particolare uso inaccettabile di trial clinici randomizzati si ha quando si vuole dimostrare che il rispetto della fisiologia è meglio del non rispetto. Bastano e avanzano buon i studi osservazionali retrospettivi o prospettici per dimostrare che la violazione della fisiologia produce danno.
Se le linee guida devono rappresentare i termini di riferimento, è imprescindibile la valutazione clinica con la consapevolezza della irriducibilità della persona a qualunque schema precostituito, tenendo conto dei fattori sociali e, soprattutto sue delle preferenze, fatte venire alla luce con l’arte socratica della maieutica, essendo la persona unica titolare a dare peso ai vantaggi e ai rischi associati alle varie alternative emergenti nel processo decisionale. Le linee guida, i protocolli non decidono!
Le linee guida fanno riferimento al conosciuto consolidato, con tutti i limiti associati e sono caratterizzate da raccomandazioni la cui forza dipende dalla qualità del conosciuto.
Proprio per i più o meno consistenti margini di incertezza e in ragione dei cambiamenti la continua valutazione della qualità è imprescindibile.
Relazioni di empowerment o relazioni di potere
Un ambito in cui si ha la maggiore distanza tra le conoscenze scientifiche e le raccomandazioni conseguenti riguarda il percorso nascita, la cui medicalizzazione è espressione paradigmatica di inappropriatezza.
Quando una persona percepisce un bisogno di salute e ha una pur minima capacità di cercare salute è certamente in una condizione di oggettiva e soggettiva dipendenza. Si rivolge al terapeuta, a cui si affida, con la speranza che provveda a risolverle il problema. In un modello paternalistico direttivo, il terapeuta traduce in domanda il bisogno percepito di salute, fornisce una soluzione a cui la persona si deve attenere e valuta l’esito. Le cose possono andare bene grazie, indipendentemente o nonostante i rimedi prescritti: se vanno bene il terapeuta se ne prende, riconosciuto, il merito, ma se vanno male è frequente la giustificazione che è il corso della natura, che la medicina non è una scienza esatta, che la persona non ha seguito le raccomandazioni. È una classica situazione di autoreferenzialità e di conflitto di interesse. È il modello dei re taumaturghi, già citato, che evidenzia la dimensione di potere associata alla relazione terapeutica basata sul modello di salute biomedico e sul sistema relazionale del paternalismo direttivo. Con il corollario del biasimo delle vittime.
Particolarmente ridicola l’affermazione che la medicina non sia una scienza esatta, classico ossimoro: una affermazione si può ritenere scientifica nel contesto dato se e soltanto se è corredata dalla calcolata probabilità che sia sbagliata, come sanno bene i fisici.
Un aspetto particolarmente increscioso è la rinuncia a una valida anamnesi, alla prescrizione di default di test diagnostici sulla base dei quali trarre conclusioni, eventualmente con l’assistenza dell’intelligenza artificiale.
In un modello bio-psico-sociale è imperativo che venga raccolta la storia prossima e remota della persona, con particolare attenzione ai determinanti sociali. E la storia può essere raccolta solo se la relazione è basata sul rispetto, la gentilezza, l’empatia, la compassione e l’umiltà, anche (soprattutto) quando si ha a che fare con i “brutti, sporchi e cattivi”. Non si tratta di benevolenza ma della consapevolezza che nella cura il ruolo attivo della persona è cruciale per migliorare gli esiti, per questo si parla di alleanza terapeutica.
Parlare di umanizzazione delle cure è profondamente fuorviante: mettere al centro la persona non è un’opzione etica di cui si può anche fare a meno, è una necessità imprescindibile per assicurare maggiore efficacia e maggiore impatto. Pertanto, rispetto, gentilezza, empatia, compassione, umiltà sono fondamentali competenze professionali. Ricordando che l’umiltà, principessa delle arti etiche, è fondamento della conoscenza e che la compassione, regina delle arti etiche, è fondamento della democrazia (Negri T., 1990).
La promozione della salute
Lo scenario cambia quando si considera la promozione della salute nella prospettiva di ridurre il rischio di malattie attraverso l’adesione a programmi di prevenzione e l’adozione di adeguati stili di vita. In primo luogo va detto che la valutazione dell’attività di promozione della salute non è possibile a livello individuale ma solo a livello di comunità, mediante l’osservazione della riduzione di incidenza o di prevalenza di eventi o condizioni di malattia. Quindi, non ha senso parlare di attività di promozione della salute se non nel contesto di strategie operative che definiscono gli obiettivi, i sistemi e gli indicatori di valutazione (indicatori di esito), nonché la popolazione “bersaglio” da coinvolgere (indicatore di processo: quante persone coinvolte sul totale da coinvolgere), quali attività da adottare, basate su prove scientifiche, siano efficaci nella pratica (indicatori di risultato), e infine come, quando, dove, quali risorse sono necessarie.
A un approccio paternalistico direttivo, si contrappone quanto prospettato dalla Carta di Ottawa del 1986 (Borasio G., 2015): la promozione della salute ha come obiettivo l’aumento della capacità autonoma di controllo sul proprio stato da parte della persona e della comunità. Si ha a che fare con un processo di empowerment basato sul riconoscimento che le persone e le comunità hanno competenze da far emergere, valorizzare, promuovere, sostenere e proteggere. Tale prospettiva conduce a una nuova definizione di salute: come capacità autonoma di controllo sul proprio stato. Si può essere in salute anche in punto di morte (W.H.O., 1986).
Capacità che non si misura a livello individuale ma alla dimensione di comunità. Se nella comunità tale capacità aumenta si osserveranno riduzioni di incidenza o di prevalenza degli eventi o delle condizioni per le quali sono state delineate strategie di promozione della salute. Considerando le stratificazioni sociali nella comunità è necessario tener presente che quelle meno abbienti sono non solo maggiormente a rischio ma hanno anche minore capacità di cercare salute, quindi più difficili da raggiungere.
Le strategie di promozione della salute devono avere come cardini la adeguata conoscenza epidemiologica dei differenziali di salute e l’offerta attiva. Per offerta si deve intendere che il coinvolgimento della persona deve esser basato sul rispetto, la gentilezza, l’empatia, la compassione e l’umiltà; per attiva si deve intendere che l’insuccesso nel coinvolgimento deve imporre un ripensamento sulle modalità adottate, sulle barriere della comunicazione (fisiche, psicologiche, sociali, etiche, antropologiche) al fine di trovare modalità innovative, soprattutto avendo capacità di ascolto.
Infatti, una strategia di promozione della salute non può dare per scontata la capacità di tutte le persone di raggiungere i servizi: chi vive in condizioni di marginalità sociale ha minore capacità di cercare salute e al contempo ha maggior rischio di perderla. Mentre nella cura è chi ha il problema a cercare chi se ne può fare carico e il sistema deve attivare modalità che facilitano l’accesso, nelle strategie per la promozione della salute è il servizio che deve essere in grado di “raggiungere” tutte le persone e coinvolgerle nel processo di empowerment, in particolar modo i “difficili da raggiungere”, pena il non raggiungimento soddisfacente degli obiettivi di salute, non essendo evidentemente vera l’assunzione di vedere la riduzione degli indicatori di esito nella stessa proporzione della quota di popolazione bersaglio raggiunta, visti i differenziali dei fattori di rischio, maggiori nelle condizioni di marginalità sociale.
È importante sottolineare che la promozione della salute è un processo di empowerment che si basa sulla valorizzazione delle competenze: quando si acquisisce la consapevolezza di avere competenza, aumenta il senso di competenza in generale e un particolarmente prezioso effetto è l’aumentata capacità di cercare salute, importante per raggiungere servizi in caso di necessità di cura, importante per facilitare il coinvolgimento nelle strategie di promozione della salute. L’esemplarità pedagogica di una specifica strategia costituisce elemento di priorità, molto importante, accanto alla possibilità di intervento, alla gravità, alla frequenza e all’urgenza del problema. L’esemplarità pedagogica è data da quanta e quale esperienza maturano i servizi e quanta e quale consapevolezza matura nella comunità.
I bisogni insoddisfatti di salute
Da notare che l’aumentata capacità di cercare salute si esprime anche nella possibilità di far emergere condizioni di disagio di cui altrimenti si avrebbe ritrosia o vergogna a parlarne, anche riguardo a un argomento all’ordine del giorno: la violenza di genere. Le condizioni di accoglienza prodotte da relazioni di rispetto, gentilezza, empatia, compassione e umiltà, sono fondamentali per far emergere, nonché valorizzare, promuovere, e sostenere, le competenze delle persone nell’avere controllo autonomo del proprio stato di salute. Tali condizioni fanno, quindi, emergere bisogni insoddisfatti di salute, anche riguardanti i propri cari, da accogliere con delicatezza, offrendo cure di prima istanza o indirizzando verso servizi appropriati. Di qui l’importanza di servizi di base per la promozione della salute con equipe multidisciplinari, non solo per cogliere le cause dietro le cause ma anche per fornire risposte appropriate a bisogni di salute che emergono nel processo di empowerment, mostrando tutto l’iceberg e non solo la punta. Ecco il ruolo centrale dei consultori familiari pubblici, secondo le linee di indirizzo del Progetto Obiettivo Materno infantile (POMI), nello spirito della legge 405/75.
La salute delle donne e dell’età evolutiva
Tradizionalmente le donne e i loro figli in età evolutiva sono stati considerati soggetti deboli, da tutelare: è la visione patriarcale ancora persistente che il movimento delle donne ha messo profondamente in crisi. In effetti, tale visione è palesemente in contraddizione con la costatazione che le donne sono le colonne della società e che l’età evolutiva costruisce il futuro.
Per di più, sono le donne e l’età evolutiva ad avere maggiore propensione al ripensamento sui vissuti, sugli stereotipi per la loro capacità di percepire i cambiamenti: per l’età evolutiva è una costatazione ovvia, per le donne, abituate a gestire la vita quotidiana, la percezione dei piccoli cambiamenti aumenta la sensibilità e l’attenzione verso tutto ciò che promuove l’empowerment. Strategie di promozione della salute hanno quindi la più alta resa con le donne e l’età evolutiva, sono quindi settori forti della comunità.
I progetti strategici indicati dal POMI riguardano il percorso nascita, la prevenzione dei tumori femminili e l’educazione sessuale nelle scuole. Il tema della sessualità, intesa in senso complessivo, è particolarmente “caldo”, e da indagini nazionali dell’ISS (Donati S., Andreozzi S., Medda E., Grandolfo M., 2000) il 95% delle e degli adolescenti richiede che vengano effettuati corsi nelle scuole. Le esperienze in tal senso producono risultati significativi in termini di promozione della salute (Grandolfo M., Lariccia F., Andreozzi S., Spinelli A., 2011). L’offerta attiva di corsi da parte dei consultori familiari funziona anche da “rompighiaccio” perché il tema della sessualità, delle relazioni affettive, possa emergere nelle attività curricolari (basterebbe pensare all’arte, alla letteratura, alla storia, alla filosofia, alle scienze).
Nella prevenzione del tumore del collo dell’utero la popolazione bersaglio, 25-64 anni, rappresenta certamente la parte più attiva della società e cogliere l’occasione dell’incontro per un counselling adeguato può permettere di esplorare con delicatezza i vissuti e le aspettative (analizzando i dati delle nascite solo il 10% riguarda donne con meno di 25 anni) facendo emergere bisogni insoddisfatti di salute, aumentando la capacità di cercare salute anche riflettendo sugli stili di vita, sui vissuti, offrendo lo spazio emotivo per far emergere fragilità da accogliere.
Nel percorso nascita i consultori familiari dovrebbero essere sevizi di base di elezione, con le ostetriche nel ruolo pivotale dell’equipe, in preparazione e durante la gravidanza e nel puerperio.
Se c’è un ambito in cui la promozione della salute ha la più alta resa questo è il percorso nascita.
Quando una donna decide di mettere al mondo una nuova vita (la maternità come scelta e non più come destino), sa che affronta un’avventura che produce cambiamenti radicali e si industria, sulla base delle conoscenze che ha, per il successo dell’impresa. Se ad esempio fumava prima della gravidanza, nel 70% dei casi smette di fumare, e nei restanti casi riduce drasticamente il numero di sigarette fumate (Lauria L., Lamberti A., Grandolfo M., 2012), aumenta l’attività fisica, aumenta il consumo di frutta e verdura e in generale cura l’alimentazione. Le donne assorbono come spugne le informazioni per migliorare gli esiti di salute per sé e per la persona che vogliono far nascere: sono condizioni ideali per l’empowerment.
L’informazione negata
Vale la pena citare la prevenzione delle malformazioni dovute a difetti di chiusura del tubo neurale. L’epidemiologia ci dice che nelle culture in cui l’alimentazione è particolarmente priva di folati aumenta il tasso di prevalenza alla nascita delle suddette malformazioni, di qui l’indicazione alla supplementazione con acido folico nel periodo periconcezionale. Le indagini epidemiologiche mostrano che fattore associato all’assunzione in periodo periconcezionale sono il più alto livello di istruzione e alla non assunzione l’essere pluripara. Curioso risultato, visto che a gravidanza iniziata, quindi quando il periodo di chiusura è già passato, oltre il 95% delle donne assume acido folico per tutto il periodo della gravidanza stessa, non infrequentemente a dosaggi dieci volte superiori a quelli raccomandati. Purtroppo solo meno del 50% delle gravide riceve alla prescrizione l’informazione sul periodo corretto di assunzione, informazione utile per una eventuale gravidanza successiva e, per di più, le donne meno istruite ricevono di meno l’informazione, quando ne avrebbero più bisogno. Ma le donne meno istruite che programmano la gravidanza e che hanno ricevuto nella gravidanza precedente la corretta informazione assumono la vitamina nel periodo periconcezionale non solo molto di più delle primipare ma anche delle pluripare più istruite pure esse informate.
Analogo scenario si osserva riguardo l’uso di metodi per evitare una gravidanza indesiderata alla ripresa dei rapporti sessuali dopo il parto: l’informazione fornita in gravidanza e in puerperio sui metodi aumenta l’uso dei metodi stessi, l’informazione viene data di meno alle meno istruite ma queste fanno tesoro dell’informazione di più delle più istruite, anch’esse informate (Lauria L. et altri, 2014; Istituto Superiore di Sanità, 2012; Grandolfo M., 2019).
Il percorso nascita: empowerment o disempowerment
Nella generalità dei casi si ha a che fare con la fisiologia ed è un gravissimo errore trattare la gravidanza come una patologia, non fosse altro perché le donne sono competenti a far nascere e le persone che nascono a nascere (fisiologia è competenza che si esprime). In un paese civile l’assistenza alla nascita dovrebbe essere garantita dai consultori familiari pubblici che ne hanno tutte le competenze, anche organizzando incontri di accompagnamento alla nascita in grado di offrire alle donne anche la possibilità di scambiare esperienze e vissuti. Dalle indagini ISS i consultori familiari pubblici risultano essere servizi che danno più soddisfazione, riducono il rischio di esposizione a procedure non appropriate e favoriscono l’esposizione a quelle appropriate, producono migliori esiti di salute in termini di maggiore persistenza dell’allattamento al seno, di minore incidenza di ricoveri in ospedale nel primo anno di vita, di riduzione del rischio di riprendere il fumo di sigaretta se nel caso precedenti fumatrici.
Nonostante tali evidenze, che hanno contribuito a indicare a) l’ostetrica come la professionalità di elezione per l’assistenza alla gravidanza e b) la partecipazione agli incontri di accompagnamento alla nascita (inseriti anche nei LEA) nelle linee guida della gravidanza fisiologica, la nascita è attualmente occasione di medicalizzazione: l’assistenza in gravidanza vede il ginecologo privato dominante, con una medicalizzazione ben rappresentata dall’eccesso di ecografie. Anche l’assistenza ospedaliera è caratterizzata da una medicalizzazione con procedure non raccomandate, per es. controllo cardiotocografico in continuo, posizione litotomica obbligata, eccesso di induzioni in travaglio, soprattutto prima della 41esima settimana gestazionale, eccesso di tagli cesarei, eccesso di episiotomie, allontanamento della persona che nasce dalla madre, uso di latte artificiale, e sua prescrizione alla dimissione. Mentre non sono assicurate quelle raccomandate (per es. contatto pelle-pelle immediato e per due ore, taglio del cordone solo dopo che ha smesso di pulsare, meglio dopo secondamento passivo, attacco tempestivo al seno, rooming-in 24ore. Una medicalizzazione che crea problemi, non infrequentemente attribuiti alla donna o alla persona che nasce: è il classico schema del biasimo delle vittime. Problemi che richiedono altri interventi riparatori. Una induzione non necessaria può bloccare l’evoluzione fisiologica e determinare la necessità di un parto operativo o di un taglio cesareo. Ci sono procedure consolidate non basate su prove scientifiche come considerare automaticamente elettivo un taglio cesareo dopo un precedente cesareo o per posizionamento podalico senza attendere o provare un rivolgimento.
L’adozione di protocolli può costituire un problema: come le linee guida anche i protocolli non decidono, la valutazione clinica non deve mai mancare, altrimenti si corre il rischio di schiacciare la realtà sui valori medi. Un’ostetrica è in grado di riconoscere l’eventuale deviazione dalla fisiologia e chiedere l’intervento dell’esperto di patologia. Dovrebbe essere raccomandata una assistenza “one-to-one” ma le riduzioni di organico sono un ostacolo. Dalle indagini (Istituto Superiore di Sanità, 2012) nazionali risulta che in media in seguito al taglio cesareo si hanno due giorni di degenza in più.
Un aspetto molto trascurato della medicalizzazione è la svalorizzazione delle competenze della persona configurandosi come un vero e proprio processo di disempowerment: learned powerlessness, learned helplessnes. Il che è particolarmente grave nel caso del percorso nascita: se è competenza della donna quella di far nascere e della persona che nasce quella di nascere, ci si deve domandare quali effetti deleteri hanno procedure che interferiscono, senza una giustificazione clinica, con la fisiologia, che non è altro che competenza che si esprime. Non sembra azzardato ritenere che produrre dipendenza è funzionale a rendere le persone più suscettibili alle lusinghe del mercato della salute e all’accettazione di una subordinazione a relazioni di potere.
Per chi nasce l’impedimento dell’espressione di competenza è molto più devastante, perché si tratta delle primarie e uniche competenze. Non avere la possibilità di stare a contatto pelle pelle appena nata e per almeno due ore impedisce alla persona, stando al caldo e confortata, dopo lo sforzo di uscire dal canale del parto, dal battito cardiaco della madre, di esprimere la competenza a cercare il capezzolo, guidata dall’odore del colostro che rimanda a quello del liquido amniotico, a cui attaccarsi provando e riprovando fino a scoprire la modalità più efficiente per avere nutrimento. La stessa persona che nasce che è costretta a affrontare la vita in salita perché le viene sottratta una quantità non trascurabile del suo sangue ancora presente nel cordone, irragionevolmente clampato entro pochi secondi dalla nascita. Interferenze gravi che producono drammatico disorientamento. Il disagio così provocato si associa alla depressione del senso di competenza della madre di prendersi cura della persona che ha fatto nascere.
Un clamoroso paradosso: non c’è esperienza più esaltante come quando ci si può scoprire competenti ad affrontare un’impresa che non ha uguali e ci si sente pronte a cimentarsi con nuove sfide, e invece ci si trova a vivere un’esperienza mortificante, talvolta al limite di una violenza ostetrica, con rischio di depressione.
La condizione di learned helplessness rende certamente più problematica la capacità di far fronte alle novità di un contesto relazionale modificato dall’entrata in scena di una nuova persona che ha bisogno di essere accudita con attenzione: tale incapacità disorienta la persona che è nata che reagisce con l’unico strumento che ha a disposizione, il pianto che, a sua volta, può produrre ulteriore esasperazione.
Il non rispetto della fisiologia, che non infrequentemente si configura come franca violenza ostetrica, può essere fattore determinante a non avere altri figli per non sperimentare ulteriori mortificazioni o, per le donne più acculturate, a cercare alternative più rispettose della fisiologia, cercando centri nascita ospedalieri giudicati più idonei, anche molto distanti, oppure ricorrendo al parto extraospedaliero, nelle case di maternità o a domicilio (Cicero R. V., Zambri F., Grandolfo M., Varone F., Smith M., Colaceci S., 2024). È paradossale che nel caso del ricorso al parto extraospedaliero si grida allo scandalo accusando le donne di essere sconsiderate, le professioniste ostetriche cialtrone, invece di mettere in discussione il comune modo di operare, questo sì in contrasto con le prove scientifiche consolidate da decenni. Si parla a sproposito di aumento dei rischi, nonostante la letteratura non lo documenti (Hutton EK, Reitsma A, Simioni J, Brunton G, Kaufman K., 2019). Peraltro, se il problema fosse costituito dalla non garantita necessaria tempestività in caso di emergenza ostetrica, non si vede perché non ci si attivi a favorire l’allestimento di unità affiancate ai centri nascita ospedalieri a conduzione autonoma delle ostetriche (le “alongside unit”). E va detto che la sorveglianza della mortalità materna e dei “near miss” evidenzia come la metà dei casi potevano essere evitati con adeguata e tempestiva assistenza. Che ci sia un problema corporativo è anche dimostrato dall’opposizione a che le ostetriche possano prescrivere quanto previsto nell’evoluzione fisiologica, nonostante la legislazione europea al riguardo.
Conclusioni
L’osservazione che il non rispetto della fisiologia e la non utilizzazione di procedure diagnostico terapeutiche basate sulle prove scientifiche non ha la stessa prevalenza nelle regioni, nelle ASL, nei centri nascita e tra gli operatori, è una evidente dimostrazione della mancanza di governo del sistema. Governo che, va ribadito, si basa su programmazione, valutazione e aggiornamento professionale, essendo la programmazione delineata a partire da obiettivi di salute. Poiché non si può ragionevolmente ritenere che ci sia un problema di generalizzata ignoranza è lecito ipotizzare che la focalizzazione sulle prestazioni piuttosto che sugli obiettivi di salute sia una scelta per favorire il mercato della salute che, è importante sottolineare, assorbe i risparmi dei cittadini, essendo le risorse generate con le tasse non adeguatamente utilizzate per sostenere la sanità pubblica come delineata dalla 833/78. Un sistema sanitario pubblico universale non è sostenibile senza un rigoroso controllo dell’inappropriatezza, anche in seguito alla disponibilità di nuove tecnologie non usate solo quando servono e per tutte le persone per le quali sono indicate. Certo è che il mercato della salute fa aumentare il PIL, come fa aumentare il PIL la produzione di armamenti.
È ragionevole ritenere che per cambiare il mondo è necessario cambiare il modo di venire al mondo: la valorizzazione delle competenze promuove l’autonomia e relazioni di cooperazione, mentre l’interferenza dell’espressione di competenza promuove la dipendenza e l’affossamento della democrazia.
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