Olivo Barbieri_Paintings Uffizi 2002
Scienziato cognitivo e psicologo, insegna Scienze Cognitive Applicate presso l'Univ. Federico II di Napoli. Conduce ricerche sulle relazioni, l'empatia e l'indifferenza; sulla creatività e l'esperienza estetica; sull'apprendimento e l'educazione; sul lavoro e i processi cooperazione/conflitto. I suoi ultimi libri sono: Indifferenza, Castelvecchi, Roma 2023; Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, e Umani. Come, perché, da quanto tempo e fino a quando? editi da Raffaello Cortina Ed. nel 2024 e nel 2025.
Psicologa, psicoterapeuta a orientamento sistemico, mediatrice familiare. Studia le interdipendenze tra paradigma corporeo e psicoterapia sistemica, con particolare riferimento alle emozioni, al movimento, e alle dinamiche conflittuali. Conduce attività psicoterapeutica a orientamento sistemico e mediazione familiare tra Bergamo e Milano.
Sommario
La crisi di legame che viviamo in questo nostro tempo è relativa all’imprescindibilità del legame e allo stesso tempo alla fatica di viverlo e di uscirne. Una domanda essenziale diventa: se dalla relazione che ci precede traiamo l’individuazione, come possiamo cadere nella crisi relazionale e nell’indifferenza? Le radici del problema affondano nell’intersoggettività costitutiva della nostra individuazione, di cui la comunicazione è un’espressione. Il corpo e le relazioni sembrerebbero perdere centralità, nell’epoca dell’immaterialità digitale, e dell’alienazione della presenza. La combinazione tra orientamento sistemico-relazionale e paradigma corporeo consente una più efficace possibilità di comprensione, ma anche di intervento a livello di psicoterapia e mediazione familiare.
Parole chiave
Relazione, empatia, corpo, risonanza incarnata, terapia sistemico-relazionale
Summary
The crisis of connection we are experiencing today is related to the indispensability of the bond and, at the same time, the difficulty of living it and escaping it. A key question becomes: if we derive individuation from the relationship that precedes us, how can we fall into relational crisis and indifference? The roots of the problem lie in the intersubjectivity that constitutes our individuation, of which communication is an expression. The body and relationships seem to be losing their centrality in this era of digital immateriality, and of alienation of presence. The combination of a systemic-relational orientation and the body paradigm not only allows for more effective understanding, but also for intervention in psychotherapy and family mediation.
Keyword
Relationship, empathy, body, embodied simulation, systemic-relational therapy
“Lasciamo perdere.
Un narratore non può parlare di ciò che narra.
Narra o tace. Questo è tutto.
Il suo mondo comincia a risuonare in lui
oppure sprofonda nel silenzio.”
[Franz Kafka, in G. Janouch, Gespräche mit Kafka.
Aufzeichnungen und Erinnerungen, edizione ampliata,
S. Fischer, Frankfurt a. M., 1968, p. 206;
(ed. it. Conversazioni con Kafka, Parma: Guanda, 1991; pp. 177-178)]
0. È la saturazione, bellezza!
Quando abbiamo a lungo sostenuto che non si potesse non comunicare, non avevamo tenuto conto della possibilità che emergesse e si affermasse una comunicazione indifferente, parallela. Una comunicazione satura, nel tempo in cui è difficile sentirsi vivere vivendo e, quindi, è diventato problematico sentire la comunicazione comunicando. Le parole, le espressioni e i gesti sembrano procedere paralleli alla vita vivente di chi li manifesta, ai suoi sentimenti, in una sorta di autonomia del segno in cui il simbolo ha divorziato dal significato. Una situazione che, se non forziamo troppo la correlazione, richiama quanto scriveva in quella sua fulminante confessione indiretta Hugo von Hofmannsthal: “…ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento […] le parole astratte di cui la lingua, secondo natura, si deve pur valere per recare a giorno un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti” (Hofmannsthal (von), 1902 – 1988). È’ evidente che la crisi della comunicazione riguarda quel che precede l’espressione e la pragmatica comunicativa. Così come il sentimento è strettamente connesso con l’azione. Sembra essere perciò la crisi di legame sociale - in un’epoca in cui non sappiamo più scegliere e non scegliamo tra bene e male, e si afferma un irrazionalismo calcolante al di là del bene e del male, un individualismo autoreferenziale imperante, - il luogo dove guardare per comprendere qualche aspetto della crisi della comunicazione, oggi. Una tradizione cognitivista persistente, nonostante tutte le falsificazioni, continua a separare il sentire e le emozioni dalla cognizione, dal pensiero e dalle sensazioni, e persiste nel sostenere una specie di logica dei due tempi tra percezione e azione. In sostanza quella tradizione insiste a voler comprendere qualcosa dell’umano prescindendo dal corpo. Una questione di lunga data che perpetua un chiaro ritardo se persino in quello che quasi certamente è il più grande romanzo del ‘900 si può leggere:
“La concezione più recente procede invece dall’osservazione che il sentire è intimamente connesso con l’azione e con l’espressione; ne consegue che essa tende a considerare il sentimento come un processo, ma anche che non rivolge lo sguardo al solo sentire bensì, insieme con le espressioni e le sue scaturigini, lo considera come un unico complesso. Tale concezione si è sviluppata dapprima negli ambiti della fisiologia e della biologia e i suoi sforzi sono stati originariamente rivolti a dare una spiegazione fisica dei processi psichici o, a dirla più drasticamente, sono stati rivolti all’organismo nel suo complesso, in cui compaiono anche manifestazioni psichiche. Quel che ne è il risultato può essere riassunto come la risposta principale al problema della natura del sentimento” (Musil R., 1996).
1. Inside out o outside in: oltre un falso dilemma
Quanta energia e quanto tempo sono stati e sono investiti a domandarsi se le emozioni che viviamo siano inside out o outside in! Eppure conosciamo la contingenza circolare che va oltre un approccio lineare, causa-effetto, nel tentativo di comprendere i sistemi viventi e noi stessi. Ma il dualismo pare uno dei modi spontanei di funzionamento delle nostre menti e viola la complessità e la contingenza della nostra esperienza che coinvolge allo stesso tempo relazioni, soggetti, contesti e storia nella fenomenologia degli eventi della vita. Possiamo perciò, magari con qualche sforzo, cominciare finalmente a riflettere sull’evidenza che senza il dentro non ci sarebbe il fuori e senza il fuori non ci sarebbe il dentro. Ad esempio, l’indifferenza, come sospensione eccessiva della risonanza incarnata nelle relazioni intersoggettive (Morelli U., 2023), mentre è fonte dell’alienazione empatica, in una
certa misura è anche un modo di esercizio dell’empatia: non valorizzare la differenza dell’altra non vuol dire lasciarla libera di essere sé stessa, ma tenerla legata nell’impegno a cercare di alleviare la barriera dell’indifferenza, che diviene il regolatore del legame, spesso in una circolarità da doppio legame, in un contesto, ad esempio quello familiare di coppia, che ha una storia. È così che due entra in uno e diventa uno, che la relazione precede la soggettività individuale, ma allo stesso tempo permane due come vincolo doppio, generando il dramma della relazione.
2. Spazio noicentrico, relazione e individuazione
La crisi di legame che viviamo in questo nostro tempo è relativa all’imprescindibilità del legame e allo stesso tempo alla fatica di viverlo e di uscirne. Siamo di fronte alla crisi della capacità delle relazioni di sostenere forme di individuazione soddisfacenti, essendo allo stesso tempo animali relazionali per natura. Una domanda essenziale diventa: se dalla relazione che ci precede traiamo l’individuazione, come possiamo cadere nell’indifferenza? Tutto questo è certamente connesso alla comunicazione intersoggettiva, ma le radici del problema affondano nell’intersoggettività costitutiva della nostra individuazione, di cui la comunicazione è un’espressione. Assumendo un paradigma corporeo, quanto mai necessario, la crisi dell’incontro, del dialogo, e della cura dell’intimità, deve probabilmente essere esaminata all’interno dello spazio noicentrico, per cercare di comprendere, grazie ad un paradigma corporeo (Gallese V., Morelli U., 2024; 2025) le ragioni che determinano situazioni diffuse in cui il corpo sembrerebbe perdere centralità, nell’epoca della saturazione degli spazi e dell’immaterialità digitale, nel tempo dell’alienazione della presenza, nel momento in cui l’altro sembrerebbe divenire un optional.
3. La generatività del noi e la sua crisi
Individuazione, relazione, trasformazione reciproca, possibilità di trascendersi ed esperienza di immaginazione e re-immaginazione di sé, trovano le loro basi neurofisiologiche e fenomenologiche in quello che è stato definito lo “spazio noicentrico” (Gallese V., 2003). È’ in quello spazio relazionale che si realizza ed esprime il legame tra il fare, poiéin, e i nomi poietés e póiesis come tratto distintivo dell’umano. È lì che possono crearsi le condizioni per restituire la capacità di immaginazione e di immaginarsi e reimmaginarsi a chi ha bisogno di cura per ritrovarla. Gallese, più di venti anni orsono – e il tempo fornisce una misura della resistenza al cambiamento pur a fronte di verifiche sperimentali (verrebbe da parlare di terrapiattisti della psiche) – ha indagato la capacità di codificare l’analogia like me tra sé e gli altri come un prerequisito fondamentale e un punto di partenza per la cognizione sociale. È’ attraverso questa risonanza sé/altro che si possono stabilire legami sociali significativi; che possiamo riconoscere gli altri come simili a noi. In base a dati di ricerca neurofisiologici e di imaging cerebrale, l’analogia del like me può basarsi su una serie di mirror matching mechanisms. Sfruttando una delle principali inferenze della scoperta dei neuroni specchio, è possibile cogliere la ricchezza delle esperienze che condividiamo con gli altri: la molteplicità condivisa dell’intersoggettività (the shared manifold of intersubjectivity). A partire da questi risultati, è stato proposto che tutti i tipi di relazioni interpersonali (imitazione, empatia e attribuzione delle intenzioni) dipendono, a livello fondamentale, dalla costituzione di uno spazio molteplice condiviso. Questo spazio condiviso è funzionalmente caratterizzato da routine di simulazione incarnate automatiche e inconsce ed è definito “spazio noi-centrico” (we-centered space) (Gallese V., 2001).
Cosa può dirci l’altro su noi stessi in quello spazio relazionale dove il noi contiene e sostiene l’io nella sua ricerca di individuazione? Come possiamo farci attraversare porosamente in modo da tradurre il sentire dell’altro e renderlo compatibile con una restituzione vicariante e architettonica nella costruzione di sé? Sono domande che ci portano al centro della grande impasse della dominante prospettiva cognitivista e comportamentale. La “cartina di tornasole” che ci permette di evidenziare le fallacie della centratura mentalista e cognitivista sul soggetto è la sempre maggiore evidenza della rilevanza del corpo e della relazione per comprendere cosa significa essere umani (Gallese V., Morelli U., 2024). Del resto l’individualismo mentalista non potrebbe consentire di comprendere la crisi delle relazioni e l’indifferenza contemporanea, in ragione della parzialità e delle limitatezze di un paradigma cognitivista.
4. Le emozioni sbagliano sempre, le emozioni non sbagliano mai
Di dualismo in dualismo si rischia di mancare la funzione che le emozioni svolgono nel produrre processi relazionali, di individuazione, e comportamentali, sufficientemente buoni, o nel causare alienazione, crisi dei legami e indifferenza. Nella narrazione di Philip Dick, in particolare in Gli androidi sognano pecore elettriche del 1968, gli umani distinguono sé stessi dagli androidi mediante un “test di empatia”, proprio perché le emozioni sono il tratto distintivo dell’umanità. Intanto non si registra una relazione così stretta tra le emozioni e l’empatia, se non in quanto le espressioni umane sono sempre connesse alle emozioni; in secondo luogo le emozioni non sono il tratto distintivo dell’umanità, in quanto riguardano anche la vita e i comportamenti degli altri animali. Ci siamo eretti a padroni della natura e degli altri animali in quanto esseri che sentono, ritenendo che siccome conosciamo le nostre emozioni allora possiamo essere effettivi padroni di noi stessi. Queste presunzioni di superiorità e di razionalità delle scelte sono messe in discussione e falsificate da tempo. Noi siamo le nostre emozioni, così come siamo la nostra comunicazione, nel bene e nel male. Non si tratta di strumenti attivabili a nostro piacimento, ma di caratteri distintivi di specie che hanno natura corporea, preverbale, pre-intenzionale e pre-linguistica. Non solo, ma i regimi emotivi sono evolutivi e non fissi. Le nostre emozioni, in quanto proprietà emergenti, sono mediate dalle relazioni, dai contesti e dalle culture. Nel tempo attuale, nonostante la dominante centratura su sé stesse e l’autoreferenzialità, le nostre emozioni non sono mai state, probabilmente, così mediate da oggetti di consumo, da tecnologie e da ordini del discorso impregnati di riferimenti alle componenti emozionali. Una studiosa come Eva Illouz, in un volume in cui esamina il disagio della società delle emozioni, come lei la chiama, introduce un neologismo: emodities, una combinazione dei termini inglesi emotional e commodities (beni di consumo) (Illouz E., 2024).
5. “Della Natura delle forze degli Affetti”. Da Spinoza all’EnvironMentalism
“Quindi gli Affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtù della Natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza, come le proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a dilettarci. Tratterò dunque della Natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi, con lo stesso Metodo con cui nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi” (Spinoza B., 1677).
Le condizioni per superare i dualismi, come si evince dal contributo rivoluzionario di Spinoza, vengono da lontano, e nonostante questo non certo si affermano e vengono adeguatamente riconosciute. Natura, cultura e istituzioni, oggetti, cose e contesti compongono la semiosfera nella quale le vite si esprimono (Lotman J.M., 2022). Un orientamento di ricerca di particolare importanza e originalità, l’EnvironMentalism, consente di evidenziare come l’unità principale di analisi sia la persona situata. Questo orientamento di analisi è definito, appunto, (SPP, Situated Personal Perspective) per indicare la prospettiva sovrapersonale, plastica e distribuita da cui il sé viene sperimentato e costituito nell’azione (Malafuris L., Fuchs T., Gallese V., Röhricht F., 2025). Si tratta di un nuovo quadro teorico che mette in primo piano il ruolo costitutivo degli ambienti materiali nel plasmare la salute e la malattia mentale. La base di riferimento è la “Teoria del Coinvolgimento Materiale” (Material Engagement Theory) proposta da Lambros Malafuris, unitamente alla teoria della cognizione situata. In base a queste prospettive è possibile sostenere che i disturbi mentali, i disagi nelle relazioni interpersonali e la crisi del legame sociale, non possano essere pienamente comprese senza considerare le interazioni dinamiche e reciproche tra cervello, corpo e le affordance (Gibson J.J., 2014) dell’ambiente fisico circostante. Un simile orientamento sfida i modelli internalisti nello studio della crisi di legame sociale, del disagio psichico e della psicopatologia, al fine di concettualizzare il sé come un processo relazionale ed ecologicamente radicato. Lo scopo è riconfigurare la comprensione dei fenomeni critici relativi alle relazioni e dei fenomeni psicopatologici, al fine di aprire nuove strade per la ricerca e l’intervento clinico. Il contesto vincola, aveva sostenuto Gregory Bateson, (Bateson G., Jackson D.D., Haley j., Weakland J., 1956) fondando le basi di una inedita ed insuperata ecologia della mente. Non è possibile comprendere la crisi di legame del nostro tempo senza considerare l’immersione nei sistemi viventi e nelle reti di relazioni in cui quella crisi emerge e si esprime.
6. L’attesa di niente: alla fonte dell’inquietudine
“Qui tutto era piccolo ma grazioso. Lo spazio era sfruttato al massimo. Il soffitto basso permetteva appena di camminare eretti; ai lati una porta quasi toccava l’altra. Le pareti non salivano fino al soffitto, forse per dar aria alle camerette che laggiù in quel corridoio quasi sotterraneo non potevano aver finestre. L’inconveniente di quelle pareti non interamente chiuse era che la tranquillità non regnava né nel corridoio né nelle stanze. Molte di queste parevano occupate, la gente perlopiù era ancora sveglia, si udivano voci, colpi di martello, tintinnio di bicchieri. Ma non si aveva l’impressione di una particolare allegria. Le voci giungevano, era difficile cogliere una parola, non sembravano neanche conversazioni, forse qualcuno dettava o faceva lettura; soprattutto nelle stanze donde giungeva acciottolio di piatti e di bicchieri non si udiva verbo, e le martellate ricordarono a K quello che gli avevano raccontato, cioè che certi funzionari per distrarsi dalla continua attenzione intellettuale, si occupavano talvolta di ebanisteria, meccanica, e simili. Il corridoio era vuoto, ma davanti a una porta stava seduto un signore alto, magro e pallido che indossava una pelliccia sotto cui si intravedeva la camicia da notte. Forse trovava greve l’aria della sua camera, e s’era seduto lì fuori a leggere il giornale, ma senza troppa attenzione; sovente abbassava il foglio, sbadigliava e guardava nel corridoio, forse aspettava qualcuno che aveva convocato e che tardava a venire.” (Kafka F., 1935).
La selva inquieta, irrazionale e imprevedibile, misteriosa e pericolosa, persino comica e dissacrante che la maestria poetica di Kafka fa emergere dalle righe precedenti potrebbe essere una efficace descrizione, più che delle situazioni, delle atmosfere, dei climi relazionali e sociali, delle ansie e delle solitudini, della crisi della comunicazione nel nostro presente. Mentre scopriamo in modi sempre più evidenti di essere relazionali per natura e che l’empatia per noi umani non è una scelta (Gallese V., Morelli U., 2024; 2025; 2025a), ci troviamo incagliati nella selva delle relazioni e nei campi empatici estesi della nostra esperienza. La comunicazione e la narrazione sperimentano una profonda trasformazione, attraversando una crisi che da tempo ci appare interminabile. Nella pratica letteraria, ad esempio, sembra essersi avverato quanto Walter Benjamin aveva presagito ne “Il narratore”, le considerazioni sull’opera di Nicolaj S. Leskov del 1936: allora, l’autore dell’”Angelus novus” dichiarava che l’arte del narrare si avviava al tramonto perché “è come se fossimo privati di una
facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze” (Benjamin W., 2014). “Le azioni dell’esperienza sono cadute: e si direbbero che continuino a cadere senza fondo”, aggiungeva. Il narratore si ritrovava quindi nella condizione di non poter più trarre dalle azioni e dai gesti di cui ha fatto esperienza o che gli sono riferiti come esperienza da altri vissuta materia narrabile, e non riesce più a produrre storie.
7. L’uso strumentale dell’affettività
So che non posso neppure dirtelo perché ti infastidisci, ma tu sai che vivo della sicurezza che mi dai. So perfino che adesso mi dirai che non sei qui per darmi sicurezza. E io accetto il tuo punto di vista, ma rimane il fatto che con te mi sento sicuro. Non mi fai mancare niente e non mi chiedi niente. Del resto hai imparato a non chiedere perché o non ti rispondo o creo guai. Si potrebbe dire che ti ho addestrata, ma non è stato neppure necessario, sei così docile e disponibile. Sì, certo, mi chiedi continuamente di cambiare, e lo fai ancora più insistentemente quando ricasco nelle mie difficoltà che prima nego e poi ammetto di fronte all’evidenza. Allora mi impegno a comportarmi bene. O perlomeno a farti vedere che mi comporto bene. Sono persino geloso di te, soprattutto quando ti vedo uscire senza sapere dove vai, vestita in modo provocante, e mi chiedo perché e per chi lo fai, visto che a me neppure mi sfiori. Sento però che mi vuoi bene e fai molto per prenderti cura di me. E se lo fai deve pur avere un significato. Tutto questo mi rassicura, crea una situazione a cui non potrei mai rinunciare. Non è difficile, devo riconoscerlo, tenerti sulla corda. In fondo mi basta chiedere con il giusto livello di emotività, così come mi basta piangere di fronte a una tua minaccia di cambiare tutto. Quando proprio sei arrabbiata mi rimane sempre la carta ultima: ti propongo il mio suicidio e tutto rientra, persino con accenni di coccole e dichiarazioni di affetto. Quell’affetto che mi esprimi facendomi capire che mi vuoi bene ma non mi ami più, che ti curi di me ma non mi desideri più. Dichiarazioni che suonano per me liberatorie di rischi di smancerie o addirittura di umori poco gradevoli. Mi liberano, in fondo, della fatica di cercarti e del rischio di dovermi impegnare per soddisfarti, con risultati che sappiamo essere squallidi. Così si ricompone quell’equilibrio, certo un po' strano, fatto di alti e bassi, ma sempre equilibrio è, e per me il più conveniente, quello che in fondo, a parte qualche fastidio per convincerti, mi permette di fare quello che voglio in questa situazione sicura.
8. Potere dell’ablativo
La risata fu fragorosa, liberatoria per tutti gli altri tranne che per lui, e perché no, anche vendicativa. Una risata quasi isterica, uno sfogo invidioso. Di quelli mossi da un sentimento particolare: finalmente una volta tocca pure a lui, pensarono i suoi compagni di classe, nessuno escluso. Della sua passione per il latino e della sua conoscenza della materia nessuno aveva un dubbio in quella classe di terza liceo classico. Si trattava di una competenza verificata nei due anni di ginnasio e poi nei quasi tre anni successivi, dal momento che si era verso la fine dell’anno e l’ansia per gli esami di maturità già montava senza sosta. Le ultime verifiche avevano il sapore della conferma. I livelli di preparazione di ognuno erano quelli che erano e ormai si poteva fare ben poco per cambiare l’ordine delle cose. Nonostante questo quel professore inflessibile perfino nello stile e nel portamento oltre che nella sua inarrivabile conoscenza e passione per i classici e per la letteratura greca e latina, li teneva sulla corda con una posizione attenta a verificare non solo se uno sapesse o meno qualcosa, il che era escluso, ma come e fino a che punto giungesse la completezza della preparazione.
La valutazione, prima ancora che con i segni rossi e blu, o con una ironia che sfociava volentieri nello scherno, giungeva con i gesti. Elegante e quasi etereo, o con una voluta della mano curatissima, o con un leggero movimento dell’arcata sopraccigliare, oppure con un sottile movimento di labbra e baffi sottili, segnava le sue restituzioni e l’autostima dei suoi allievi. Aveva un modo tutto suo di correggere le versioni latine o greche e di restituire la valutazione e il voto, ma soprattutto di segnalare gli errori. Raccoglieva i doppi fogli protocollo su cui dovevamo scrivere le prove, alla fine del tempo concesso. Sarebbe tornato nelle sue ore di aula successive con quei fogli piegati a metà, uno ad uno, con il voto scritto col lapis rosso e blu. Rosso se era sufficiente o superava la sufficienza; blu se il voto era insufficiente con particolare predilezione per i valori minimi preferibilmente vicini allo zero. Entrato in aula iniziava la restituzione, dopo essersi sistemato il nodo della cravatta, cosa che faceva più o meno ogni cinque minuti. Dalla cattedra chiamava ognuno in ordine alfabetico. Il chiamato si alzava rimanendo al posto nel banco. Il professore leggeva il componimento fermandosi ad ogni errore e dopo aver illustrato l’errore con dovizia di particolari, riferimenti letterari e comparazioni testuali, trovava ogni volta e per ognuno una sottile e tagliente nota ironica sul livello di attenzione, sull’impegno, sull’intelligenza e sul percorso individuale che sistemava il malcapitato tra riflessioni interiori, vergogna e propositi di miglioramento. Per favorire il ripasso e allenare alla prova di latino della maturità, almeno così si era espresso introducendo la prova, aveva scelto un brano dagli Annali di Tacito tradotto in italiano, assegnando una versione dall’italiano al latino. Le difficoltà del testo erano apparse subito, aumentando l’ansia di tutti, anche dei più bravi. L’ansia del più bravo della classe in quella disciplina era doppia, come sempre. Non solo si trattava di affrontare al meglio il compito, ma bisognava contenere con attenzione la pressione dei compagni di ricevere, frase dopo frase, copia della traduzione per copiarla. La vigilanza del professore era altissima. Il rischio, se scoperto, era di essere spostato sulla cattedra senza più alcuna possibilità di condividere la traduzione. Le cose andarono abbastanza bene. Non solo la versione in latino riuscì velocemente ma anche la condivisione fu almeno in parte possibile. Il fragore della risata si verificò proprio in occasione della restituzione e valutazione di quella prova. Il professore aveva iniziato come al solito, ma quando era arrivato, secondo l’ordine alfabetico, al nome del più bravo, l’aveva saltato. Lo studente si era chiesto perché non prevedendo nulla di buono. Aveva pensato ad un rimprovero relativo al fatto, reso evidente dai testi delle prove, di passare la traduzione ai compagni. Ma non era così. Alla fine della lista dei compagni, infatti, il professore chiamò il suo nome.
Alzatosi in piedi gli venne chiesto quale fosse la declinazione del nome del fiume Po in latino. Si stupì, ci pensò un momento e, come da consuetudine, pronunciò la prima e la seconda persona del presente indicativo: Padus, padi. Il professore gli chiese di andare avanti fino all’ablativo. Lo fece e concluse con un chiaro: Pado. Fu allora che con una soddisfazione quasi perfida il professore esclamò, rivolto a tutta la classe e mostrando il suo foglio protocollo col testo segnato di blu: il vostro compagno latinista di fama, qui, invece ha scritto: Po! E rivolto a lui: come si declina quindi, secondo il tuo latino personale: Pus, pi? Avrebbe voluto dileguarsi o sprofondare, ma fu raggiunto dal fragore delle risate di quegli stessi compagni che attendevano ansiosi la soluzione dei compiti di latino e di greco e non solo, in ogni prova in classe. Il professore non rideva, sorrideva; con un ghigno molto soddisfatto per aver potuto cogliere in difetto quell’allievo che lo sfidava con la sua passione per il latino. Fu la complessità delle variazioni della comunicazione nel gruppo e con ognuno, a partire dal professore, che lo attraversò causandogli sofferenza e apprendimento allo stesso tempo. Si sentì in un groviglio di pensieri e di sfumature irriducibili delle relazioni e della comunicazione.
Un groviglio che mentre è la comunicazione stessa, e rende possibile comprensione e approssimazione, mette di fronte all’irriducibilità dell’uno all’altro, degli uni agli altri, la cui essenza si coglie in particolare nelle situazioni di crisi.
9. La selva degli affetti
Ad emergere è la causa nella presunzione troppo a lungo esercitata a guardare la comunicazione come un percorso lineare da uno all’altro e dall’alto, e non invece come un’immersione ad altezza d’occhio nel mare dell’incertezza e dell’approssimazione, dove affiorano differenze da elaborare, silenzi da interpretare, significati da dipanare, scoprendo che la comprensione è il residuo sparuto e quasi-conforme di pluriversi che restano ignoti e incomprensibili in ogni situazione e in ogni relazione comunicativa. Immersi nella comunicazione, anche di fronte ai pochi chiari nella selva dei conflitti interpretativi e degli affetti, quello che di fatto si scopre è di non poterne fare esperienza diretta e completa, sperimentando l’incompletezza e l’effetto di aver smontato il binomio sul quale Aldo Giorgio Gargani fonda un plausibile senso della comunicazione, della narrazione e della scrittura, lo sguardo e il destino. Nelle pagine del saggio che Gargani condivide di aver compilato al Wissenschaftskolleg di Berlino nel 1987 – pubblicato in Italia l’anno dopo (Gargani A.G., 1988) -, sintomaticamente segnate da un’aura wendersiana, si legge che “noi scendiamo lungo una strada e il nostro vedere è ricordare, il nostro vedere è raccontare; il nostro ascoltare è ricordare, il nostro ascoltare è raccontare, il nostro stesso andare e camminare è raccontare perché alla fine di tutto, noi siamo soltanto la conseguenza del racconto che ci ha fatto nascere”. Ma che cosa succede quando si acquista l’amara consapevolezza che lo sguardo ha smarrito il suo destino? Cosa accade quando emerge che la parola non dice più la cosa? Come stiamo quando i significati si scompongono nel momento stesso in cui cerchiamo di condividerli? Quale apocalisse di significato sconvolge la scrittura monca della qualità di immergersi nel flusso delle esistenze? È’ la catastrofe della modernità (Picone G., 2025).
Né ci viene in soccorso, come abbiamo già sostenuto il termine «cognitivo», che è superato, come lo sono i termini «cibernetica» e «intelligenza artificiale». Lo studio separato di percezione, deduzione, apprendimento, e così via – cioè della cognizione –, non si consolida in una unità disciplinare ben definita e dalla crescita bene indirizzata. Risulta quindi opportuno aprire l’indagine – come di fatto sta accadendo – ad altri, più problematici aspetti della mente: emozione, processi inconsci, intenzionalità, attitudini, dolore.
Così si esprimeva Giuseppe Tratteur (Tratteur G., 2002). Quand’anche si provi ad aprire quell’indagine, non per questo le cose si semplificano. Proprio cercando di coinvolgere nell’analisi corpo, cervello, mente, ambiente, rimane decisiva la domanda (Gallese V., Morelli U., 2024).
10. Tentativi di approssimazione
È’ interessante notare come la crisi di legame e di interazioni comunicative riguardi contemporaneamente le relazioni intersoggettive e sociali e i tentativi molto dichiarati ma effettivamente poco praticati di interdisciplinarità per comprendere la comunicazione e la sua crisi. Quella interdisciplinarità si dovrebbe esprimere come alleanza tra discipline e saperi di difficile convivenza, che a tutt’oggi rimane allo stato di propositi e di rare pratiche effettive. Coinvolte sono la filosofia della mente e la filosofia del linguaggio –, la linguistica, le neuroscienze –, la psicologia, la logica, l’informatica, l’intelligenza artificiale, la scienza cognitiva che potrebbe ritenersi l’erede della cibernetica, la seconda cibernetica. Ad ogni osservazione appare evidente come la scienza cognitiva sia molto vicina alla psicologia, principalmente cognitivista. Il modello tuttora dominante è ancora quello iniziale risalente alla metà degli anni settanta del ventesimo secolo. Negli ambiti dove sono stati raggiunti risultati di notevole interesse nella comprensione della mente è accaduto per la disponibilità a mutuare i reali successi dell’informatica e della neurobiologia, con l’attenzione riservata al sistema corpo-cervello-mente. Si pensi solo ai riconoscimenti molto recenti e attuali che vanno finalmente in questa direzione e che solo ora iniziano a trovare conferma e diffusione: “La teoria della simulazione incarnata ha sottolineato che il nostro sistema senso motorio è fondamentale non solo per interagire con il mondo (ad esempio, per muoversi, raggiungere o sentire), ma anche per comprendere gli altri e per l’atto di immaginazione” (Ruta N., Schino G., Wolfe B., Iosifyan M., 2025). Uno dei contributi più rilevanti per l’evoluzione paradigmatica, l’Embodiment Simulation Theory (EST) (Gallese V., 2005) segna in maniera sempre più evidente lo stato nascente di un paradigma corporeo nella comprensione del comportamento umano. Eppure gli avvertimenti, per così dire, riguardo alla necessità di evolvere da una visione meccanicistica e computabile delle relazioni e della comunicazione umana risalgono almeno alla metà del ventesimo secolo e si sviluppano con contributi rivoluzionari come quelli di Gregory Bateson, (Bateson G., 1979), di Heinz von Foerster, (von Foerster H., 1987) fino a trovare una importante composizione di molteplici e confluenti contributi in Italia quaranta anni orsono con il riconoscimento dell’orientamento epistemologico della complessità (Bocchi, Ceruti, 1990-2025).
11. Labirinti, vuoti e vertici della comunicazione
Robert Musil, in una poesia intitolata Iside e Osiride rielabora il mito egizio dell’uccisione del dio Osiride da parte dell’ombra, e del suo successivo ritrovamento da parte della dea Iside (Musil R., 1981). I fratelli che possiedono, essendone cibati, l’uno il cuore e il sesso dell’altra, rappresentano un’unità androgina, una preidentità in cui non c’è bisogno delle parole per comunicare, ma tutto è già detto nel linguaggio del corpo e dei sentimenti.
Per chi ha bisogno di comunicare per essere, invece, il tempo presente mostra un volto spesso crudo e atono. Il fuoco vivo della comunicazione infatti si scioglie spesso, in questo nostro tempo, nel vuoto glaciale dell’indifferenza. Giocano un ruolo decisivo in questo precipizio semantico il tempo, il conformismo e la saturazione. È forse utile fare un esempio prima di approfondire. Si prenda la frase: «la sua bellezza lo affascinò». Il significato cercato viene sciolto nelle reazioni neurobiologiche scatenate dall’analisi, presumibilmente visiva, della forma della donna. Eppure, un breve passo oltre la stereotipia convocherebbe in causa il dramma di Narciso; o ancora l’inizio di un amore omosessuale; oppure l’irresistibile attrazione di un paesaggio, di un quadro in una mostra o in un’asta, di un essere umano che sta scegliendo un cucciolo di cane per adottarlo, e così via. La parola «bellezza» è un mero codice linguistico per indicare una catena causale complessa, ma epistemicamente innocua, o può diventare un’esperienza di risonanza incarnata particolarmente riuscita, tale da estendere il modello neuro-fenomenologico di chi vive quell’esperienza, aumentando le capacità e possibilità di accesso al mondo e a sé stesso in modi e per vie che senza quella esperienza non si verificherebbero (Morelli U., 2010; Gallese V., Morelli U., 2025a). Un’operazione di codifica stereotipata e del tutto inconsapevole, il cui funzionamento risale a fasi animistiche, ma persistenti nella cultura della società, produce un effetto di saturazione del significato (Morelli U., 2008). Siccome, come lucidamente sostenuto da Judith Butler, “Nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale” (Butler J., 2013), comprendere la saturazione e il conformismo significa misurarsi con l’Horror vacui e l’Horror pleni per riconoscere almeno alcuni dei vincoli e delle possibilità della creatività umana in rapporto alla comunicazione. Delle dinamiche del conformismo sono note molte esplorazioni che fanno da sfondo all’analisi. Le dinamiche della saturazione sono riconducibili ad un costrutto di una certa originalità che dovrebbe almeno in parte e in via preliminare dare conto di fenomenologie osservate più di recente nei gruppi sociali. Entrambe le dinamiche psicologiche possono forse con maggiore agio essere individuate per differenza. La prima, il conformismo, tende ad esprimersi come crisi dell’immaginazione e della creatività. La seconda, la saturazione, è più che altro connessa alla negazione o al non riconoscimento della differenza e della contingenza; ovvero alla crisi della possibilità che una differenza, una nuova discontinuità, qualcosa di originale e generativo possa ancora nascere all’interno di un gruppo. La vicinanza e anche la relativa sovrapposizione fra le due dinamiche sono evidenti, ma ancor più rilevanti sono le specificità che le distinguono. Entrambe le dinamiche sono comunque accomunate dal fatto di riportare all’indifferenza intesa come una sospensione eccessiva della risonanza incarnata, una delle principali cause della crisi di comunicazione contemporanea.
12. L’indifferenza rivisitata
Ostaggi del nostro stesso mondo interno, ospitiamo una parte di noi che ci è ostile o addirittura nemica. Quella parte del nostro caleidoscopio interiore che tiene sotto scacco le altre parti, ne impedisce l’espressione. In fondo l’indifferenza è una forma di difesa. Una difesa dalla presenza dell’altro. E, per quanto paradossale, anche una forma di comunicazione, che potrebbe essere ricondotta ad una affermazione inespressa: “tu non esisti”. Siamo, infatti, spesso e a lungo ostaggio di una parte di noi stessi, del nostro mondo interno, che protegge, minaccia, tacita, imprigiona le altre parti.
Troppo alto il sogno dell’altro, l’attesa e l’impegno del riconoscimento, al punto da apparirci irraggiungibile, non alla nostra portata, fino a consegnarci ostaggi della nostra stessa autovalutazione. Troppo elevati gli stimoli e le attese di contenimento, da indurre a chiudere e a chiudersi. Ciò non vuol dire che la singolarità non sia importante. Evidente è, però che la singolarità si forma nelle relazioni. Certo che le fruizioni in prima persona dei contenuti oggettivi, sono cruciali. La ricaduta perversa della singolarità è però l’individualismo autoreferenziale. Il nostro sistema corpo-cervello-mente è situato in un contesto e il contesto vincola, come abbiamo a lungo verificato e sostenuto. Una cultura delle quantità e della computazione ha accompagnato e sostenuto l’affermazione pervasiva dell’individualismo. Uno degli effetti della separazione delle due culture è stato ed è il riflesso che ciò ha causato sulla costruzione del modello dominante di essere umani, sull’attribuzione di certe caratteristiche come la scissione tra affettività e cognizione nell’espressione della nostra esperienza. Fino al punto da determinare una reificazione che finisce per generare un’accettazione acritica e tacita di quello che è un modello storicamente determinato. Lo scopo sarebbe allora fondere le cosiddette due culture, recuperando alla cultura umanistica i contenuti scientifici. L’uomo senza qualità di Musil è un matematico.
Con Vittorio Gallese da anni lavoriamo a un’interpretazione dell’esperienza estetica in termini corporei e neuro-cognitivi (Morelli U., 2010; Gallese V., Morelli U., 2024; Gallese V., Morelli U., 2025). Gli approfondimenti in diversi campi dell’espressione e dell’esperienza estetica e creativa di noi umani condotta da Gallese, anche insieme ad altri studiosi e ricercatori, continua a produrre esiti di particolare rilevanza, con particolare riguardo agli approfondimenti sull’empatia. “Sebbene l'empatia sia oggetto di ricerca sin dalla fine del XIX secolo, il campo continua a espandersi rapidamente e le collaborazioni tra discipline umanistiche, scienze sociali e scienze dure rendono il nostro lavoro collettivo stimolante e ricco di possibilità” (Gallese V., 2025; Gallese, Romand D., Wojciehowski H., 2025). Scrive Gallese, con riguardo all’esperienza estetica e ad una delle sue manifestazioni quale è la letteratura: “Le neuroscienze cognitive hanno ampiamente trascurato arte, letteratura e cinema – ambiti che definiscono l'esperienza umana – nonostante il loro ruolo essenziale nel plasmare la percezione, l'emozione e l'intersoggettività. Queste pratiche estetiche non riflettono semplicemente la cognizione; costruiscono attivamente il modo in cui pensiamo, sentiamo e interagiamo con il mondo. A partire da questa critica, propongo il paradigma bioculturale come quadro di riferimento per integrare fattori biologici e culturali nella ricezione letteraria. La letteratura non è solo un esercizio cognitivo astratto di manipolazione simbolica, ma un'esperienza profondamente incarnata, radicata nelle capacità sensomotorie, affettive e intersoggettive. Plasmato dalle pressioni evolutive, ma riconfigurato dinamicamente dalle pratiche culturali, l'impegno letterario fornisce un caso di studio avvincente per la creazione di significato incarnato. Il mio lavoro sulla simulazione incarnata ha dimostrato che la comprensione del linguaggio recluta competenze percettive e circuiti motori ed emozionali, sfidando le tradizionali teorie disincarnate del significato. Questa prospettiva collega le scoperte neuroscientifiche con le pratiche culturali e artistiche, evidenziando il ruolo della letteratura nel coinvolgere i sistemi sensomotori ed emozionali dei lettori. L'estetica sperimentale e le neuroscienze cognitive rafforzano ulteriormente questa visione, dimostrando che il linguaggio letterario coinvolge la simulazione incarnata, che aiuta a spiegare le esperienze di lettura immersive.” (Gallese V., 2025).
13. Le fatiche per emergere dal dualismo e dall’individualismo: la via del corpo
I primi, efficaci scostamenti da un regime dualistico avvengono contemporaneamente nel 1905, quando in meccanica quantistica e nella relatività la prima persona entra nella descrizione in terza persona, mentre la psicoanalisi promuove l’indagine in terza persona della fenomenologia della prima persona. Pochi anni dopo emerge l’evidenza che la crisi dei fondamenti della matematica dipende in modo cruciale da una situazione analoga, e il lavoro di Gödel permette, con le ben note conseguenze, l’introduzione di una sorta di punto di vista in prima persona nello studio dei sistemi logico-algoritmici (codificando nel metalinguaggio il sistema dall’interno del sistema stesso). Tutto quello che accade nel mentale dipende dall’esistenza prioritaria di una qualche relazionalità intersoggettiva. La situazione è però molto diversa da quella che si presentò nelle fasi iniziali della meccanica quantistica. È’ chiaro che mentre la mente può studiare molti enti diversi, fra tutti gli enti solo la mente può studiare la mente. Il punto interessante è che quando l’oggetto di studio di una mente è un’altra mente o addirittura la medesima sorgono circolarità difficili da affrontare. La via qui auspicata è quella di una naturalizzazione metodologicamente rigorosa: considerare il soggetto non come la datità primaria donatrice di senso, ma porre al centro la relazione che ci fa “due-in-uno” e anche come la meta di un cammino di comprensione di noi stessi che si fonda sulla materia. Studiare il mentale ignorando l’intersoggettività, infatti, equivale a studiarlo presupponendo la soggettività, ancorché inconsapevolmente.
14. La terapia sistemica incontra il corpo. Vincoli e possibilità.
“Due in uno” vale anche nella scena terapeutica? La relazione terapeutica si svolge in un campo relazionale, lo “spazio noi-centrico”, dove il processo di approssimazione è non solo uno dei luoghi possibili di elaborazione della crisi di legame contemporanea, ma è allo stesso tempo sottoposto a criticità e ad incertezze costitutive. Non può essere attendibile comprendere e spiegare le dinamiche di approssimazione, nella relazione terapeutica e nei contesti della vita reale, solo considerando gli aspetti cognitivi. La messa in scena del corpo non è una scelta e diviene decisivo riconoscerne la rilevanza, anche per valorizzare le possibilità di affrontare la crisi in atto. Che cosa accade quando si mette in scena il corpo nel contesto terapeutico? E quali sono i vincoli e le possibilità che si propongono quando quella messa in scena avviene con un approccio sistemico? Da ultimo, è possibile, mediante un’ibridazione di codici e un approccio transdisciplinare, integrare l’approccio sistemico con il paradigma corporeo? Per esplorare queste domande può essere di una certa utilità connettere quanto abbiamo espresso nell’analisi epistemologica e teorica svolta fino a qui, con gli orientamenti applicativi in cui l’intervento terapeutico è impostato cercando una risposta alle domande precedenti. Si configura così la possibilità dell’integrazione dell’approccio sistemico con il paradigma corporeo, lasciando aperte molte questioni e soprattutto consegnandosi ai ponti e alle interdipendenze che emergeranno nelle connessioni tra epistemologia e prassi. Il sé corporeo e lo spazio noicentrico sono sistemicamente interconnessi e il campo terapeutico si propone come un sistema in cui le crisi e i disturbi relativi trovano importanti possibilità per essere elaborati e affrontati. Di particolare importanza risulta l’estetica delle relazioni che può svilupparsi nel campo terapeutico. La relazione terapeutica può intervenire sull’immagine di sé e favorire l’immaginazione di evoluzioni emancipative. Recentemente Vittorio Gallese (Gallese V., 2025a) ha approfondito il rapporto tra estetica delle relazioni soggetto-mondo e soggetto contesto, oltre che i processi dell’intersoggettività, fornendo importanti indicazioni per approfondire aspetti decisivi della relazione terapeutica, della dimensione inconscia e dell’immaginazione in tempo di crisi. Gallese sviluppa una ricerca e una spiegazione integrate dell'esperienza estetica facendo dialogare le neuroscienze con la psicoanalisi. Critica i modelli disincarnati e oculocentrici della percezione visiva, proponendo invece che il coinvolgimento estetico sia mediato dalla simulazione incarnata – un meccanismo neurofunzionale che consente agli attori in relazione in un campo terapeutico di rievocare gesti, affetti e movimenti osservati. Questa simulazione attiva un inconscio preriflessivo e affettivo radicato nella memoria corporea e nell'esperienza relazionale. Attingendo al concetto di Winnicott di fenomeni transizionali e alla nozione di Kris di regressione al servizio dell'Io, Gallese inquadra l'immagine estetica come un oggetto transizionale che facilita la modulazione affettiva e la riorganizzazione soggettiva.
La terapia diventa così un processo relazionale di ristrutturazione delle immagini del mondo e delle immagini di sé. L'esperienza relazione-sistemica si propone come rilevante per la sua portata estetica, e l’estetica, intesa come l’attivazione relazionale della sensibilità corpo-cervello-mente, emerge non solo come interpretazione simbolica ma come un atto di gioco, sintonizzazione e trasformazione strutturato nel tempo. Articolando le convergenze tra neuroscienze, psicoanalisi, e orientamento terapeutico sistemico-relazionale, il saggio offre un nuovo modello per comprendere come le immagini coinvolgono i nostri corpi, plasmano il nostro inconscio e partecipano alla formazione continua della soggettività. L’immaginazione e le immagini di sé e del mondo divengono cruciali per affrontare le crisi e sviluppare possibilità terapeutiche.
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