Civetta (Athena noctua), Andrea Mazza
Ambientalista, scrittore, è direttore generale della Lipu - BirdLife Italia. Si occupa di politiche ambientali, cultura ecologica, teorie dell'ambientalismo. Segue e coordina campagne nazionali e internazionali sulla conservazione della natura. Tiene master post universitari in tema di ambientalismo e cultura ecologica e scrive per riviste e quotidiani. È autore di Rachel dei pettirossi. Primavera silenziosa, Rachel Carson e un nuovo inizio per la cultura ecologica (Pandion, 2022), libro vincitore del Premio Demetra 2024 per la Letteratura ambientale e nella terna finalista del Premio Campiello Natura 2023.
Sommario
Lo scritto analizza le principali figure del pensiero di Ernesto De Martino (apocalisse culturale, crisi della presenza, ethos del trascendimento) in relazione al tema della crisi ecologica. L’umanità si è lungamente confrontata con le forze esorbitanti della natura, cadendo vittima di ciò che De Martino definisce crisi della presenza. Lo sviluppo di potenti strumenti culturali e tecnici ha capovolto i rapporti: la presenza umana è divenuta ambientalmente distruttiva e dalla crisi della presenza si è passati alla presenza critica. In apparenza opposte, le due condizioni (la natura che domina l’umanità e l'umanità che domina la natura) sono speculari, legate dall’idea della separazione conflittuale tra umanità e natura. La cultura ecologica, o parafrasando De Martino, l'ethos dell'ecologia, contesta quest’idea e propone una rinnovata presenza umana nel pianeta.
Parole chiave
De Martino, natura, metanatura, crisi della presenza, apocalissi culturali, fine del mondo, sacro, ethos del trascendimento, presenza critica, limiti del pianeta, cultura ecologica, vocazione alla salvezza, presenza ecologica.
Summary
This paper analyzes the key themes of Ernesto De Martino's thought (cultural apocalypse, crisis of presence, ethos of transcendence) in relation to the ecological crisis. Humanity has long confronted the overwhelming forces of nature, falling victim to what De Martino calls the crisis of presence. The development of powerful cultural and technical tools has upended these relationships. Human presence has become environmentally destructive, and the crisis of presence has given way to a critical presence. Apparently opposed, the two conditions (nature dominating humanity and humanity dominating nature) are mirror images, linked by the idea of a conflictual separation between humanity and nature. Ecological culture, or to paraphrase De Martino, the ethos of ecology, challenges this idea and proposes a renewed human presence on the planet.
Keyword
De Martino, nature, metanature, crisis of presence, cultural apocalypses, end of the world, sacred, ethos of transcendence, critical presence, planetary boundaries, ecological culture, vocation to salvation, ecological presence.
Una bella mattina d'estate, raggiunto il piazzale dove giocavamo a calcio, trovammo una sorpresa. A una grata era stata appesa la carcassa di un uccello, fissata con le ali aperte. Era un gufo, forse un allocco. L'impatto fu forte, la scena impressionante eppure non spaventosa. C'era molta concretezza nel corpo dell'animale - gli occhi chiusi, il volto arruffato, del sangue rappreso - e qualcosa di astratto, di non del tutto reale e perciò più mite. Il gufo era morto ma aveva un’espressione serena, come se riposasse. Intimoriti e attratti, gli girammo intorno, sentendo di assistere a un evento anomalo. Già la presenza di un animale selvatico, diverso da quelli a noi familiari, era motivo di stupore. Poi c'era la singolare postura delle grandi ali aperte. Cosa stavamo davvero osservando?
Fu una persona che lavorava nei pressi a decodificare il quadro. Il gufo, verosimilmente trovato già morto, era stato crocifisso, per “togliergli il male". Le ali aperte richiamavano il simbolismo della croce, necessario ad estirpare dal rapace l’anima maligna. Insomma, un rito di purificazione, ovvero un automatismo che di un rito di purificazione conservava memoria. Solo molti anni dopo riflettei appieno su quell'atto cruento, che riguardava gli elementi della crisi e dell’ordine e serviva proprio a questo: risolvere una crisi, rimettere in ordine il mondo.
La metanatura
C'è una lunga storia sacrificale degli animali selvatici (e della natura), non ancora del tutto cessata, fatta di persecuzioni, uccisioni, crocifissioni. Nel tempo, loro malgrado, questi animali hanno assunto su di sé il peso patito dagli esseri umani per via delle forze della natura, la durezza di certi eventi critici dinanzi ai quali la vita li pone - perdite, lutti, catastrofi ambientali, esistenziali, sociali - la cui drammaticità è amplificata dal bisogno di dare loro un senso. Perché è accaduto? Perché a me/noi? Di chi è la colpa? Domande che richiedono un qualche salto nella ricerca della risposta.
Prendiamo come esempio la lontana mattina in cui un contadino subisce la distruzione del raccolto, al quale aveva lavorato per mesi. Il danno materiale è immane ma il danno immateriale, il turbamento, è persino peggiore. Oppure, pensiamo al giorno in cui la famiglia vive la tragedia della perdita di un figlio, magari quello su cui faceva maggiore affidamento per il futuro. Un malore, un fulmine, una malattia… La natura matrigna se l'è preso.
Con la tragedia, compare la domanda: perché? Perché a noi? Qual è la colpa che abbiamo commesso, o che, commessa da altri, ricade su di noi? Il problema, un po’ come col gufo, chiede risposte oltre le cause fisiche. Cerca una spiegazione al di là del mondo (naturale) nel quale spiegazione e salvezza sembrano mancare.
Qui c'è l'intuizione: il contadino, o sua moglie, rammentano la civetta che la sera prima ha cantato sull'albero di fronte casa. Non era un semplice verso, ora lo capiscono, ma un malaugurio, una condanna. L’atto di un rapace notturno posatosi a riposare, o scrutare il territorio, si carica di simboli, diventando capro espiatorio, chiave esplicativa, via d'uscita da un evento critico altrimenti inspiegabile e perciò insostenibile. Diventa formula, racconto che si ripete nel tempo e varia, pur mantenendo il nucleo semantico essenziale e, soprattutto, si trasforma da storia di un problema in storia di un rimedio: la colpa è della civetta e lo sarà ogni volta che diffonderà il canto stridulo vicino a una casa. L’evento naturale diviene metanaturale, la natura metanatura, la civetta metacivetta. Caricando su di sé la croce, la civetta ci salva.
Il primo gufo
Quando sia accaduto l'evento zero, quando cioè ponemmo per la prima volta in relazione una catastrofe con una presenza - quella di un animale selvatico - è impossibile dirlo. Certo è che gli schemi mentali intorno ai gufi ricorrono quasi identici in tutto il mondo, come mostra l’imponente lavoro del Global Owl Project di David Johnson ricordato da Jennifer Ackerman.
“Tra il popolo nordamericano degli algonchini, chi sta per morire sente un gufo pronunciare il suo nome… Nel Messico meridionale, [l'allocco che] grida… è il segno che qualcuno morirà… Nello Zambia, se un gufo si posa sul tetto… riceverai cattive notizie o ci sarà presto un funerale, e se si stabilisce in uno dei tuoi campi il raccolto andrà male… In modo analogo, i k`iche considerano i gufi messaggeri di malattia e morte ed estremamente sgraditi vicino le abitazioni" (Ackermann 2024, pp. 358-9).
Non sono rari i casi in cui il sentimento verso i gufi è invece celebrativo, invocante lo spirito benigno che alberga nell'animale. Ciò che tuttavia conta è la ratio metafisica dell’interpretazione, con il suo intento sempre salvifico. Jennifer Ackermann ricorda altresì le pitture animali della Grotta Chauvet, risalenti a 36.000 anni fa, tra cui l'immagine di un gufo, “la prima rappresentazione di un uccello” ad oggi conosciuta, dalla quale apprendiamo che una nuova attività, oltre la caccia, la raccolta, l’esplorazione territoriale, si è a un certo punto introdotta nelle pratiche umane: immortalare natura. Il gufo è sottratto alla scorrevolezza della vita e fermato nell'immagine, assegnato a una seconda vita, una vita una volta per tutte: la rappresentazione. In questa nuova condizione il gufo è e non è. È vita/immagine. Ne deriva una scena non lontana da quella del gufo in croce del campetto di calcio, 36.000 anni dopo. In comune le due scene hanno la destorificazione, il salto fuori dalla natura e dalla storia, in una metanatura e una metastoria che, come vedremo, ci danno rifugio.
Nel bosco immenso
Condivisa da molte specie animali, la sorte metanaturale sacrificale trova nei rapaci notturni i riferimenti preferiti per almeno due ragioni: l'oscurità della notte, cui questi uccelli sono legati, e il volo.
In Storia notturna Carlo Ginzburg rammenta come, per la cultura popolare, la notte abbia rappresentato il luogo di ritrovo mitico (il sabba) della maggior parte delle figure del negativo, aggiungendo al negativo del buio un secondo elemento critico che è, appunto, il negativo del volo, la natura aerea di tali soggetti. I quali, sebbene umani, possono volare.
“Streghe e stregoni si radunavano di notte, generalmente in luoghi solitari, nei campi o sui monti. Talvolta arrivavano volando… a cavallo di bastoni o manici di scopa; talvolta invece in groppa ad animali, o trasformati in animali essi stessi” (Ginzburg 2017, XIII).
La notte è maligna perché permette di operare nell'ombra, segretamente, in isolamento dal mondo, che dorme. L'ambiente notturno assume così la caratteristica di habitat ideale e modello operativo per chi intenda ordire le trame del male: streghe, lupi, lupi mannari, corvi, gufi…
Poi c'è il volo. Scrive Massimo Centini:
“Il volo è un'esperienza anomala per le creature della terra, e se ad effettuarlo era un animale terrestre è evidente che tale fenomeno era in relazione al magico e al diabolico. Fu il Canone Episcopi a porre in evidenza la diffusa credenza secondo cui alcune donne affermavano di cavalcare la notte… e attraversare larghi spazi di terre" (Centini 1998, peg. 136)... [Il] rapporto della strega con la notte… separava la strega dalla gente comune, che viveva di giorno… l'incontro sabbatico avveniva sempre in territorio estraneo alla Cultura, nel luogo selvaggio del bosco, celato all'accesso diretto di chi viveva nella luce. In quei luoghi l'uomo non ha imposto il proprio ordine sociale e, di conseguenza, governa il selvaggio, l'anormalità. Sono quindi evidenti i legami con gli animali selvatici…, bestie del luogo altro, che agli occhi dell'osservatore risultano in stretto rapporto con la strega. Inoltre…, ai termini classici sagae, striges, lamiae e maleficae, indicanti le streghe, si aggiunse il ricorrente strix, uccello notturno, forse l'allocco, che i latini credevano succhiasse il sangue ai bambini mentre dormivano” (ibidem, 138-9).
Siamo un po’ al cuore del nostro discorso. I gufi hanno queste due caratteristiche: sono notturni e hanno le ali. Se gli esseri umani vivono alla luce del giorno e si muovono sulla terra, i gufi vivono nel buio e volano. Come le streghe (strigiformi, a forma di strix, strega), sono tutt'uno con le tenebre e l'aria. Ora, la doppia opposizione tra esseri umani e gufi, giorno/terra contro notte/volo, non è che una declinazione specifica della scissione generale tra lo spazio umano della cultura, ordinato e controllato, e lo spazio inumano della natura, caotico e incontrollabile. La città-cultura è il luogo-nostro, la natura è il luogo-altro, territorio selvaggio, tenebroso, bestiale. È una ingens sylva, come la definisce De Martino citando Enzo Paci (De Martino 1958, pag. 16), una selva immane alla quale l'accesso ci è precluso o consentito a nostro rischio e pericolo, ove costretti ad accedervi per procurarci risorse.
Il che costituisce un'altra dicotomia con cui l'umanità si è dovuta a lungo confrontare e continua a confrontarsi: il dualismo bene/male della natura. La natura è fonte di vita ma anche pericolo, duro lavoro, lunghe notti invernali, freddo, intemperie, demoni della foresta, tragedia dello scorrere del tempo, corpo che si ammala e infine muore. Raccolto distrutto e tragedia del figlio. La natura ci sostiene e ci dà la morte e, soprattutto, ci pone in una condizione di rischio esistenziale nella misura in cui siamo impossibilitati a far fronte ai problemi materiali e, ancora peggio, a capirli. La vera questione della vita, la questione che ci attanaglia, ci atterrisce, è: perché?
Crisi della presenza
All’investigazione di questa domanda Ernesto De Martino dedica l'intera sua opera, etnografica, antropologica, filosofica, di studi sul sacro: comprendere come l'essere umano possa uscire dalla condizione drammatica nella quale precipita nei momenti critici della vita, privo di strumenti materiali e soprattutto culturali per riemergere moralmente, ritrovare un senso. La domanda ha a che fare con la comprensione della natura, il difficile confronto con la natura, e ha quindi un risvolto fortemente e variamente ecologico.
De Martino definisce crisi della presenza tale condizione e apocalissi culturali le circostanze che la determinano. Circostanze che, per una lunghissima fase della storia umana, sono state principalmente l'esito della "inesorabilità delle forze cieche della natura” (De Martino 2025, pag. 22), spesso esorbitanti rispetto alla capacità umana di farvi fronte, specie per individui e gruppi dotati di un bagaglio culturale contenuto.
“Nelle società primitive e nel mondo antico l'arco della vita individuale nel quadro della vita collettiva è disseminato di rischi esistenziali che per noi hanno perso ogni significato: l'incontro con animali pericolosi, l'attraversamento di paesi sconosciuti e selvaggi, l'incerto esito della caccia da cui dipende per intero il destino alimentare della comunità…, le vicende meteorologiche sfavorevoli che aprono per il gruppo sociale una prospettiva di morte per affamamento, la siccità che inaridisce i pascoli… le grandi e frequenti epidemie sterminatrici” (De Martino 1958, pp. 37-8).
In queste situazioni, gli esseri umani affrontano la crisi materiale, dovuta al danno concreto, e la crisi immateriale, esistenziale, dovuta all'impossibilità di darsene una ragione, alla difficoltà di intraprendere l'indispensabile processo di ricostruzione culturale del piano che l'evento naturale ha disintegrato. Per questo, dice De Martino, ci troviamo di fronte ad apocalissi non reali bensì culturali. A rischiare di finire non è il mondo in quanto tale, che continua, ma il mio/nostro mondo, in un episodio di fine del mondo individuale o di gruppo che è parziale ma non perciò meno grave.
Per intendere meglio la questione è necessario chiarire il significato attribuito da De Martino al concetto di presenza, che è il centro stesso della sua opera. La presenza è la capacità umana di assumere il mondo in un sistema coerente di valori, di elevare sé stessi e il mondo a un livello di significato, oltre la “situazione”, la mera natura. La presenza è dunque un salto, un trascendimento, “il movimento che trascende la situazione nel valore” (De Martino 2025, pag. 47). L’ethos del trascendimento, lo definisce De Martino, con il quale l'essere umano cura la propria presenza, integra e scavalca la dimensione naturale, della biologia, dei fatti, entrando nella piena dimensione culturale della biografia, dei valori.
Attingendo alla terminologia di Martin Heidegger, De Martino parla di presenza come di esserci, dove la chiave è data dal ci dell'esserci, consistente nella capacità umana di significare. “L'esserci della presenza è tutto racchiuso nel ci, in questa particella così carica di significati” (ibidem, pag. 50). Se l'essere è natura, il ci è cultura. Senza quel ci, o con un ci insufficiente, l'esserci sarebbe pura biologia o quasi. Sarebbe, per attingere ancora al lessico heideggeriano, semplice presenza. La natura farebbe irruzione nella cultura e la soggiogherebbe, non solo materialmente, con l'apocalisse reale della distruzione del raccolto, ma moralmente, con l'apocalisse culturale della nostra incapacità di ricreare valore dopo la crisi. Il mondo perderebbe ogni carattere di senso e domesticità. Non sarebbe più nostro. Apparirebbe come una ingens sylva, un’oscura foresta nella quale per noi non c'è posto.
A=a+a+a… Magia e religione come riscatto
La crisi della presenza è dunque un discendere, un precipitare negli abissi del non-senso naturale. Il riscatto della presenza è un trascendere, un risalire attraverso l'azione culturale, il recupero di senso. Con cultura De Martino definisce ogni opera umana che comporti un orizzonte, un contesto di valori e comunque un’organizzazione, una “progettazione ordinatrice” (De Martino 1977, pag. 359), a cominciare dalla magia e dalla religione fino alle forme organizzative individuali e comunitarie, “l'economico, la poesia, la scienza, la vita morale” (De Martino 1977, pag. 19) e in generale il sistema di valori sociali, morali, politici, giuridici, cognitivi, estetici. Grazie a ciò l'umanità può affrancarsi dall’azione dissolutrice della natura ed emanciparsi, impedendo al mondo di “passare senza valore”, di essere senza un perché.
In tal senso, la magia e la religione sono, per De Martino, le pratiche più ancestrali di ripresa e una sorta di struttura-modello di ogni forma di riscatto. Ciò avviene attraverso la messa in atto di quel binomio mito/rito che del discorso della presenza è il fulcro. Di fronte a una crisi reale, ad uno di quegli eventi della storia che esprimono la dirompente forza della natura-divenire, l'essere umano necessita di uscire temporaneamente dalla storia, “stare nella storia senza starci” (De Martino 1958, pag. 35), collocandosi in un orizzonte metastorico nel quale rigenerarsi. Tale processo di destorificazione del mondo, di velatura della storia, è realizzato attraverso il mito, quello speciale momento del tempo nel quale l'evento mitico è accaduto una volta per sempre (la fondazione del mondo, la nascita di Cristo, la morte/resurrezione…) e nel quale è al riparo dalla dissoluzione tipica della dimensione naturale. L'evento mitico non è avvenuto in un tempo qualunque ma in illo tempore, in quel tempo, che è un tempo culturale e non reale, mitologico e non cronologico e, proprio perciò, un tempo confortante, sicuro. Di fronte ai rischi della storia, è lì, nel tempo del mito, che troviamo riparo.
L’operazione, tuttavia, va messa in atto non semplicemente grazie al ricorso statico ad un mito ma attraverso quell'atto dinamico di riproposizione simbolica del mito rappresentato dal secondo termine del discorso magico-religioso: il rito. La pratica rituale replica il mito, lo attualizza, lo rende vivo, lo conduce nella storia senza condurlo davvero nella storia. Lo porta in processione, mettendo noi in contatto rigenerante con l'evento narrato dal mito.
Per visualizzare il processo, De Martino usa la formula-equazione “A=a+a+a…” (De Martino 2025, p. 108), dove “A” sta per l'evento mitico, “la fondazione metastorica”, che è data una volta per tutte, eterna, sempre identica (A è A), e l'altro termine dell'equazione (a+a+a…) è la replica del mito nel tempo storico attraverso le sue periodiche celebrazioni rituali. I riti, che rappresentano miti in piccolo (la a è minuscola), sono molteplici (a+a+a) e si ripeteranno sempre (i puntini di sospensione), perché per essere nella storia, proteggendoci dai suoi rischi, abbiamo bisogno di richiamare A, attualizzare il mito.
Insomma, dice De Martino, mito e rito ci fanno essere nella storia come se non ci fossimo, ma non nel significato negativo della perdita di senso, risultato tipico della crisi della presenza (un’esclusione passiva dalla storia), bensì nel senso positivo di conservare la presenza grazie a un dispositivo di protezione che la protegge dalle avversità del tempo.
È in questa dinamica esistenziale che va scorta, per De Martino, l'origine del sacro. Il sacro non è una categoria a priori dell'essere umano ma una strategia esistenziale, un bisogno di appartenenza storica soddisfatto attraverso una forma di non appartenenza storica. Uscire dagli avvenimenti per rientrarvi e starci meglio.
Piangere nel modo giusto
Tra le principali forme di ethos del trascendimento, di contrasto dell'opera dissolutrice della natura, De Martino individua la pratica del cordoglio, cioè la risposta che riusciamo a dare alle terribili situazioni di lutto che talvolta ci colpiscono, con il loro impatto devastante.
Attraverso lo studio del pianto antico e soprattutto la straordinaria analisi del lamento funebre lucano, condotta tra Pisticci ed altri paesi della regione, De Martino delinea con grande originalità le dinamiche del riscatto. Nella veglia funebre, di fronte al corpo della persona cara, il dolore del congiunto si esprime o in forma di ebetudine, di assenza pressoché totale dal mondo, come se il lutto ci avesse svuotati, o all'opposto in “esplosioni parossistiche, tendenzialmente autoaggressive” nelle quali “la presenza perde se stessa degradandosi a pura energia meccanica che fluisce senza significato”. La persona
“si getta a terra, dà col capo nel muro, salta, si graffia a sangue le gote, è accesa da furore tendenzialmente diretto verso la propria persona, si strappa i capelli, si lacera le vesti, si abbandona ad un gridato che è piuttosto un ululato” (De Martino 1958, pp. 79-80).
In questo stadio del cordoglio la presenza non c'è, è (quasi) mera natura, tanto nella versione dell'ebetudine, uno stato vicino al silenzio inumano della ingens sylva, la foresta ombrosa, notturna, spopolata di umanità, quanto nel pianto disperato, che rimanda invece alla tempesta catastrofica della famiglia contadina.
Tuttavia, a un certo punto, al pianto disperato subentra una seconda fase del cordoglio, in cui il congiunto o chi per lei/lui - la lamentatrice professionista, la comunità di cordoglio di parenti, amici, vicini - dà vita ad una cerimonia, una liturgia, trasformando il pianto caotico e irrelato in un pianto controllato e ritualizzato, fatto di ritmi, ritornelli, parole, tecnica (simile, in questo, alla danza liberatrice del tarantismo. De Martino, 1961).
Protezione tecnica è in effetti la locuzione con cui De Martino definisce il lamento controllato, portando attenzione sulla sua componente di artificio come chiave di volta del processo di salvezza. Da questa tecnica del cordoglio, da questo rito teatrale, da questa musica-orchestra del cordoglio, da questo “saper piangere, nel modo giusto”, inizia il riscatto. La presenza ritorna nel mondo (ritornello = ritorno), prende atto dell'accaduto, avvia la reintegrazione della realtà andata in pezzi con l'evento tragico, comincia a ricostruire valore - anche facendosi eventualmente testimone/portatrice dei valori della persona morta.
Si deve “far morire in noi i nostri morti”, dice De Martino, con una operazione che chiama della “seconda morte” (ibidem, pag. 17 e 107), il lutto non subìto ma deciso, la ricreazione culturale dell'evento naturale e dunque il suo trascendimento. Dare al morto una seconda morte è un atto salvifico che echeggia la seconda morte data al gufo col cruento atto della crocifissione (una morte pensata come redentrice, per lui e soprattutto noi) o la seconda vita data al gufo di Chauvet dipinto sulla roccia. La vita sottratta alla vita per sottrarla alla morte, tolta dal divenire ed elevata all’esistere. La prima vita non basta, essendo naturale, cioè essendo divenire e morte. Occorre una seconda vita, culturale.
Noi siamo l'animale che muore due volte, e dunque vive due volte.
Kauwa-auwa, o il campanile
C’è un’altra forma di riscatto, di protezione della presenza dalle minacce della natura, che merita richiamo: la protezione dell’axis mundi, l’asse del mondo, il palo sacro che collega terra e cielo cosmicizzando la terra. De Martino la spiega con almeno due esempi illuminanti.
Il primo riguarda gli Achilpa, cacciatori-raccoglitori aborigeni affetti da una vera e propria angoscia territoriale (De Martino 1948, pp. 229-243). Gli Achilpa credono che gli spiriti dei defunti abitino i luoghi familiari della tribù, rendendo quei luoghi la casa-patria dell'anima, un metaluogo dove stare al sicuro. Lì gli Achilpa sono nella natura ma non del tutto. Sono in una metanatura. E però, costretti a soddisfare le necessità vitali con la caccia e la raccolta, devono spostarsi. Da qui l’angoscia di lasciare la sicurezza del metaluogo verso territori estranei, disordinati, a-cosmici, privi degli spiriti degli antenati e infestati di pericoli, gufi, natura.
Come vincere l'angoscia? Gli Achilpa lo fanno ricorrendo al kauwa-auwa, un palo che svolge la funzione di axis mundi. Il gruppo lo porta con sé ovunque e lo pianta appena giunto nel nuovo territorio. Il rito del palo ripropone l'evento mitico di fondazione del mondo (A), che nella tradizione Achilpa avvenne in illo tempore proprio grazie al piantamento di un kauwa-auwa. Dunque, ogni volta che il kauwa-auwa è ripiantato (a+a+a…) il mondo è rifondato. L'ostilità della natura incognita è annullata, l'angoscia territoriale è vinta. Il caos naturale diventa il cosmo familiare degli Achilpa.
"Piantare il palo kauwa-auwa in ogni luogo di soggiorno… significa iterare il centro del mondo, e rinnovare, attraverso la cerimonia, il patto di fondazione compiuto in illo tempore. Con ciò il luogo nuovo è sottratto alla sua angosciante storicità, alla sua rischiosa caoticità, e diventa una iterazione dello stesso luogo assoluto del centro, nel quale una volta, che è la volta per eccellenza, il mondo fu garantito” (ibidem, pag. 237).
Con il palo, gli Achilpa sono a casa, ci sono. Senza il palo smetterebbero di esserci, precipitando in un abisso senza fondo. Per questo, quando un giorno un vecchio capo spezzò involontariamente il palo, gli Achilpa caddero in un’insanabile angoscia collettiva e, giunti in una località abitata da un'altra tribù, con il suo palo intatto, “si lasciarono andare al suolo ammucchiandosi insieme e si lasciarono morire" (ibidem, pag. 237). Il mondo degli Achilpa era finito. Un'apocalisse culturale lo aveva distrutto.
Il secondo esempio riguarda un notissimo episodio accaduto a De Martino in una spedizione di lavoro in Calabria. Arrivato in automobile alle porte di Marcellinara (Catanzaro), De Martino chiese indicazioni a un pastore.
“Ma le sue indicazioni erano cosí confuse che lo pregammo di salire in auto e accompagnarci al bivio giusto... Accolse con diffidenza la preghiera, come temesse un'insidia oscura... Lungo il breve percorso la diffidenza aumentò, e andò tramutandosi in angoscia, perché dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista familiare del campanile di Marcellinara, riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e a tal punto si andò agitando mostrando i segni della disperazione e del terrore, che decidemmo di riportarlo indietro... Sulla via del ritorno stava con la testa sempre fuori del finestrino, spiando ansiosamente l'orizzonte per vedervi riapparire il domestico campanile: finché quando lo rivide, il suo volto si distese, il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell'incontro… si precipitò fuori dell'auto… quasi fuggisse da un’avventura che aveva minacciato di strapparlo dal suo [spazio vitale] … precipitandolo nel caos” (De Martino 1977, pp. 364-5).
Il palo degli Achilpa e il campanile di Marcellinara rappresentano due casi di luogo esistenziale, di “patria culturale come condizione di operabilità del mondo”. Sono esempi della frattura tra ciò che è casa, l'abitato, e ciò che non lo è, la natura. Da un lato, campanile e villaggio fanno da opposizione alla natura, al territorio ignoto della ingens sylva, dall'altro il palo fa da conquista/domesticamento della natura. Prima la natura si cosmicizza piantando il kauwa-auwa, edificando il campanile/villaggio, poi la si abita, in quanto luogo-metaluogo che protegge.
Capovolgimento. Dalla crisi della presenza alla presenza critica
Se è quindi una grande angoscia, un senso profondo di crisi ciò che, di fronte alla potenza della natura, noi abbiamo a lungo provato, man mano gli equilibri mutano. Il rapporto natura-umanità prende una piega diversa. La capacità umana di riscatto si rafforza, dandosi una missione più ardita. Le azioni per affrancarci dalla natura diventano azioni per affermarci sulla natura. Il timore lascia il posto all'intraprendenza e persino alla hybris. Sempre meno spaventosa, la selva stimola non solo obiettivi di conquiste puntuali, avamposti nella natura, ma sentimenti di espansione, dominio generale.
Lo storico tedesco Philip Blom (Blom 2022), ricostruendo la genesi dell'idea di dominio sulla natura, che pone alla base della crisi ecologica, risale a ciò che ritiene essere il momento zero, l'illo tempore dell'idea di dominio: la figura mitica di Gilgamesh, l’eroe babilonese. Gilgamesh è il primo umano (o semiumano) ad anelare la trasformazione della natura non più soltanto per sussistenza ma per subordinarla ai nostri progetti. Varcate le mura della città di Uruk, sorta di punto di non ritorno, Gilgamesh si dirige verso la temibile selva, affronta il potentissimo Humbaba, demone protettore della foresta, lo uccide e abbatte i cedri sacri per farne legna utile a rinsaldare e addobbare la città. La selva è violata, sottomessa alla civiltà.
Qui la dinamica dell’axis mundi si inverte: più che ergere il palo della cultura, Gilgamesh abbatte il palo della natura, gli alberi, i cedri sacri, affermando un dominio pratico-culturale finalizzato a consolidare il campanile, rafforzare la città, e a depotenziare e infine sopprimere il totalmente altro costituito dalla selva. La temibile foresta di Humbaba va rappresentata nella città di Uruk, trasformata da caos selvatico a ordine urbano.
L’azione di Gilgamesh è simbolicamente essenziale per il progetto umano di protezione e riscatto. Anzi, di più: per il progetto umano di protezione, riscatto e imposizione. Gilgamesh fa un passo oltre, spostando l’accento dall'attitudine protettiva, difensiva, all'attitudine proattiva, offensiva: gli esseri umani hanno i mezzi per ridurre la sfera di dominio della natura ed espandere la propria. Così, sebbene antichissima, la vicenda di Gilgamesh si colloca idealmente molto avanti. È la fondazione mitica dell'impresa umana di dominio ma anche una modalità drammaticamente attuale. Nell'atto fondativo del dominio umano è già iscritta la sua evoluzione più avanzata.
L'accumulo e l'elaborazione delle informazioni, lo sviluppo di scienza e tecnica, gli strumenti sempre più potenti e raffinati, la rivoluzione dell'agricoltura, l'espansione urbanistica, l'organizzazione sociale, i mezzi di trasporto e i grandi viaggi di scoperta e conquista, lo sviluppo di un'inestinguibile sete di profitto, la comunicazione, la medicina, la crescita della popolazione (a un certo punto esponenziale), le rivoluzioni industriali e tecnologiche, la conquista dei mari, l'abbattimento delle grandi foreste, la globalizzazione, l’ipertecnologia: buona parte del nostro progresso, pur articolato, comporta che ingens sylva, il bosco immenso che ci circondava e spaventava, il bosco mitico e reale che ci limitava e conteneva, progressivamente sparisca, sostituito da un'altra immensità: quella del progetto umano. Antropocene.
Un progetto che si sviluppa in senso strumentale ma anche e forse soprattutto teorico, epistemologico, in un vasto sistema di idee filosofiche, scientifiche, sociologiche, psicologiche, politiche, artistiche, religiose accomunate da una preponderante attitudine ordinatrice: la riduzione cognitiva del caos, la messa in ordine della realtà, la razionalizzazione, il superamento della mera physis, laddove la physis continua a rappresentare, anche in senso culturale, un problema da risolvere, un gufo da dipingere o crocifiggere, un territorio da impalare, una notte da illuminare, un divenire da trascendere. Un luogo-metaluogo nel quale esserci ma non del tutto. Ne consegue il capovolgimento della crisi: da crisi della presenza umana a presenza critica umana. Da minacce e colpi subiti a minacce e colpi inferti. Da sottomissione alla natura a natura sottomessa. La crisi ecologica, nelle sue tante forme, è l’esito di questa svolta.
A=b+c+d… Altri mondi da consumare
Utilizzando la metodologia dei cosiddetti planetary boundaries, i limiti fisici del pianeta, ideata con il Centro di Resilienza di Stoccolma, l'ecologo svedese Johan Rockström ha sistematizzato le crisi ecologiche, offrendoci un quadro della loro articolazione e una fotografia progressiva dei livelli di crisi.
Rockström ha individuato nove grandi temi (clima, biodiversità, acidificazione degli oceani, consumo del suolo, consumo di acqua dolce, ciclo di fosforo e azoto, aerosol nell'atmosfera, buco dell'ozono, sostanze sintetiche nell'ambiente) assegnando a ciascuno delle soglie numeriche che permettono di individuare tre zone. La prima, una zona verde, è l’area entro cui dovremmo restare, rispettando i limiti delle risorse del pianeta. Un luogo sicuro per l'umanità simile, con le ovvie differenze, al luogo familiare in cui gli Achilpa si sentivano protetti (nella definizione di Rockström della zona verde, "uno spazio operativo sicuro per l'umanità", risuonano le parole di De Martino sulla terra degli Achilpa: “un luogo sicuro, come condizione di operabilità del mondo”).
Le soglie della zona verde non vanno superate, così come il palo non va spezzato. Quando ciò accade, entriamo nella zona gialla, l'area dei problemi, del rischio crescente, che diventa estremo se superiamo l'ulteriore e ultimo limite, quello tra la zona gialla e la potenziale apocalisse della zona rossa.
I dati più aggiornati sui boundaries (Stockholm Resilience Centre, 2025) dicono che in sei ambiti tematici l'umanità è in zona rossa, in uno è in zona gialla (l’acidificazione degli oceani) e in soli due casi (aerosol e ozono) è ancora al sicuro. Tra i problemi rossi, la crisi climatica, il ciclo di fosforo e azoto e la perdita di biodiversità, ormai tale da prefigurare, in assenza di correttivi importanti, estinzioni massive.
Drammatici, in proposito, sono i dati del primo rapporto di Ipbes (2019), la Piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici: l'impatto antropico sulla biosfera ha modificato il 66% degli habitat marini e il 75% di quelli terrestri, distrutto l’85% delle zone umide in area oceanica, cancellato 30 milioni di ettari di foresta primaria tropicale e il 50% dei coralli vivi dalla fine del diciannovesimo secolo. Risultato: un milione di specie animali e vegetali a rischio di estinzione al 2050 e 500.000 di esse a rischio ancora più prossimo.
In uno scatto fotografico a corredo di Grande mondo, piccolo pianeta, il volume che divulga il lavoro sui planetary boundaries, Johan Rockström è ripreso con il pianeta Terra tra le dita. Un pianeta che ha la grandezza di una biglia. L'immagine esprime perfettamente l'inversione dell'equilibrio natura-umanità, cioè l’attuale rapporto tra la disponibilità di risorse naturali, limitate, e il nostro consumo, incontenibile, illimitato. In altri termini, tra le possibilità della Terra, intesa come biosfera, e le esigenze del Mondo, inteso come dimensione antropica (desideri, azioni, cultura) per la quale un pianeta non basta più. È insufficiente.
In questo senso possiamo immaginare una variante ecologica della formula demartiniana A=a+a+a… sul mito-rito. Una variante del tipo A=b+c+d…, laddove la A rappresenta il mito della crescita infinita, del desiderio materiale infinito, e b+c+d… i pianeti di cui avremo bisogno se il mito della crescita dovesse proseguire: un pianeta b, un pianeta c, un pianeta d e così via.
E possiamo mettere nuovamente in relazione il nostro operato con quello degli Achilpa, per cogliervi una lezione sistemica. Loro, spezzato il palo, violata la legge mitica che consente l'esistenza del gruppo, si fermano. Sentono che un limite è superato e non ne vanno superati altri. Un feedback negativo, una sorta di dispositivo di protezione generale, pur estremamente penalizzante per lo specifico gruppo. In termini sistemici, è una forma di saggezza cibernetica. Noi no. Non ci fermiamo. Ne vogliamo ancora. Altri mondi da consumare, uno dopo l'altro, in pura modalità lineare, di finalità cosciente, come direbbe Gregory Bateson, diretti verso qualcosa che sa di apocalisse.
La presenza ecologica. De Martino nel tempo della crisi ambientale
Cosa apprendiamo, dunque, dall'opera di De Martino sotto il profilo ecologico? Possiamo rileggere i temi della presenza, dell'ethos del trascendimento e della risposta alle apocalissi alla luce dell’ecologia? Il culturalismo di De Martino è una forma di antiecologismo, di trascendimento della natura in quanto tale o può essere parte di un discorso che si arricchisce sistemicamente di natura, aiutandoci a cercare risposte alla crisi ambientale?
Qui di seguito, in conclusione, alcune osservazioni sulla questione ecologica che traggono spunto dai temi trattati e ne accennano altri, muovendosi appunto verso un'ecologia di (o meglio, da) Ernesto De Martino. Le svolgo per brevi paragrafi.
1) Dualismo.
Anzitutto, i due scenari analizzati, la natura che domina l’umanità (crisi della presenza) e l'umanità che domina la natura (presenza critica), sono complementari, accomunati dall’idea dualistica della separazione radicale e conflittuale tra umanità e natura. Entrambi si basano sull'assunto, esplicito o implicito, che la natura non sia la casa dell'essere umano ma un territorio estraneo e ostile, ovvero un magazzino inerme, oggettuale, non realmente o pienamente vivo, al quale semplicemente attingere.
2) Cattiva metafisica.
Questa concezione ha costituito (e costituisce) buona parte della nostra epistemologia. Ci ha permesso di proteggerci dalle apocalissi e di crescere ma è incoerente con la realtà, divenendo essa stessa fonte di apocalisse, di modalità distruttive. Una cattiva metafisica che si traduce in cattive pratiche.
3) Dualità.
La cultura ecologica mette in discussione questa concezione. Sostituisce l'idea dualistica del conflitto natura-umanità con l'idea duale della differenza-relazione secondo cui casa nostra non è solo la città ma anche la natura (ovvero la natura è casa anche dell'umanità). Per questo, ogni comportamento antinaturalistico umano è autolesionistico.
Philip Blom definisce l'idea di dominio “la strabiliante storia di un delirio”. Un’osservazione analoga a quella di Gregory Bateson secondo cui l'organismo che distrugge il proprio ambiente distrugge sé stesso. Possiamo aggiungervi la seguente variante: l'organismo che fugge dal proprio ambiente fugge da sé stesso.
4) Crescita illimitata.
Nonostante la diffusione della cultura ecologica, l'epistemologia dualistica perdura. Ad esempio, nelle logiche dello sviluppo, business as usual, che poggiano sull'equazione A=b+c+d…, cioè sul mito dei consumi illimitati. Si accusa la cultura ecologica di catastrofismo e intanto si promuove un'economia della catastrofe, ambientale e sociale.
5) Antiumanesimo.
La concezione dualistica alimenta anche il polo opposto, dove talune visioni ecologiste traducono la contestazione ecologica in un diversificato antiumanesimo, secondo cui l'umanità, quantomeno quella occidentale, è irrimediabilmente distruttiva. Minoritarie ma non irrilevanti, varie correnti ambientaliste sostengono tesi simili e ricorrono a strumenti salvifici altri, come il primitivismo (Zerzan 1988), l’immediatismo (Bey 2014), l'autoestinzione (VHEMT - Voluntary Human Extinction Movement Theory).
6) Amare la catastrofe.
Sulla falsariga, ma non necessariamente, si colloca una nuova filosofia ecologica, catastrofista anch’essa ma nel senso di coltivare attivamente un pensiero della catastrofe (Danowski 2017, Servigne 2020, Kulesko 2023). Questa visione muove dall'assunto che la salute del mondo sia troppo compromessa perché risulti possibile una cura. Il collasso planetario è inevitabile. Dunque, dobbiamo imparare a convivere con la catastrofe e forse, in qualche modo, amarla.
7) Un mondo incomprensibile.
A sostegno di questa visione catastrofista ci sono la gravità e la complessità (o incomprensibilità) del problema ecologico, che coinvolge un enorme numero di fattori. Affrontarlo vuol dire entrare in un processo che richiede un impegno immane che, se non ben preparato, può avere effetti sconfortanti, dissuasivi, angoscianti.
8) Il lutto ecologico.
Il diffondersi tra gli ecologisti di psicopatologie legate alla questione ecologica, che Glenn Albrecht chiama sindromi psicoterratiche, va letto esattamente così. Ecoansia, ecocolpa, ecovergogna, lutto climatico, melanconia ambientale eccetera (Albrecht 2011, Janiri 2023) come manifestazioni disfunzionali della nostra impotenza dinanzi al rischio di apocalissi ambientali e a un orizzonte di fine del mondo. Lutto ecologico privo di cordoglio ecologico.
9) Senza salvezza.
De Martino definisce questo genere di situazioni apocalissi senza escaton, catastrofi senza salvezza, a indicare forme di crisi che non hanno - o sembrano non avere - via d'uscita. L'intero discorso demartiniano gira intorno al tema e tuttavia, come detto, non in modo rassegnato ma alla ricerca di escaton, di vie per il riscatto.
10) Vocazione alla salvezza.
Questa disposizione costruttiva, che definirei vocazione alla salvezza, è un contributo molto importante alla cultura ecologica che da De Martino possiamo trarre. È un pensiero orientato al riscatto, che peraltro, prendendo corpo nelle condizioni più difficili (ad esempio la stanza del cordoglio, il luogo del grande dolore) si traduce in un ancor più potente e non ingenuo esercizio di speranza. Come antidoto alla disperazione ecologica è dunque uno strumento adatto doppiamente, sia perché mira alla salvezza e sia perché nasce nella disperazione. È allenato alla disperazione. È consapevole che più è difficile sperare e più è necessario sperare. Ulrich Beck lo chiamerebbe catastrofe emancipativa (Selvaggi 2024a).
11) L’apocalittica dell’Occidente.
L'attitudine costruttiva vede De Martino profondamente distante dalla tendenza novecentesca occidentale del pensiero negativo, le letterature e filosofie della crisi, che De Martino definisce “apocalittica della società borghese in crisi” (De Martino 1977, pag. 349). Ad esse, l’antropologo dedica una parte rilevante degli appunti per la sua incompiuta opera più tarda (ibidem, pagg. 335-412), catalogandole tra le apocalissi senza escaton, intuendo che queste forme di “catabasi senza anabasi” (ibidem, pag. 358), di critica senza soluzioni, potessero rappresentare un serio problema per la cultura e la società a venire. E preferendo loro, appunto, la vocazione alla salvezza.
12) Tecniche e organizzazione della salvezza.
Il tipo di azione salvifica che De Martino delinea è - come il lamento funebre - un esercizio anzitutto tecnico. La salvezza è il risultato di un processo voluto, costruito, che richiede ritualità, sapere, azione sociale, cura, organizzazione. Emerge allora, in questo senso, una natura istituzionale dell'opera di salvezza, che sembra contrastare con la tendenza deistituzionalizzante, disintermediante, antisistema, immediatistica dei nostri tempi e che invece, proprio perciò, suona quanto mai attuale. De Martino dice: ne usciremo non con il distruggere o l'abbandonare o il semplice sognare ma con il cogliere/costruire valore. Lo stare insieme. L'organizzarci. L’istituire. Il sistema non va distrutto. Il sistema è salvezza (non ci si salva da soli e non si esce dal sistema, se non con la crisi subita, l'irrelato della crisi). A fare la differenza sono i valori che animano il sistema.
Si tratta, sotto il profilo della teoria dell'azione, di un punto cruciale e certamente di un altro prezioso contributo demartiniano alla cultura ecologica.
13) Lungo respiro.
A rafforzare il principio organizzativo c'è il fatto che lo si può leggere anche ciberneticamente, come concezione contestuale della realtà. Il trascendimento, in quanto emersione, è una forma di ragionamento per contesti, livelli logici. Richiede di collocare e considerare gli eventi (anche) a un livello di riflessione più alto, in una cornice più grande. Il che significa valutazione, relazione, apprendimento, deuteroapprendimento (ragionamento sul ragionamento) e inoltre spinta di fiducia, così come accade per ogni pensiero di lungo respiro, che rappresenta in sé stesso un contrasto alla angoscia e una valida opposizione ai pervasivi sentimenti della fine del mondo. Il pensiero di lungo respiro prefigura che il futuro, prossimo o remoto, non è impossibile. Evidentemente, per varie ragioni, è anche un pensiero ecologico.
14) Il mondo di domani.
De Martino muore prematuramente nel 1965 mentre sta lavorando alla nuova opera, che doveva chiamarsi proprio così, La fine del mondo, e che uscirà postuma, incompleta e ciononostante molto ricca. È il tema al quale intendeva dedicare la seconda parte della vita: la fine del mondo in chiave antropologica, psicopatologica, filosofica, politica, incluso il citato pensiero della crisi. In un convegno a Perugia (maggio 1964) su Il mondo di domani, De Martino presenta una relazione dal titolo “Il problema della fine del mondo”, avvisando che se esiste la possibilità di un mondo di domani, esiste anche il rischio che il mondo finisca, che non ci sia un domani, e che questo rischio non risiede soltanto “nel senso di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra ma proprio nel senso che l'umanità può… impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura… per annientare la stessa possibilità della cultura” (ibidem, pag. 70).
La preoccupazione di De Martino si è capovolta: non più il superpotere della natura (crisi della presenza) ma il superpotere e la degenerazione della cultura (presenza critica), il debordare della tecnica, il cui fine ha smesso di essere la costruzione di senso, la creazione umanistica di valore per assumere finalità disintegranti. “Come vi è una magia nera, così vi è anche un modo di intendere la scienza come tecnicismo moralmente indifferente”. (ibidem, pag. 75). La qual cosa, tra l'altro, comporta un distacco da quella prossimità con la vita, la natura, il sentire, l'incarnazione che sempre più appare a De Martino come valore umano. La tecnica, che ci ha aiutato a salvarci, ha assunto un aspetto minaccioso. È presenza critica e, al tempo stesso, fonte di nuova alienazione (Rosa 2013), nuova crisi dell'esserci, produttrice del problema che dovrebbe risolvere. Presenza critica e crisi della presenza assieme.
15) Il nascente ecologismo.
Nei primi anni Sessanta la cultura ecologica cominciava a diffondersi ma costituiva ancora un fenomeno marginale. L'ambientalismo esisteva da tempo ma la sua versione moderna era appena nata (Selvaggi 2022). De Martino non l'aveva incrociata e non la incrocerà. Tuttavia, l'atmosfera era già in cambiamento e l'attenzione di De Martino si stava allargando a nuove comprensioni culturali. Di fronte alla disumanizzazione, allo sradicamento, alla denaturalizzazione anche violenta operata dall’ipertecnica contemporanea, la strategia esistenziale andava rivalutata. Erano inoltre gli anni in cui dalle scienze, in particolare quelle naturali, cominciavano a giungere scoperte decisamente innovative su quanto la componente culturale del vivente non umano fosse enormemente più ricca dell’immaginato. La natura stessa non è mera natura. Le barriere insormontabili tra physis e logos andavano riviste.
16) La presenza ecologica.
De Martino non ripensa ecologicamente la presenza umana o forse non ha il tempo di farlo, né di rivedere alcuni passaggi dei suoi lavori segnati da toni piuttosto antiecologici (la natura come nuda vita, pigrizia eccetera) molto forti, ad esempio, in “Antropologia e marxismo” (De Martino 1977, pp. 421-471). Tuttavia, le suggestioni, i semi gettati, gli spunti in questa direzione sono vari. Ricchissimo di elementi è ad esempio il resoconto psicopatologico del caso del giovane contadino di Berna e la sua ecoangoscia antelitteram, nata dalla distruzione non del palo della cultura ma, al contrario, del palo della natura: lo sradicamento di una grande quercia. "La quercia, gli arbusti… I viventi… Io li ho salvati. Ma poiché… mio padre non ha seguito il mio consiglio, ha sradicato la quercia. La gente è franata e l’acqua è affluita… Il bel mondo nel quale poco prima sono stato non c'è più” (De Martino 1977, pp. 108-9).
La crisi della presenza, scrive De Martino, nasce dall'impossibilità di “dialettizzare il vitale con l'ethos e il logos” (De Martino 2025, pag. 7). In termini ecologici potremmo dire che la ragione della cultura ecologica è proprio questa, dialettizzare il vitale con l'ethos e il logos, cioè fermare la disgiunzione (dualismo) e riconoscere/favorire la congiunzione (dualità), il “due” (Chiurazzi 2021), sulla semplicissima base che la nostra identità passa continuamente da uno stato all’altro. È culturale e vitale, solare e notturna, ragionante e sognante, politica e poetica, eterno-simbolica e storica, permanente e impermanente, metanaturale e naturale e soltanto un progetto sfasato può dividere l'esistenza a metà. L'esserci della presenza non è tutto racchiuso nel ci. Se il ci dell'esserci è essenziale per la costruzione di senso, nella cornice del senso devono rientrare anche il corpo, il respiro, i sensi, l’ascolto, gli habitat naturali, per il semplice fatto che i due livelli sono inscindibili, in relazione continua. Si alimentano sempre, o in modo tossico quando sono “irrelati”, in frattura metabolica, o in feedback benefico quando partecipano di una circolarità.
Insomma, il discorso del senso non è più soltanto meta ma anche physis. La presenza è presenza ecologica, pensante e vivente.
17) Il mito nella storia.
Ciò comporta anche interrogarsi su cosa significhi mito (e persino sacro) nel tempo delle scienze e dell’ecologia. Un discorso enorme qui non affrontabile ma che certamente va verso una differente immissione di A in a, cioè del mito nella storia. L'appartenenza alla storia deve essere riprogrammata con più fiducia nella storia e quindi con la costruzione di una storia più sicura, evitando di delegare magicamente l'intera dimensione protettiva al mito (esempi: “Dio ci salverà dalla crisi climatica”; "Ci salverà la tecnologia”) e nondimeno evitando di crocifiggere gufi, ma impegnandosi maggiormente nella storia. In tal senso, Marcello Massenzio distingue opportunamente il “terrore della storia” di Mircea Eliade dalla “angoscia della storia” di De Martino. Nel caso di Eliade è una fuga dalla storia per andare altrove. Nel caso di De Martino una fuga dalla storia per tornare dentro e confrontarsi con i suoi avvenimenti (ibidem, pag. XXXVI).
Immettere il mito nella storia costituisce un compito politico ed ecologico che oggi si declina anche o soprattutto con l'attenzione al pianeta. Ad esempio, la preservazione dei limiti fisici, che possiamo definire sacri proprio perché richiedono l'inviolabilità, l'indisponibilità (Rosa 2024, Selvaggi 2024b). Il ragionamento metastorico di De Martino - garantire protezione alla comunità umana - non cambia. A cambiare è la garanzia, ben più calata nella storia, e i destinatari della protezione: non più solo l'umanità ma umanità e natura assieme. Il vivente.
18) Nella foresta.
A proposito di sacro, e alla luce della presenza ecologica, un nuovo pensiero è allora richiesto anche sulla ingens sylva, la grande foresta con il suo totalmente altro. Un tempo territorio nemico per eccellenza, oggi va vista come un ambiente della nostra casa - nostra nel senso che noi apparteniamo a lei e non viceversa. I caratteri che facevano della foresta un luogo di negatività (tenebra, silenzio, assenza di umano, presenza di non-umano) diventano elementi di bellezza, fascino, importanza e persino, come accennato, di nuova declinazione del sacro. Non è un caso se la storia dell'ambientalismo - si pensi a John Muir - nasca proprio dalla foresta, dalle gigantesche sequoie e dalle spaventose montagne dello Yosemite, dalla folgorazione per la loro magnificenza e dal senso di inviolabilità naturale come nuovo valore umano (Selvaggi 2024b).
19) Il nuovo ethos.
Allora, se la presenza umana è presenza ecologica, occorre che anche l'ethos - la pratica di cura della presenza - si rinnovi, si faccia ecologico. Cos'è l'ethos dell'ecologia? È la costruzione di senso non fuori dalla natura ma dentro la natura e con la natura, nella moltitudine di modi in cui può avvenire: godendo correttamente dei servizi ecosistemici; mettendo in dialogo più sano desideri e natura; traendo consapevolmente vita e ispirazione dalla natura; conoscendo, rispettando e conservando la biodiversità; riconoscendo le altre forme di vita come - in vario modo - compresenze; facendo positivamente nostro il pensiero del limite; evitando il rischio che stare nella storia come se non ci stessimo si traduca in consumare natura come se non la consumassimo; arricchendo le nostre vite di natura, nel trascendimento non della natura ma dell'opposizione alla natura. Abbiamo bisogno di cultura e natura, per superare i deficit di senso (crisi della presenza) e i deficit di natura (presenza critica) ed essere presenza ecologica. Rompere la terribile spirale del conflitto tra l'organismo e il suo ambiente, cioè del pensiero secondo cui la presenza umana è soddisfatta solo dal consumo di natura e la presenza/salute della natura è soddisfatta solo dall'assenza umana.
Scrive De Martino: “[Dobbiamo porci] Il problema di una vita simbolica che sia in accordo con il senso della storia del moderno umanesimo in cammino” (De Martino 2025, pag. 8). Alla luce dell'ecologia potremmo dire: “[Dobbiamo porci] Il problema di una vita simbolica che sia in accordo con il senso della storia del moderno umanesimo ecologico in cammino. La storia del vivente umano con sé stessa e con il vivente non umano". Una filosofia carica di echi di Edgar Morin, Gregory Bateson, Rachel Carson, che si confronta non più soltanto con la scala della città-civiltà umana, dal piccolo villaggio a Uruk fino alle megalopoli odierne, ma con la scala planetaria.
20) Pianeta Terra.
Ecco, per finire: la scala planetaria. Tra i rischi dell'ipertecnica contemporanea, dice De Martino, c'è la perdita dei luoghi più cari alle nostre vite, le “patrie culturali” (De Martino 1977, pag. 75). Tuttavia attenzione, avverte l’antropologo, perché siamo entrati in un’epoca nella quale gli stessi concetti di luogo, comunità, identità cambiano profondamente e guardano ad appartenenze più grandi. Il vivente, la creatura di Bateson, il pianeta. Spingono a relazionare il qui con l'altrove.
Splendido e futuribile, in tal senso, è il tono cosmopolitico con cui De Martino conclude la relazione di Perugia.
“Il problema centrale del mondo di oggi appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al campanile di Marcellinara ma all'intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e prospettive. Nella misura in cui questo nuovo ethos si renderà realmente operante e unificante, raccogliendo in una consapevole ecumenicità di valori comuni l’originaria divisione di genti e culture, il mondo che non deve finire uscirà vittorioso dalla ricorrente tentazione del mondo che può finire, e la fine di un mondo non significherà la fine del mondo ma, semplicemente, il mondo di domani” (ibidem, pp. 75-76).
La fine di un mondo e l'inizio di un altro. Questo è il senso della vocazione alla salvezza, dell'apocalisse emancipativa e della stessa cultura ecologica, che guarda al luogo e al pianeta, si interessa dell'oggi e si preoccupa del futuro. Vive due volte.
Visto che vi parlo di fine del mondo - dirà più o meno De Martino introducendo la relazione di Perugia - mi darete dello iettatore, del gufo, quando invece è il contrario. Io parlo di come possiamo costruire il mondo di domani. Gufo sì, ma nel senso giusto.
La nostra stessa ecologia
L’assiolo canta sugli alberi, reinventando ogni notte le notti d'estate. L'allocco adocchia un topo ma non ha fame e lo lascia andare. Il barbagianni sfreccia silenzioso come un fantasma, regalando materia alla poesia e al mito. Il gufo reale troneggia sulla roccia, guardandoci dall'alto in basso. La civetta ama il vicinato delle nostre case e lo frequenta, senza annunci catastrofici.
La metafisica dei gufi è molto più ricca e benevola di quanto ci abbia detto una certa tradizione. La loro ecologia è preziosa. Una rete di ambienti, scambi, rigenerazioni, fertilità, buio, luce che è in gran parte la nostra stessa ecologia. Un'unica ecologia, un unico paesaggio, nell'immensa tessitura delle differenze della vita. Capirlo significa salvarci e in ogni caso, salvezza o meno, esserci.
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