Esperto di Sanità Pubblica è Medico Specialista in Igiene e Medicina Preventiva, Psicoterapeuta Familiare. È Presidente Incoming per il triennio 2026-2028 della Società Scientifica delle attività sociosanitarie Territoriali CARD Italia (Confederazione Associazioni Regionali Operatori, Dirigenti e Direttori di Distretto - www.carditalia.com). Dal 2015, Responsabile dell’Area delle Integrazioni del Centro Studi Nazionale di CARD.
Medico, 40 anni al servizio della sanità pubblica, venti in ambito clinico, aggiungendo negli altri venti ruoli e funzioni apicali organizzative (direttore di distretto, direttore sanitario, direttore di centro diabetologico). Responsabile Nazionale CARD Cure Domiciliari. Da sempre attento alla cura degli anziani e delle persone più fragili.
Sommario
Nell’articolo si discute come la crisi del SSN è conseguenza di precise scelte politiche, prima che tecniche, tutte ispirate e coerenti con i paradigmi dell’ideologia neo/ordoliberista, che accentuando l’individualismo nega ogni sistema di protezione sociale (welfare) e la responsabilità collettiva della salute. In seguito alla dominanza di questa ideologia si è diffusa l’aziendalizzazione dei servizi pubblici, in cui l’assistenza in ospedale ha assunto connotati di produzione aziendalistico-industriale, ed è in atto un tentativo, erroneo, dei decisori di esportare questa logica nell’assistenza territoriale. Nell’articolo viene ripreso il valore del Distretto sociosanitario come regista-protagonista di una nuova assistenza territoriale centrata sulla persona e sulla Comunità, fortemente integrante attori e risorse in campo, e quindi ad alto contenuto relazionale. Globalmente, la tesi sostenuta dagli Autori è che oggi si è reso più che mai necessario costruire e consolidare sistemi di salute unitari, in cui i servizi sanitari congiungono armonicamente le componenti ospedaliere e territoriali, si affiancano a tutto ciò che ha relazione con i determinanti sociali della salute, in una visione che, escludendo ogni influenza neo/ordoliberista, si vanno a coniugare gli interessi di salute dei singoli individui e delle Comunità, nella prospettiva ecologica ripresa anche dall’OMS (One health).
Parole chiave
SSN, crisi, ideologia neo/ordoliberista, Distretto, assistenza territoriale unitaria.
Summary
The article discusses how the crisis of the Italian National Health Service (SSN) is a consequence of precise political choices, rather than technical ones, all inspired by and consistent with the paradigms of neo/ordoliberal ideology, which, by accentuating individualism, denies any system of social protection (welfare) and collective responsibility for health. Following the dominance of this ideology, the corporatization of public services has spread, in which hospital care has taken on the connotations of corporate-industrial production, and an erroneous attempt is underway by decision-makers to export this logic into community care. The article reiterates the value of the socio-health District as the director-protagonist of a new community health care centered on the person and the community, strongly coordinating/integrating actors and resources in the field, and therefore with a high relational content/value. Overall, the thesis is that today it is more necessary than ever to build and consolidate unitary health systems, in which health services harmoniously combine hospital and community care, with participation of other actors involved in the social determinants of health. The new vision should exclude any neo-/ordoliberal influence, combine the interests of individual and collective health, in the WHO ecological perspective (One health).
Keywords
Public National Health Service, neo/ordoliberism ideology, Community care, Primary Health Care District.
Preambolo
Non è in discussione solamente la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), quanto la nostra stessa capacità di vivere come comunità. Senza un sistema sanitario pubblico, universale e gratuito, la cura diventa un “diritto selettivo”. Un Paese che trasforma la cura in mercato è un Paese che ha smesso di credere nell’umanità. La crisi attuale del SSN non è inevitabile, bensì frutto di una colonizzazione culturale ed economica: quella dell’ordo/neoliberismo, un’ideologia che ha trasformato la salute in opportunità d’impresa, la cura in consumo, il cittadino in cliente, i diritti in responsabilità dei singoli.
Con slogan come “efficienza” e “merito” si è privatizzato il linguaggio ben prima dei servizi; ha prevalso un pensiero unico contabile che chiama “riforma” ciò che è smantellamento, e “modernizzazione” ciò che è retrocessione. In questo contesto culturale la parola stessa di “servizio sanitario per la salute” viene svuotata: la salute non è mera assenza di malattia, ma “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, secondo la storica definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1946, pag. 1). Dunque, c’è da chiedersi se e come la sanità si affianca a chi si occupa degli altri e ai ben più rilevanti determinanti sociali della salute, anch’essi colpiti dalla scure neoliberista.
La nostra riflessione deve partire dal riconoscere che il SSN rappresenta un patto di civiltà, non un costo da tagliare: è la manifestazione concreta del principio che “nessuno si salva da solo”, il lasciapassare ultimo che ci separa dal cinismo sociale. La tentata spolicitizzazione della sanità significa in partenza demolirla. Dato che la solidarietà non esiste nella prassi neoliberista - ideologia oggi dominante in modo incontrastato - dobbiamo ribaltare il paradigma: la salute è valore comune, non merce; riprogettiamo il welfare non su bilanci che voltano le spalle all’uomo, ma su relazioni che rifioriscono tra cittadini e istituzioni, tra pazienti e professionisti; senza mai scaricare sul singolo individuo la responsabilità della sua condizione (essere povero o ricco, malato o sano).
I. Il significato della crisi
Parlare oggi di “crisi del SSN” senza rianalizzarla sui giusti parametri equivale ad alzare le spalle e negare una scelta: nel bilancio italiano per il welfare oggi non ci sono spese “eccessive”, ma scelte di priorità decise unilateralmente. L’ossessione per i conti e il debito pubblico (indispensabile per il welfare) ha sostituito l’idea di giustizia sociale. I vincoli esterni prevalgono sull’interesse comune, mettono all’angolo i valori costituzionali. Abbiamo accettato di sostituire gli equilibri di bilancio con l’equilibrio dell’uomo. Ma «crisi» dal greco Κρίσις (krisis) - decisione, giudizio, scioglimento - può significare dissoluzione o decisione Κρίνω (krinō) -separare, distinguere, scegliere; a noi spetta cosa farne. La domanda non è se possiamo permetterci lo stato sociale e la sanità universale, ma come possiamo sopravvivere senza. Le asserzioni del mainstream ordo/neoliberista che ci vengono proposte come verità incontrovertibili: “non possiamo permetterci una sanità pubblica per tutto e tutti”; “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”; “diritto alla salute sì, ma condizionato dalle risorse” sono da noi considerate non vere. A nostro parere vero è: “Non possiamo non permetterci il nostro SSN, che è sostenibile quanto noi lo vogliamo. L’eventuale indebitamente per il rispetto dei LEA è doveroso”.
Questo spirito critico richiama Hans-Georg Gadamer che avverte: “la salute non è un sentirsi, ma un esserci, un essere nel mondo, un essere insieme ad altri… occupati attivamente e positivamente dai compiti particolari della vita”. La salute è dunque una condizione integrata nell’esistenza quotidiana, un’armonia nascosta che dà senso alle nostre capacità, non il risultato di un provvedimento tecnico.
Il vittimismo programmato
La propaganda del mainstream vuole farci credere che il SSN sia inesorabilmente al collasso perché troppo costoso, “insostenibile”. Si maschera così una più subdola strategia culturale: il vittimismo programmato. E si evita la vera domanda: “non sostenibile per chi?”. Per “noi cittadini” o per “loro amministratori e politici”?. Già pochi anni dopo la legge 833/78 la questione della sostenibilità finanziaria fece capolino e portò in pochi anni alla “prima riforma della riforma” (DL 502/92), ampiamente neoliberista. Più recentemente, la pandemia e l’evidenza delle interminabili liste di attesa mostrano un sistema fragilissimo e dal 2011 (avvio dell’austerità) palesemente sotto-finanziato. In realtà, la componente sanitaria è solo la coda di un grande processo, e il vero “risorgimento” – meglio, rinascimento – del SSN potrà avvenire solamente con una radicale svolta culturale: togliere potere all’emergenza e ridare forza alla vita quotidiana.
I venti servizi sanitari regionali (SSR) agiscono come venti sistemi diversi e diseguali. La regionalizzazione è scritta nella Costituzione; non serve una sterile lotta tra Nord e Sud o tra vecchie e nuove generazioni, tra padri e figli, ma urge far salire chi è più indietro, anziché abbassare chi sta un po’meglio. Pur con eccessivo schematismo, si potrebbe dire che il SSN e i SSR soffrono essenzialmente di tre carenze, più marcate nel territorio che
in ospedale: soldi (NB: per investimenti!); personale (NB: nelle dimensioni quali/quantitative); infrastrutture. Anni di politiche dissennate dovute all’ austerità, alla demonizzazione dello Stato “produttore”, all’assenza di investimenti pubblici hanno prodotto la compressione della sanità pubblica e del welfare, sulla scia dell’asserito impossibile indebitamento pubblico (che ha schiacciato anche la scuola, la giustizia), lanciando l’individualismo, l’“arrangiarsi da soli” come nuove virtù civiche. Si è celebrata l’impotenza dello Stato, con il plauso delle forze progressiste che un tempo lo difendevano. Ma attenzione: chiamare soluzione la rinuncia a dissentire ed agire diversamente è colpevole. Nessun cambiamento potrà avvenire finché non rifiutiamo le condizioni imposte. La gente, assuefatta da una propaganda massiccia, ora tende ad arrangiarsi sempre di più e urla solo quando non ha i soldi per farlo, lasciando in disparte il tema dei diritti sociali, della solidarietà; appare miope e sorda di fronte alle cause delle crescenti disuguaglianze. Resistere passivamente equivarrebbe a lasciarci sbranare dalla logica mercantilistica. Essere “resilienti” non deve significare piegarsi per tornare al passato, allo status quo; questa è retrocessione e non progresso. Serve rinascita, ricostruzione, rinnovamento vero.
II. Non insostenibilità, ma rinuncia al Bene Comune Salute
La sanità pubblica non è “insostenibile”: è l’indirizzo politico ad averlo propagandato; è la nostra società ad aver rinunciato all’idea di bene comune. Con essa si rinuncia ad un fondamento democratico. Abbiamo richiesto gratuità e servizi illimitati senza essere disposti a pagarne il prezzo politico: lo prova l’inaudita bassa raccolta fiscale, per cui praticamente solo la metà degli italiani contribuisce (https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/dichiarazioni-dei- redditi-ai-fini-irpef-2023.html ; Tasse e salute | SaluteInternazionale). Coloro che oggi chiedono “più spesa per il SSN” dovrebbero saper spiegare quando e perché sono iniziate le “penurie”.
“Nessuno si salva da solo”: la questione decisiva non è quanto possiamo permetterci il SSN/welfare, ma affermare che NON possiamo permetterci di rinunciarvi. Il SSN è un investimento sul benessere generale, sulla capacità produttiva del Paese, oltre che sulla salute collettiva; non è un insopportabile costo: la salute è «stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi che non può essere superato da nessun altro tipo di controllo» (Gadamer, pag.117), qualcosa di sacro che sfugge ai calcoli puramente economici. La vera sostenibilità è relazionale, fondata sulla solidarietà e sulla prevenzione, non voce contabile. Dobbiamo recuperare questa prospettiva: in un’epoca di crisi globale, la salute va intesa come risorsa per lo sviluppo umano e sociale, ed anche economico, non come optional (lusso?) cui rinunciare per non aumentare il debito pubblico. Perfino Blanchard, uno dei più influenti economisti mondiali, ortodosso verso l’austerità ma non dogmatico, è ritornato sui suoi passi affermando che “Il debito pubblico non è di per sé diabolico”.
https://fchub.it/il-debito-secondo-blanchard/ https://eticaeconomia.it/le-sliding-doors-della-governance-macroeconomica-dalla-sostenibilita- del-debito-pubblico-alla-sostenibilita-della-crescita/
Se non vogliamo abbandonare il SSN (o peggio, indurre il suo crollo “naturale”), occorre un cambio di paradigma. Dobbiamo studiare le disuguaglianze negli esiti di salute, come insegna Sir Michael Marmot (i determinanti sociali della salute), e saper intrecciare giustizia sociale e politica sanitaria; input e income con output e outcome. L’OMS ci ricorda che per raggiungere uno stato di “completo benessere fisico, mentale e sociale” non basta curare le malattie, ma si deve valorizzare la Salute del Cittadino, dando a ciascuno strumenti concreti per realizzare le proprie aspirazioni. Significa promuovere reddito, cultura, salute mentale e coesione, inclusione. Innanzitutto, in un patto politico dobbiamo riconoscere che lo Stato non è il nemico (“è il problema, non la sua la soluzione”, recita il dogma dell’ideologia neoliberista), ma il luogo della nostra identità collettiva, della possibile soluzione, quando ben gestito. Nessuna comunità pubblica sopravvive senza forte senso di appartenenza al proprio Stato; un SSN/SSR abbandonato subisce esattamente il destino di un corpo trascurato: deperisce.
III. Il Risorgimento del SSN
Il rilancio del SSN non avverrà attraverso nuove riforme tecnocratiche, ma da una rinascita del prendersi cura nella comunità. Il futuro del SSN si gioca tra la gente: nei presidi territoriali, nei consultori, nelle case della comunità e in ogni ambulatorio pubblico, nei luoghi di vita e lavoro, dove il rapporto tra medico e paziente si ricostruisce. Fondamentale è il contributo del terzo settore e della cittadinanza attiva. Occorre mettere al centro le relazioni umane, non i bilanci, perché – come ricorda Gadamer – la salute è “esserci”, partecipazione attiva alla vita sociale e quotidiana.
Ripensare il SSN significa superare il modello ospedalo-centrico; non tagliare risorse, ma far dialogare ospedale e territorio (v. oltre). Un SSN che risorge ascolta e coinvolge la comunità, curando insieme alle persone. La prevenzione – attraverso vaccini, screening, educazione – non è solo contenimento dei costi, ma un modo per prendersi cura dei più fragili prima che sorgano le malattie. Come affermato dalla Carta di Ottawa, la salute è una risorsa quotidiana, non solamente un obiettivo, ed è necessario promuovere condizioni ambientali e sociali favorevoli al benessere collettivo.
In concreto, questo significa investire nella medicina di comunità: rafforzare i servizi territoriali, le case della comunità e le équipe multidisciplinari che integrano l’assistenza sanitaria e sociale. È fondamentale valorizzare i corpi intermedi e il lavoro degli operatori del SSN, recuperando i valori umanistici della legge 833/1978. Serve un nuovo umanesimo che anteponga i diritti sociali a quelli civili, sostenendo i professionisti della
sanità pubblica, non schiacciandoli con tempi e logiche industriali. Solo così il SSN potrà essere meno “macchina” e più “rete di senso”.
IV. La Questione Ospedale-Territorio: Criticità e Nuove Prospettive
La questione è spesso così (e)semplificata: “L’ospedale scoppia…”; “Il Pronto Soccorso è intasato… e il territorio non fa filtro”. Affermazioni spesso vere, ma altrettanto spesso esagerate, che mantengono la prospettiva ospedalo-centrica, e funzione residuale per il “territorio”.
“L’ospedale deve occuparsi delle acuzie; il territorio delle cronicità”. In realtà la situazione è più complessa: oggi, accanto alle acuzie e alle emergenze-urgenze, proprie dell’ospedale, si rileva un nuovo, prevalente bisogno di assistenza territoriale in cui ritroviamo, spesso inespressi, bisogni “complessi” somma di (multi)cronicità, disabilità, fragilità, non autosufficienza, solitudine, vulnerabilità o esclusione sociale, con richieste di cura, assistenza e tutela di medio-lungo periodo da parte delle persone, famiglie, comunità. Ecco perché il futuro è nelle cure di comunità. “La comunità che cura” è il nuovo paradigma della CARD.
Ancora, sarebbe più utile pensare al dilemma acuzie/non-acuzie tenendo conto che la maggioranza degli stati acuti oggi fa capo a recidive di malattie croniche, che se fossero meglio curate e seguite (con vere "prese in carico” integrate tra ospedale e territorio) potrebbero essere evitati e/o ritardati in proporzioni significative, con sollievo dei malati, ancor prima che delle organizzazioni ospedaliere. Facile comprendere che queste “cure corali-polifoniche” (per cercare di uscire dal gergo usuale) territoriali-ospedaliere agite insieme richiedono forti raccordi relazionali tra le parti, tra persone/personalità che devono possedere proprie identità e specificità per potersi integrare, quindi elevate capacità tecniche ed anche alte qualità umane-relazionali. “High tech o high touch?” ci siamo chiesti anni fa in CARD. Facile la risposta: il tocco umano arricchito dalle tecnologie è la strada giusta. Difficile attuarla senza un forte “territorio”.
Un rapporto nuovo territorio-ospedale: possibile con il paradigma ICF?
Potremmo provare a pensare in modo nuovo seguendo il paradigma ICF (International Classification of Functioning): all’ospedale va la funzione di riparare e ristabilire le funzioni fisiche (“body function, body structure”), mentre il territorio deve aggiungere la “participation”, ovvero l’inclusione e la partecipazione sociale; il riconoscimento dell’elemento co-esistivo della comunità. Schematizzando: da un lato “le cose”, dall’altro “le persone”. Se insieme operassero in indissolubile-inscindibile unione, sarebbe più probabile la presa in carico globale, un sistema realmente centrato sui bisogni globali
(bio-psico-sociali). E nelle “persone” noi includiamo alla pari gli operatori: il loro benessere favorisce una cura di qualità (un operatore insoddisfatto difficilmente potrà essere un buon Autore di cura) svolta in un clima motivante (non solo le basse retribuzioni, ma il cattivo clima lavorativo genera oggi demotivazione).
Criticità del Modello Organizzativo Attuale
Il modello organizzativo attuale della sanità, pur tra alcuni progressi, mostra ancora una separazione tra ospedale e territorio, con un baricentro immutabilmente ospedaliero. Il territorio viene spesso visto soltanto come supporto all’ospedale, e la “continuità ospedale-territorio” viene considerata in queste due sole tappe, non in tre: territorio-ospedale-territorio. Agiamo sull’intero percorso, con un’assistenza realmente integrata: dalla prevenzione dell’accesso in Pronto Soccorso (PS), al ricovero appropriato (ammissioni protette), fino a una dimissione “giusta” che consenta la prosecuzione ottimale delle cure ed eviti disagi. Questi elementi sono spesso ignorati dall’opinione pubblica e dagli stessi operatori, distratti dall’enfasi mediatica sugli “eccessi” di codici bianchi e verdi in PS. In proposito, occorre ricordare che l’attribuzione del codice colore avviene ex-post e gradua il livello di urgenza non la gravità della condizione contingente (ad esempio, una persona anziana con frattura di femore quasi mai viene classificata all’ingresso come “codice rosso”, ma arduo affermare che questo ricovero è “inappropriato”). Ogni semplificazione genera errori ed incomprensioni; rischia di colpevolizzare ingiustamente sia il paziente “improprio” sia il sistema-territorio “difettoso” (ricordiamoci che a fronte dei ricoveri forse non evitati dai MMG (quindi “visibili”), molti di più sono gli “Invisibili” (non arrivati in PS). Dobbiamo decidere quindi se le Case della Comunità saranno un filtro per il PS o se vorranno proporre un modello diverso, centrato sulla prevenzione e sulla proattività verso i soggetti più fragili, rendendo davvero “la casa primo luogo di cura”.
V. Continuità Assistenziale e Ruolo del Distretto
Si è detto che questa continuità assistenziale integrata va concepita in un percorso articolato in tre fasi: territorio-ospedale-territorio. Il “buon territorio” accompagna in ospedale il paziente, segue gli avvenimenti durante il suo ricovero, lo riporta a casa con un puntuale programma di cure personalizzato. Secondo noi, questo compito e responsabilità costituiscono il mandato da affidare al Distretto, che deve per questo essere adeguatamente dotato di risorse, strumenti, tra cui certamente oggi formidabili nuove opportunità sono offerte dalle moderne tecnologie “tele” (pensiamo alle opportunità ben spiegate da Agenas di televisita, telecontrollo, telemonitoraggio https://www.agenas.gov.it/aree-tematiche/comunicazione/primo-piano/2653-telemedicina- pubblicato-il-modello-orientativo-di-erogazione-del-teleconsulto).
Ma attenzione: queste “tech” non sostituiscono, bensì arricchiscono l’intervento umano, l’occhio e l’orecchio di professionisti competenti, motivati e motivanti, ben addestrati-formati per accompagnare e sorreggere il paziente lungo tutto il percorso e le fasi di cura, oltre ogni dicotomia frammentante. Ecco che così riemerge il valore delle interrelazioni tra tutti gli Autori di cura. Tutto questo, per essere realizzato, richiede non solo “persone ben preparate” ma anche “organizzazioni preparate” (change management), in cui è centrale, imprescindibile la presenza di un “soggetto regista”: il Distretto. Qui esso va inteso non come edificio, ma come strumento operativo in grado di garantire raccordo e coordinamento tra molteplici servizi di cure primarie, intermedie e domiciliari, in piena sinergia con le cure ospedaliere. In un sistema ideale, questo “quadrilatero” di setting di cure non è più separabile ed in ciascuno dei suoi punti l’aspetto della riabilitazione è fondamentale. A riguardo, apprezziamo che la COT sia stata inserita nel DM 77 tra i presidi del Distretto, che porta la responsabilità di realizzarla in una visione innovativa e fondamentalmente deputata a far crescere giuste e proficue relazioni integranti. Secondo noi la COT senza un Distretto “forte” difficilmente potrà esprimere tutte le sue potenzialità positive.
VI. Trasformazioni dell’Ospedale e Dinamiche Organizzative del territorio e dell’ospedale
L’ospedale moderno si articola su tre assi principali: il pronto soccorso-area emergenza; le cure ad alto contenuto tecnologico (per diagnosi e terapia); la produzione di prestazioni ambulatoriali specialistiche. Il personale è qui sottoposto ad una formidabile pressione verso l’alta efficienza: riduzione dei tempi di esecuzione, ricoveri brevi, dimissioni rapide, interventi veloci, alta produttività, in linea con una logica da “officina di Formula 1”. Questa corsa all’alta performance e all’eccellenza produttiva, espressa anche nelle classifiche degli ospedali “eccellenti”, genera nei professionisti il desiderio di lavorare nelle strutture di maggiore prestigio, rinforzando una cultura competitiva e prestazionale, salvo poi rimanerne schiacciati.
E’ fondamentale che questa visione non venga trasferita nell’assistenza territoriale. Nel territorio, infatti, bisogna valorizzare la dimensione del tempo di relazione e cura, elementi incompatibili con il “fordismo” ospedaliero, che è fonte di stress, insoddisfazione, allontanamento del personale, il quale si demotiva, oltre che per gli alti carichi di lavoro, per i rigidi modelli gestionali gerarchici poveri di qualità relazionali. Il territorio deve funzionare, invece, grazie a un’organizzazione poco gerarchizzata, tesa a stimolare la competenza, che eleva il grado di autonomia e di responsabilizzazione, di lavoro in team. Tutto questo può favorire la motivazione e l’accurata presa in cura globale del paziente.
Si osserva che è ancora troppo lento lo spostarsi della medicina generale dallo status quo (anche a causa degli accordi contrattuali in cui la parte pubblica storicamente era debole) verso questi orizzonti con nuovi assetti di lavoro in equipe distrettuali.
In sintesi, l’ospedale e il territorio richiedono modelli organizzativi profondamente diversi: auspichiamo che ne siano ben consapevoli tutte le Aziende Sanitarie.
VII. Competenza, Formazione e Specificità del Lavoro Territoriale
Se è vero che il lavoro nel territorio richiede competenze specifiche, distinte da quelle dell’ospedale, diventa essenziale che il personale territoriale venga selezionato con cura e formato in modo continuativo (stop al “trasferimento-parcheggio dall’ospedale per gli inefficienti o pensionandi”...). E’ invece opportuno riconoscere il valore e la difficoltà del lavoro nei servizi territoriali con incentivi e retribuzioni mirate, in particolare per chi si occupa di assistenza domiciliare. Il territorio rappresenta un sistema complesso, più articolato di quello ospedaliero; una complessità che troppo spesso viene sottovalutata.
Queste riflessioni sono centrali per la progettazione e la gestione delle Case e degli Ospedali di Comunità, in cui non si devono replicare logiche e criteri propri del sistema ospedaliero, ma sviluppare modelli specifici, che tengano conto delle peculiarità del lavoro territoriale.
Partecipazione e Lavoro in Team
Promuovere la partecipazione, il terzo elemento chiave nell’ICF, significa mettere al centro le relazioni tra persone: queste si manifestano palesemente nel lavoro territoriale in team multi-disciplinare/professionale, con approcci coinvolgenti molteplici professionalità nelle fasi della valutazione, della progettazione e della presa in carico della persona.
VIII. Il Tempo della Cura e la Specificità del Territorio
Nel territorio, la variabile forse più rilevante e nel contempo trascurata è la dimensione della durata-tempo dell’assistenza, che deve svilupparsi spesso nel lungo periodo, anche per molti anni. Le cure (anche riabilitative) di lunga durata sono il core dei servizi territoriali, che devono saper mantenere attenzione e intensità per lunghi periodi, adattandosi a bisogni che mutano e per lo più aumentano nel tempo lungo (anni, spesso). Questo vale sia nell’assistenza ambulatoriale che domiciliare e residenziale. Riferirsi a dizioni quali “cure per condizioni di lunga durata” piuttosto che ai “malati cronici” può evitare stigma e rassegnazione; “cronico” non deve significare mai “non recuperabile, non curabile”. Va diffusa una cultura della speranza, dell’azione e dell’impegno continuativo, dell’ascolto costante, anche quando tutto ormai sembra irreversibilmente peggiorato, per offrire alle persone momenti di vita dignitosa.
Ciò vale soprattutto quando pensiamo alla gestione della sofferenza e della morte. “Il tempo è la condizione per vivere, la morte è il prezzo da pagare per vivere” (E.Morin,2017, in: Conoscenza, ignoranza, mistero, R. Cortina Editore). Chi lavora in questi ambiti sa che la qualità della relazione tra malato, familiari e operatori è il fattore che qui più incide sulla qualità della vita.
IX. Una Nuova Visione Organizzativa
Abbiamo visto che per ottenere un sistema sanitario efficace e coeso è fondamentale superare la tradizionale separazione tra ospedale e territorio, costruendo un modello armonico/armonizzato, unitario, in grado di favorire la fiducia tra utenti e professionisti e ridurre la frammentazione tra i vari livelli assistenziali, in particolare tra assistenza primaria e specialistica. La CARD ha sviluppato il concetto del “cubo dell’integrazione”, che identifica sei momenti relazionali nel lavoro territoriale: assistenza generalista, specialistica, infermieristica, riabilitativa, sociale e informale (del volontariato) (In: Il cubo integrante della salute. Una ripresa della Primary Health Care per il rilancio dei Distretti di Comunità. A.Trimarchi, P. Da Col. Salute Umana, n.291,2023, pag. 55.). Ciò pone l’accento sulla qualità delle relazioni come elemento centrale delle cure condivise, andando oltre la semplice distinzione tra cure istituzionali (formali) ed informali, oppure tra chi offre assistenza e chi ne è destinatario, che deve essere posto in condizione di diventare “partecipante attivo” più che “ricevente passivo”. Sono le giuste relazioni tra i setting di cura a portare armonia delle cure. Se poniamo “la relazione con il paziente al centro” è l’assistenza territoriale a restituire in primis senso alla salute e alla malattia attraverso un rinnovato forte sistema di relazioni. Questo compito è innanzitutto in mano ai professionisti, che devono essere consapevoli e capaci di guidare utenti e famiglie. Spetta alle Alte Direzioni favorire nel proprio personale le buone relazioni umane, nel convincimento che ciò genera speranza nei pazienti e familiari, contrasta il senso di abbandono o solitudine, che può colpire non solamente utenti e care giver ma anche gli stessi operatori.
Prospettive di Governance e Leadership
Per raggiungere tali traguardi è indispensabile innovare la governance delle aziende sanitarie, promuovendo manager esperti nella gestione delle risorse umane, oltre ogni aziendalismo asettico (tecnocratico), capaci di creare un clima aziendale positivo e collaborativo, e quindi selezionati anche in base a questi requisiti. Riteniamo debba diventare routine misurare nel personale la qualità delle relazioni all’interno dell’Azienda, il grado di soddisfazione, motivazione, il senso di appartenenza del suo personale, monitorando indicatori di frustrazione, assenteismo e abbandono. In sanità
pubblica, perdere il proprio personale dovrebbe – lo diciamo come provocazione - configurarsi come ipotesi di danno erariale. Ripartire da una diffusa cultura e pratica delle buone relazioni significa rispettare le esigenze dei pazienti e far percepire loro che, pur con limiti e imperfezioni, i professionisti sanitari sono presenti e vicini.
X. Per non concludere…
Senza alcuna pretesa, proviamo a riordinare i pensieri secondo noi fondamentali:
1. Nell’interesse degli utenti e del sistema urge oggi superare ogni dualismo ospedale-territorio, per convergere invece sullo sviluppo di un sistema unitario, costruito su approcci di lavoro congiunti ed integranti, in grado di valorizzare e fondere le competenze-funzioni ospedaliere per le situazioni acute con la prossimità e la continuità delle cure di medio-lungo termine proprie del mandato territoriale.
2. La fusione tra i due ambiti di intervento necessita di uno sforzo corale- polifonico da parte di tutti gli attori in scena, facilitati a costruire un ecosistema in cui è presente una solida rete di relazioni positive tra i professionisti, tra questi e gli utenti, sia nella dimensione tecnico-professionale, sia - auspicabilmente - in quella umana-amichevole. Questa tensione è dinamica e continua, non fine da raggiungere una tantum. Ci troviamo così in una prospettiva superiore a quella della mera “transizione dall’ospedale al territorio”. Le Aziendalizzazioni senza relazioni sono inutili.
3. Sistemi sanitari pubblici fortemente unitari, plurali, corali, globali, saldamente congiunti (meglio: ecosistemi di salute globale – one health) diventano sostenibili innanzitutto perché efficaci: creano benessere, salute, crescita più armonica dell’intera società nei profili economici, di benessere sociale, spirituale a favore di tutti gli individui (sani o malati), oltre ogni retorica. In questo senso, l’integrazione tra sanità e sociale è fondamentale.
4. Mettere al centro le attività territoriali piuttosto che quelle ospedaliere può ridare importanza alla relazione tra curanti e pazienti (là dove per paziente si intende il malato insieme al suo contesto), che si struttura co-evolutivamente nel tempo, favorendo la personalizzazione delle cure e la compliance dei pazienti nella prevenzione delle patologie.
5. Operativamente, oltre il “lirismo del territorio”, proponiamo di pensare a: a) aumentare il budget della parte territoriale di almeno 20-25 miliardi di euro nei prossimi 5 anni (con priorità indipendente rispetto all’attuale ripartizione del FSN tra territorio e ospedale del 55%:45%); b) rendere obbligatoria la presenza dei Distretti quali registi responsabili delle attività e strutture territoriali (incluse quelle del DM 77) in ogni Regione ed in tutte le Aziende Sanitarie pubbliche regionali; c) utilizzare questi fondi aggiuntivi per potenziare nei Distretti quantità di personale, mezzi, tecnologie, infrastrutture.
Oltre i nostri errori?
Non ci basti più alzare la voce per denunciare: siamo chiamati a una conversione civile. Anche noi cittadini “attivi” abbiamo forse contribuito –in buona fede – a scavare la fossa del pubblico. Tre trappole culturali hanno aggravato la crisi:
· Deleghe e abulia. Abbiamo creduto che la salute fosse competenza esclusiva di tecnici e politici: noi (gente comune) pensavamo di avere poca o nulla voce in capitolo. Così abbiamo delegato anziché partecipato, dimenticando che la cura è una responsabilità comune, è partecipazione alle scelte delle priorità, alle decisioni cruciali. Siamo spesso confusi su come si fa a controllare chi governa la sanità, come coinvolgere comunità, comitati cittadini e famiglie nelle scelte: abbiamo voltato le spalle alla politica della salute, da buoni sudditi distanti da un destino condiviso. Ci siamo dimenticati di rivendicare che i soldi in campo sono nostri, non “loro”.
· Servizi senza fatica. Abbiamo voluto più servizi, ospedali, prestazioni e al tempo stesso non abbiamo curato la capacità degli operatori “a fare fatica”, ci siamo arresi alle iniquità fiscali. Abbiamo preteso l’universale tollerando che tutti i cittadini potessero accedere ai servizi (“I diritti”), senza pretendere la compartecipazione ai costi (“i doveri”). Pagare per il bene comune è un atto politico, di amore verso la Repubblica e verso la società. Godere del diritto alla salute implica un equilibrio: la spesa sanitaria non può essere ridotta al solo conto economico, perché in realtà è un investimento sociale. Nel presentare le spese in sanità come fardello da alleggerire ci si dimentica che ogni euro investito nel SSN restituisce valore aggiunto (effetto moltiplicatore) in salute, produttività, coesione, benessere, ed anche ricchezza del Paese. Come consiglierebbe Gadamer, non si può ridurre la salute a merce: essa non può essere misurata in puri numeri di mercato.
· Crisi e ipocrisie. Sostenere a parole la salute pubblica, ma non opporsi alle politiche neoliberiste che la strangolano è una contraddizione palese. Fermiamo le politiche redistributive regressive (Robin Hood al contrario). Le forze politiche cosiddette progressiste hanno “tradito” quando hanno sostenuto e favorito il dilagare dell’ideologia neoliberista, che per sua natura è contraria al welfare, all’interesse collettivo. Vogliamo “difendere il SSN”? Bene: allora dobbiamo essere ben consapevoli che il neoliberismo, “teologia” sostenuta negli ultimi anni anche dalle forze cosiddette di sinistra, ideologizzate al liberismo, è incompatibile. “Alcune ideologie che si considerano scienze, come il marxismo e oggi il liberalismo economico, possiedono incondizionatamente le menti che hanno fede in esse.” (E.Morin,2017, in: Conoscenza, ignoranza, mistero, R. Cortina Editore). Abbiamo smesso di sognare alternative, posizionandoci, erroneamente, sul “noi ce la caviamo da soli”.
Dunque, smettiamola di urlare da soli: guardiamoci negli occhi e ammettiamo gli errori culturali finora commessi. Convertire le persone non è possibile per decreto, ma possiamo convincerci insieme della necessità di cercare la verità e cambiare rotta.
Non basta far finta di diffondere dati tecnici: dobbiamo riscoprire l’etica della co- responsabilità. Se le cosiddette forze progressiste, che fino a ieri hanno accelerato i tagli, oggi gridano "Basta austerità", dobbiamo loro chiedere perché in passato l'abbiano voluta e praticata come salvifica. Perfino Mario Draghi ha ammesso gli errori: “Abbiamo deliberatamente perseguito una strategia fondata sul tentativo di ridurre i costi salariali l'uno rispetto all'altro, in aggiunta a una politica fiscale prociclica, con il risultato netto di indebolire la nostra stessa domanda interna e minare il nostro modello sociale”. (M. Draghi. Intervento alla High-Level Conference on the European Pillar of Social Rights. Rivista.eurojus.it Fascicolo n. 2 – 2024 - https://rivista.eurojus.it/wp-content/uploads/pdf/Intervento-di- Mario-Draghi-alla-High-1-2.pdf ). In queste sue parole sta la spiegazione delle cause dell’attuale crisi dei salari e del welfare: come mai i media conformisti parlano così poco di questa “retromarcia”?
Dobbiamo tornare a dialogare nelle Aziende Sanitarie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei comitati di quartiere, nelle Comunità attive, con rispetto reciproco. Il dialogo come prima forma di relazione e democrazia. Se la sanità diminuisce, il lavoro muore di infortuni, la qualità della vita si abbassa, gli anni di vita persi aumentano. Non è stata la pandemia a far crollare il SSN, ma il combinato disposto di vent'anni di scelte politiche scellerate che si sono concentrate nel triennio epidemico, in cui si sono svelati tutti i problemi che molti volevano nascondere.
Dalla denuncia alla corresponsabilità
Oggi è il momento di passare dalla pura denuncia alla partecipazione concreta. Il semplice grido “Difendiamo il SSN” rischia di essere vuoto se non è sostenuto da un netto rifiuto dell’ideologia liberista che lo sta minando. Non possiamo più nasconderci dietro la scusa che “Noi abbiamo ragione, loro tagliano”: chi oggi invoca maggiori risorse pubbliche deve riflettere sulle ultradecennali politiche di austerità che hanno bloccato la crescita del PIL e che continueranno a frenarla se rimaniamo prigionieri dei rigidi vincoli economici esterni (della UE). Per redistribuire occorre avere qualcosa da redistribuire.
Il “Non ci sono alternative” del neoliberismo nega la democrazia. In democrazia un’alternativa c’è sempre. Una comunità non può realizzarsi pienamente se non può scegliere, esercitare la propria sovranità sulle scelte che la riguardano, come stabilito dall’articolo 1 della Costituzione italiana. Non basta chiedere oggi genericamente “più Stato”: serve uno Stato coraggioso, sano, capace di dire “insieme a voi cittadini”. È necessario rilanciare la Politica, restituirle dignità, senso e partecipazione; chiederle di realizzare maggiore equità fiscale.
Dobbiamo lottare affinché lo Stato non ceda sovranità ai mercati finanziari o alle tecnocrazie delle istituzioni sovranazionali. Difendere il servizio sanitario pubblico significa rivendicare il diritto dello Stato di fare scelte indipendenti, coerenti non con i “mercati” ma con la nostra Costituzione. Significa rispettare dinamiche democratiche. Perché abbiamo sì bisogno di relazioni, ma di relazioni democratiche.
Restituire forza allo Stato implica anche il recupero delle comunità politiche locali. Obbligatoria l’integrazione tra sanità e sociale. Facciamo nostre le parole del Presidente di Federsanità pronunciate nei giorni scorsi: “Oggi è indispensabile superare una visione frammentata e costruire un linguaggio comune, condiviso tra istituzioni, professionisti e cittadini. Serve una contronarrazione positiva del Servizio sanitario nazionale: non più il racconto della crisi, ma quello della trasformazione, della prossimità e della fiducia. Le amministrazioni locali, insieme alle aziende sanitarie e al terzo settore, stanno già realizzando un nuovo modello di welfare, fondato sulla cura di comunità, sulla partecipazione e sulla responsabilità diffusa” (12 novembre 2025, alla presentazione del sesto rapporto Federsanità).
È nella solidarietà ritrovata che può vivere un SSN pubblico giusto. Comunità e neoliberismo sono concetti opposti: solo attraverso la solidarietà possiamo garantire un sistema sanitario equo e universale. Questo percorso si basa su informazione e mobilitazione basata su un cambio culturale: chi difende il SSN deve avere il coraggio di denunciare le mancate risposte, i bisogni non soddisfatti e le emergenze ignorate, come quella della salute mentale. L’OMS stima che quasi una persona su sette conviva con un disturbo mentale; in Italia il bisogno di “risorgere di vite vitali” si manifesta in molte testimonianze. Investire nella prevenzione e nella cura del disagio psichico, dalla scuola agli ambulatori di comunità, ai centri di salute mentale deve essere parte integrante di una strategia globale per la salute, non un capitolo separato. Eppure, mentre molti rivendicano l’aumento delle percentuali di PIL da destinare alla sanità, pochi si pongono il problemi di destinare subito almeno il 5% delle attuali risorse alla salute mentale.
Solo se i cittadini torneranno ad essere protagonisti e sovrani, se percepiranno l’uguaglianza nell’accesso alle cure e la responsabilità politica, ritroveranno piena fiducia nel SSN e rafforzeranno il patto sociale-relazionale che lo sostiene.
A noi, sceglierci
Non siamo spettatori di una crisi inevitabile, ma cittadini chiamati a scegliere: possiamo dividerci nei particolarismi (“il mio ospedale, il tuo ospedale”) o unirci in un patto di cura condivisa. Chiediamo uno Stato capace di ascoltare e agire insieme a noi popolo sovrano. Difendere il SSN non significa essere nostalgici, ma costruire un futuro in cui la sanità pubblica sia frutto di una comunità solidale e responsabile. Gli operatori sanitari sono il cuore pulsante del sistema e non possiamo lasciarli soli.
Il destino del SSN dipende dalla nostra partecipazione: o risorgiamo insieme, o rischiamo di perderlo per abbandono, disuguaglianze e indifferenza.
Epilogo: la crisi come rivelazione.
La salute non è una merce, la cura non è un prodotto e il SSN non è solo un costo, né solo una spesa: è un investimento nel bene comune e nel futuro di tutti.
Il vero risorgimento civile parte dalla nostra scelta di prenderci cura l’uno dell’altro, partecipando attivamente e difendendo il SSN come fondamento di civiltà.
Solo attraverso il dissenso costruttivo e la solidarietà anticonformista possiamo riaprire la partita, rafforzare la democrazia e rinnovare la società. Difendere il SSN oggi significa garantire una società più giusta domani (Gadamer, 1994, pag. 140).
In questo orizzonte, la crisi non è solo rottura. È rivelazione. È lo spazio in cui emergono criteri nuovi per guardare la realtà. E allora la parola “crisi” si apre davanti a noi come un piccolo multiverso semantico, simbolico: un soffio di antropologia spirituale, una soglia in cui scegliamo chi diventare.
Bibliografia essenziale
Gadamer H. G., 1994. Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano.
Marmot M., 2016. La salute disuguale. La sfida di un mondo ingiusto, Il Pensiero Scientifico, Roma.
Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 1946. Costituzione dell’OMS, New York. WHO, 1986. Carta di Ottawa per la promozione della salute
WHO, 2025. Mental disorders, Fact Sheet.
Per la parte di Economia:
https://goofynomics.blogspot.com/
(NdAA: si raccomanda la lettura almeno della sezione “Per cominciare”)
https://eugeniopavarani.it/category/un-percorso/
Harvey D.. 2005. Breve storia del neoliberismo. Il Saggiatore.
Moini G. 2020. Neoliberismo. Mondadori Università, Milano. La fionda. 2024. Lessico del neoliberalismo.
Stiglitz J.E. 2017. L’Euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa. Einaudi. (NdAA: si raccomanda la lettura almeno dei primi quattro capitoli)
Guazzarotti A., 2020. Integrazione europea e riduzionismo politico. Costituzionalismo.it, n. 3