Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

Dai testi leggibili ai testi scrivibili:
l’epistemologia sistemica dalla mimesis alla poiesis

di Rosanna Pizzo


dott. in Politiche sociale-counselor sistemico relazionale –
formata allo psicodramma moreniano
Socio Ordinario AIEMS, Roma

Sommario

Questo saggio narra il significato dell’esperienza formativa sistemico-relazionale, attraverso una danza nell’emozionale. L’incipit è rappresentato da una riflessione sul passato, descritto attraverso l’approccio estetico alla conoscenza, la conoscenza per sensibilità, in sintonia con l'epistemologia di Gregory Bateson. Si sottolinea il concetto di polymathía, in quanto fondativo dell’epistemologia sistemica, che caratterizza a partire da Bateson, tutte le relative scuole, seppur nella differenza.


Parole chiave

estetica-testo leggibile-testo scrivibile -mimesis – poiesis - polimatia formazione sistemico-relazionale.


Summary

This essay talks about the meaning of the formative systemic-relational experience, through a dance in the emotional. The incipit is a reflection on the past, described through the aesthetic approach to knowledge, knowledge through sensitiveness, in syntony with Gregory Bateson’s epistemology. The concept of polymathia is enhanced, as it is fundamental in the systemic epistemology, which characterizes, from Bateson onward, all the respective schools, even if in the difference.


Keywords

Aesthetics-text; readable-text; writable; mimesis; poiesis; polimatia; systemic-relational training.



Non smetteremo di esplorare. 

E alla fine di tutto il nostro andare,

 ritorneremo al punto di partenza 

per conoscerlo per la prima volta. 


Thomas Stearns Eliot 




Come introduzione a questo spaccato narrativo di tipo autobiografico, riguardante il saggio in questione, e quindi il significato che ha avuto e ha per me l’epistemologia sistemico-relazionale, ma anche le motivazioni che mi hanno guidato verso detta scelta (in quanto, di questo si tratta) mi corre l’obbligo di fare, di seguito, alcune precisazioni. Questo lavoro sarà condotto attraverso uno stile che riflette un mio modo di essere, forse un po’ fantasioso, bizzarro, emozionale. Lo fonderò su una discorsività rapsodica, rizomatica, alcolica, che procede, in un certo senso, freudianamente, per libere associazioni, quelle della memoria involontaria e delle intermittenze del cuore, anzi, evocando H. Maturana, all’insegna di una “danza nell’emozionale”, con pensieri in libertà. 

Fatta questa precisazione, non posso non ringraziare Sergio Boria, per avere offerto con la richiesta di dare parole all’esperienza formativa sistemico-relazionale, una opportunità tale da consentire, a ciascuno di noi, a suo modo, di raccontare, cosa ha significato e cosa continua a significare nelle nostre vite, tale momento topico. Un momento autoriflessivo, che chiede ex post di ripensar-si, ancora, al di là di un setting strutturato e connotato come tale. D’altro canto, la formazione, a mio avviso, è un processo che si storicizza nel tempo e non si esaurisce nell’hic et nunc del contesto didattico; fa parte, infatti, di mettersi in gioco e proseguire, anche in diversi contesti, come quello del gruppo studi, organizzato da Sergio, in qualità di presidente dell’AIEMS, di cui faccio parte; gruppo studi nella cui cornice ho condiviso, per alcuni anni, degli incontri molto stimolanti, insieme ad altri colleghi, seppur appartenenti a diversi ambiti disciplinari, e per questo ancora più arricchente. 

Proseguendo su questa scia, dal 2014 al 2019, sono nati sempre, nel contesto AIEMS, e sempre su iniziativa di Sergio, gruppi di lavoro di cui ho fatto parte per la città di Catania, insieme alle città di Bari, Foligno, Lerici, Milano e Torino.

In detto contesto, quindi, per la città di Catania, ho predisposto con Umberto Anastasi, professore associato di Agronomia e coltivazioni erbacee presso l’Università degli Studi di Catania, alcune interessanti iniziative dirette a diffondere l’epistemologia sistemica.  Detta attività è stata interrotta, nel 2020, a causa della pandemia. Ovviamente, detto questo, dovrò fare un tuffo nel passato, ancorandolo al presente. Lo farò molto volentieri, considerato che adoro il mare, nelle cui onde proverò ad immergermi, con l’idea che, con le parole di Emily Dickinson, “la riva è più sicura, ma a me piace combattere con le onde del mare”.  

Per quanto detto, poiché le onde non sono mai prevedibili, in quanto sempre virtualmente pericolose quando il mare declina verso la tempesta, cercherò di muovermi con cautela, vista la materia emozionale con cui mi trovo a interagire, la cui natura, per sé stessa, evoca quel territorio del Sacro “dove gli angeli esitano a metter piede e dove gli stolti si precipitano vociferanti” (Bateson G, Bateson M.C., 1989).  Il mio approccio, sarà estetico, quindi fondato su quella conoscenza per sensibilità che permea tutta l’epistemologia batesoniana. Cosicché aprirò la mia percezione a un dialettico inter-pensare tra quel tempo perduto, che riguarda la mia autobiografia (quindi chi ero prima) e quel dopo del Tempo ritrovato proustiano, quello della formazione sistemico-relazionale. Ne invertirò del tutto le atmosfere mortifere e decadenti, avendo rappresentato, per me, viceversa, l’incipit del tempo della ricerca della “revisione di sé,” come diceva Bateson, mai concluso, perché “l’esistenza è una serie di note a piè di pagina in un ampio, oscuro capolavoro incompiuto” (Nabokov V., 2000). Innanzitutto vorrei riportare alcune note, oggi a distanza di tanto tempo, sulle ragioni della fascinazione che ha esercitato su di me Gregory Bateson, questo grande intellettuale, non trovo un termine più esaustivo per connotarlo, allorquando mi sono accostata, circa trent’anni fa, alla sua Verso un’ecologia della mente. Da vero intellettuale, a mio avviso, praticava la polymathía, termine purtroppo entrato in disuso oggi, anzi obsoleto nella pratica della conoscenza, poiché nella nostra società liquida ne prevale una di tipo tecnocratico, che nulla ha a che vedere con la prima. Ma cos’era la polymathía? Parlo al passato, in quanto mi riferisco a un significante linguistico entrato ormai in una irriducibile obsolescenza, praticato solo da una sparuta élite. Mi riferisco a un termine che dall’antica lingua greca, in italiano, polymathía, composto da "polùs" (= molto) e dal verbo "manthano", significava apprendere, imparare, meglio tradotto liberamente, come multi-scienza, il sapere molte cose. 

A Eraclito si attribuisce la frase “è necessario che i filosofi siano indagatori di molte cose”; Bateson lo era, infatti dai suoi scritti, nessuno escluso, traspare la contaminazione tra le discipline, dalla letteratura alla linguistica, dalla filosofia, alla sociologia, dalla fisica alla biologia, dall’antropologia alla psichiatria, verso un sapere altro, che trovava la sua sintesi dialettica nella koinè dell’approccio sistemico, che caratterizza tutte le relative scuole sorte da questo sapere altro .

Oracolare, immaginifico, ermeneutico, mai banale, Bateson, ateo, anche per tradizione familiare, attraverso una prosa sempre stratificata a più livelli di significato, intrisi di una sorta di religiosa immanenza, chiede implicitamente al suo lettore (anche se sprovveduto, per la complessità̀ e la ricchezza dei temi che tratta) una partecipazione alla sua estetica della relazione che, anche attraverso fraintendimenti, ritengo possa essere comunque altamente creativa. Continuo con una digressione sulla nozione di estetica, al Nostro tanto cara, che ha riguardato e riguarda molto da vicino un mio modo naturale di abitare il mondo, ante litteram. Per questo lo riporto, ripercorrendo alcuni brani, salienti. 

Estetica, dall’antica lingua greca, αἴσϑησις, vuol dire “sensazione”, “percezione,” propriamente approccio alla conoscenza per sensibilità, quindi, attraverso l’attivazione dell’emisfero destro, quello del cuore, purtroppo oggi scarsamente utilizzato nella società liquida in cui siamo stati gettati e verso cui dovremmo operare, parafrasando M. Foucault, un difficile dis-assoggettamento.

Trattasi, quindi, per quanto detto, di un approccio emozionale alla conoscenza, attraverso l’ordine simbolico della comprensione (verstehen) che richiede, in quanto tale, di accostarsi all’oggetto, non per definirlo e tradurlo in uno schema anticipato dalle categorie della causalità, bensì aperto al senso del fenomeno, trascendendone la spiegazione e il significato, nella consapevolezza di oltrepassarli, in quanto limiti stabiliti dalla ragione. In altri termini, stiamo parlando della differenza tra la spiegazione (erklaren) che rinvia all’ordine razionale e la comprensione (verstehen) che allude, viceversa a quello simbolico. Una esperienza indicibile quest’ultima, perché “non è un fenomeno dato attraverso i sensi come riflesso del reale nella conoscenza, ma una connessione vissuta dentro di noi” (Galimberti U., 1999). 

Come definisce Bateson questa “connessione dentro di noi”? Come una “struttura che connette”, una meta-struttura, di tipo trascendentale, con cui impariamo a vedere il mondo, attraverso la conoscenza per sensibilità, quindi per relazioni, strutture, configurazioni, combinazioni di messaggi e di livelli logici, contrapposizioni, climi emotivi, solo apparentemente irrelati, e in realtà interconnessi da quello che possiamo considerare un mitologema, un modello fondativo originario, scandito dalle parole “la relazione viene per prima, precede” (Bateson G., 2008), relazione che interconnette fin dalle sue origini tutto il sistema vivente. 

Ma qual è la relazione che interconnette a livello originario, ontologico, l’intero sistema vivente, costituito da “una danza di parti interagenti” (Bateson G., 2008), anzi, fra loro embricate, in modo che non si può nominare nessuna di esse senza evocare, implicitamente, le altre?

Osserva Bateson “con buona pace dei logici, tutto il comportamento animale tutta l’anatomia ripetitiva e tutta l’evoluzione biologica, sono ciascuno al suo interno, tenuti insieme da sillogismi in erba che connettono gli uomini e l’erba in quanto entrambi mortali e cioè l’erba è mortale, gli uomini sono mortali, gli uomini sono erba” (Bateson G., Bateson M.C., 2008).

Per quanto detto, la “struttura che connette riguarda vari aspetti e livelli della relazione, altro dalla logica finalistica di stampo razionalistico [...] quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi e tutti e sei noi con l’ameba da una parte e lo schizofrenico dall’altra?” (Bateson G., 2008).

Come abbiamo visto, a partire da Bateson in poi, tutta l’epistemologia sistemica si fonda su connessioni di tipo abduttivo tra gli eventi, in ordine all’intero sistema vivente. Connessioni che si strutturano per somiglianze, che propongono somiglianze ulteriori, dove la successione dei pensieri, si struttura all'interno, non di nessi logici di tipo grammaticale, bensì attraverso un pensiero che si apre ad altri pensieri. Come dice Paul Dell, la natura del linguaggio struttura in maniera significativa la nostra visione del mondo. In particolare, la grammatica è in sé stessa metafisica, in quanto indica come gli aspetti della realtà debbano essere correlati, inducendoci a credere, come tutti i linguaggi fondati sulla logica aristotelica, quindi soggetto, predicato, complemento, chi fa l'azione e chi la subisce. Questa grammatica parrebbe rappresentare oggettivamente la struttura del mondo, ma non è così: di fatto “siamo imprigionati nell'assoluta incompatibilità̀, tra i due sistemi primari in cui vive l'essere umano: il sistema vivente, dinamico e circolare, e il sistema simbolico, descrittivo, statico e lineare” (Selvini M., 1989). 

Sempre Paul Dell riporta l'esempio del linguaggio hopi, fondato su una grammatica relazionale, che descrive il mondo in termini di processo, fondato, quindi, su una interpretazione del mondo attraverso il fluire degli eventi che si sviluppano in connessione. Infatti, gli Hopi non hanno una parola per indicare il tempo, ma indicano il processo e cioè la durata che è l'esperienza soggettiva del diventare più tardi. In un certo senso, con le dovute differenze, per analogia, la concezione Hopi viene riproposta con la nozione di tempo vissuto del filosofo francese Henri Bergson (Bergson H., 1907), secondo cui il tempo non viene scandito dall’orologio, ma dalla percezione interiore che ne abbiamo, nel momento che la viviamo.

La teoria dei sistemi è simile al linguaggio Hopi, in quanto ha una concezione della realtà come processo attivo, e non riferito a oggetti simili a cose, come, purtroppo, vuole la nostra grammatica logico-aristotelica, inducendoci ad una costruzione fuorviante della realtà. (Dell P., 1980)

In questa cornice di senso, quindi quella di un percorso mai concluso, e sempre all’insegna della conoscenza per sensibilità e dei suoi splendidi sillogismi in erba, mi sono accostata circa trent’anni fa alla epistemologia sistemico-relazionale e ai suoi “testi”, funzionalmente ad acquisire una formazione al counseling. Ho usato la parola “testo”, le cui ragioni espliciterò meglio in seguito, per le varie stratificazioni semantiche cui questo termine rinvia, tali da consentire connessioni e somiglianze, come vedremo, lungo le argomentazioni con cui si declinerà questo saggio.        




1. Dai testi leggibili ai testi scrivibili: connessioni per una semiosi possibile, dal modo frontale, versus modo autoriflessivo?

Esiste una parola in cui le cose,
pur senza mostrarsi, non si nascondono.
Né velate né svelate:
tale è la loro non verità

Maurice Blanchot 






Nella bella introduzione di Sergio Manghi del saggio Attraverso Bateson, leggiamo: “così come per un fiore, ci sono almeno due modi per accostare l’opera di uno studioso. Uno viene dal pensarla di fronte a noi: essa ci parla di sé e nulla più̀. L’altro di pensarla in relazione a noi: essa ci dice allora qualcosa di più̀: parla anche di noi. Modo frontale e modo autoriflessivo, potremmo chiamarli” (Manghi S., 1998). Modo frontale e modo autoriflessivo, sono due modi assolutamente diversi, direi contrapposti, di accostarsi a diversi testi di lettura. È chiaro che la lettura di un testo è sempre un atto ermeneutico, la cui interpretazione da parte del lettore si declina secondo il suo livello culturale e la sua visione del mondo, con l’idea, sempre presente, parafrasando l’adagio batesoniano, che “fra noi e le cose come sono c’è sempre un filtro creativo”, e che la conoscenza è un processo di costruzione inventiva e non di ricezione passiva. 

La parola” testo,” riportata nell’incipit, con cui ho dato il titolo a questo lavoro, rappresenta una sorta di stichwort, parola simbolo, come vedremo, per le tante interconnessioni, cui essa si riferisce: pensieri che evocano altri pensieri. 

La prenderò a prestito, connettendola per analogia al nostro argomento, alle affascinanti scorribande linguistiche di un intellettuale a me molto caro, Roland Barthes, “un esempio vivente di come ‘incantarci’ ogni giorno di fronte alla vitalità̀ e al mistero della semiosi in atto”. (Eco U., 1986) 

Vediamo di quale semiosi si tratta. 

La nozione di testo, dal latino “textum” “tessuto”, quindi, trama del discorso in senso metaforico, viene enunciata da Roland Barthes, saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese, riferendola al testo letterario, ma anche a qualsiasi oggetto semiotico, virtualmente diretto a particolari scopi comunicativi, come il cinema e il teatro.

Nel nostro caso , parliamo del testo letterario, che Barthes connette a due diversi registri interpretativi: “classico “, i cui significati sono chiusi, solo denotativi, cioè non incoraggiano il lettore ad alcuna riflessione (modo frontale), se non quella di una visione anagogica del senso, cioè la convinzione, per cui interpretare, significherebbe “penetrare un preteso segreto dell’opera, raggiungerne la base, scoprirne [...] il senso profondo o finale, dare al testo un centro e insieme una verità̀, in una parola, dotarlo di un significato ultimo chiuso, al di là del quale non è possibile risalire” (Barthes R., 2002). Questa tipologia di testi lui li definisce leggibili, in quanto il lettore fruitore riveste solo un ruolo di spettatore, in realtà, parlato dalla voce autorale, di fronte alla quale non gli resta che un religioso silenzio. 

All’opposto troviamo il testo “scrivibile” o “plurale”, un testo che apre a una libera semiosi da parte del lettore, cioè non vuole fondare nessuna verità, nessuna legalità del testo, ma solo un lavoro metonimico, che incoraggia la libera interrelazione sia da parte dello scrittore sia da parte del lettore. 

Testualmente in S /Z, saggio pubblicato nel 1970, Barthes parla di una testualità ideale, muovendo dall’analisi di una novella di H. de Balzac, Sarrasine, dove delinea la figura di un lettore sempre meno lettore e sempre più autore produttore: “questo testo è una galassia di significanti; vi si accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale; di questo testo assolutamente plurale, i sistemi di senso possono sì impadronirsi, ma il loro numero non è mai chiuso, misurandosi sull’infinità del linguaggio” (Barthes R., 1970). 

Sempre nello stesso saggio definisce il testo “pensoso”, nel senso di gravido di un “senso 

supplementare”, quindi rinviante sempre ad una inesauribile polisemia, a una potenzialità significante, non del tutto espressa, che mantiene quindi, la “pensosità, quindi il significante “dell’inesprimibile” (Barthes R., 1970). Un invito ad una sorta di liturgia laica.

“Il senso di un testo non è in questa o altra sua interpretazione, ma nell’insieme diagrammatico delle sue letture, nel loro sistema plurale [...] il senso di un testo non può̀ essere altro che la pluralità̀ dei suoi sistemi, la sua “trascrivibilità” infinita (circolare)” (Barthes R., 1970).

Il “testo pensoso” di Roland Barthes, operando una traslazione, un tropo. Non è forse quel processo trasformativo che consente una rilettura del Nostro Testo, cioè, l’apprendimento 2, per trasformarlo da leggibile a scrivibile, secondo la classificazione che ne fa Barthes?

Facendo archeologia, quindi riferendoci al contesto di apprendimento 2 o deutero-apprendimento, che, nella classificazione che ne fa Bateson, si struttura attraverso sequenze di relazioni significative apprese nella prima infanzia, è inconscio, tende sempre ad auto convalidarsi, quindi è inestirpabile- Come renderlo scrivibile? 

Come fare per mettere in disordine un testo iscritto nel sangue, nel cuore, nei muscoli, di ciascuno di noi, dovendo ripensare, scompaginare, mappe tracciate, guardando ad un territorio comunque inattingibile, considerato che “in quanto inconsapevoli ci consentono la comunicazione e la stabilità delle nostre costruzioni del reale e ci tutelano da quel caos dove il pensiero diventa impossibile” (Bateson G., 2008).

Non è un’impresa da poco il dover, attraverso un ulteriore approccio ermeneutico, astrarne significati altri per trasformarlo in scrivibile, allorquando le crepe, le macchie e l’indoratura scrostata lo rendono inattingibile, come quell’identità della giovinezza verso cui è impossibile remigare. Però, nel momento che ci apprestiamo ad agire come professionisti della relazione d’aiuto, non dobbiamo, forse, cercare di uscire da questa impasse? Do la parola ancora a Roland Barthes che suggerisce un approccio autoriflessivo attraverso il testo “scrivibile “o “plurale”, che sancisce la libertà del lettore di fronte al testo consentendogli una semiosi sempre aperta a nuove significazioni, “pensieri che evocano altri pensieri”, così insieme alla libertà del lettore di fronte al testo, contestualmente, si decreta la morte dell’autore (Barthes R., 1988). 

Ma, ci ricorda, anche, Barthes, che …”un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da culture diverse e che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo, parodia o contesta- zione; esiste però un luogo in cui tale molteplicità̀ si riunisce, e tale luogo non è l’autore, come sinora è stato affermato, bensì̀ il lettore: il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione, anche se quest’ultima non può̀ più̀ essere personale. Il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito”. (Barthes R., 1988)

Le scritture molteplici non sono il nostro apprendimento 2, da cui siamo parlati attraverso le generazioni che ci hanno preceduto. L’epigenetica, tra l’altro, non ci immette in una scena ancora più complessa, rendendola, a tratti, ancor più indecifrabile? Basti pensare a quello strumento che si utilizza secondo i casi, nei contesti terapeutici, che è il genogramma; approccio con cui il terapeuta sistemico aiuta i pazienti a ripercorrere la propria storia familiare, attraverso tre generazioni. Si tratta di far ripercorrere al paziente i testi molteplici di cui è composta la sua trama familiare, storicizzatasi nel tempo, affinché, maieuticamente guidato dall’esperto, egli possa giungere a ridefinirne il senso, scoprendo altri sensi, in altri termini, attraverso il suo “testo pensoso”, reso scrivibile.

Fuor di metafora, la domanda è se attraverso l’approccio sistemico il testo leggibile della nostra storia, cioè l’apprendimento 2, può trasformarsi in testo “scrivibile”, e come? Cercando i significati, come ci ha insegnato l’epistemologia sistemica, non quelli diretti a trovare una impraticabile mitica verità, quell’inattingibile noumeno kantiano, che ha rappresentato il tormentone di una certa parte della cultura occidentale. Perché? Perché gli investimenti emotivi riguardo alla memoria sono molto complessi, sfuggenti, e soprattutto mutano secondo i cicli vitali in cui siamo immersi, e sempre alla luce di quella singolarità di cui ciascuno di noi è depositario e in funzione dei contesti di vita di cui fa parte. Che fare se non rivisitare la nozione di tempo, non più attraverso la concezione lineare, quindi dal passato al futuro, in quanto fuorviante, ma in senso circolare e ricorsivo, curvo, che cambia continuamente, come sosteneva Einstein. In questa prospettiva è ineliminabile la presenza di un eterno iato tra storie vissute storie raccontate, insieme alla necessità di un definitivo abbandono della cosiddetta verità, perché “la verità è l’invenzione di un bugiardo” (von Foerster H., 1998). Che significa? Come ci suggerisce Bateson, dobbiamo pensare per storie, attraverso il pattern che connette, che rinvia alla complessità̀, alla visione doppia, alla differenza, ricordando, sempre che la mappa non è il territorio, e che la vita è un processo, come tale non descrivibile dai linguaggi lineari della logica finalistica,

Cosa fare per uscire “dal religioso silenzio”, anzi da un unico significato ´teologico´ (il messaggio di un Dio-autore) imposto dalla mimesi cui rinvia l’apprendimento due o deutero apprendimento? 

Forse dobbiamo fare un salto logico, cioè riscrivere i testi, quindi le storie che ci riguardano parafrasando il pensiero di Barthes in ordine ai testi letterari: “espropriare il testo, aprirlo, costruendone un nuovo sistema di lettura, cioè interpretarlo, operando una poiesis, che dal greco ποίησις, quindi produco, invento creo, in modo da ricrearne il senso, liberamente, aperto, verso altri sensi.

Non dovremmo anche rammentare che l’uomo, essendo potenzialmente depositario di una tale complessità e ricchezza, già intuita dagli antichi e dalle civiltà preletterarie, non potrebbe riportare, attraverso una maieutica, alla luce la sua ποίησις? Mi chiedo se la società globalizzata, quella dei consumi, della tecnocrazia, della negazione delle differenze, della cancel culture, che ha finito per trasformare l’homo sapiens in homo demens, poco recettivo alla poiesis, potrà mai riuscire a operare una metanoia in tal senso? Certo la posta in gioco è quella di saper armonizzare la mimesis strutturata con l’apprendimento 2, con la poiesis, spesso negata, assopita, riducendo l’effetto di inestirpabilità del primo. Impresa, certo, non da poco.

Ma come prepararsi a un percorso che richiede l’attraversamento di un simile terreno carsico? Cercando non le verità, ma i significati con cui incarniamo il nostro modo di abitare il mondo: dalla nostra storia familiare, a sua volta connessa alla trama simbolica del passato di ogni singola famiglia, alla storia più vasta caratterizzata da determinate coordinate culturali, alla storia dei gruppi più ristretti di cui facciamo parte ed infine alla nostra storia personale, idiosincratica che si intreccia con lo zeitgeist del momento storico in cui siamo immersi. (Telfner U., Casadio L., 2003)

Ricordiamoci sempre che non è importante che una storia per essere vera debba essere realmente accaduta. “Le storie davvero importanti, per lo più̀, non riguardano cose realmente accadute: sono vere nel presente, non nel passato”. (Bateson G., Bateson M.C., 1989)

D’altro canto, il pensiero occidentale, durante il secolo scorso, si è posto molti interrogativi su due importanti categorie metafisiche: spazio e tempo. Da Einstein a Bergson, da Husserl a Heidegger, e in letteratura con Proust e la Recherche, la risposta, seppur nelle differenze, è stata sempre quella della sua inattingibilità, mai categorizzabile. Possiamo solo pensarlo, come condizione soggettiva, inclassificabile, questo reo tempo, legato alle nostre intuizioni, immerse in quell’ineludibile panta rei, attraverso cui si declina la nostra vita e la sua “gettatezza… di esseri per la morte”, come diceva Heidegger. Ne La Montagna incantata, uno dei protagonisti di questo splendido romanzo, Hans Castorp si interroga sul significato del tempo: “Che cosa è mai il tempo? Lo spazio lo percepiamo coi i nostri organi, coi sensi della vista e del tatto. Bene. Ma qual è l’organo del tempo? Me lo vuoi indicare? Noi diciamo: il tempo trascorre. Sta bene, lasciamolo trascorrere. Ma per poterlo misurare…. Ecco per essere misurabile dovrebbe trascorrere uniformemente, ma dov’è scritto che lo fa?” (Mann T., 1965). 

Ciò detto, ogni momento ha la sua verità, sempre sfuggente, sempre congetturale; per certi versi inattingibile. L’importante è investirla di significati per noi esteticamente compatibili con il nostro sentire di quel momento, inerente al tempo vissuto di Bergson. 

Per rimanere in argomento, come non evocare lo splendido saggio I tempi del tempo? Qui, i due autori ripercorrendo le diverse stratificazioni di significato di cui era stata investita la nozione di tempo dall’antica Grecia, la riportano nei contesti di cura per l’importanza assunta rispetto al diverso atteggiarsi temporale che caratterizza la vita di ogni singolo paziente e secondo i cicli evolutivi in cui si trova coinvolto (Boscolo L., Bertrando P., 1993). 

Alla fine, per quanto su esposto, dobbiamo, forse, rassegnarci al fatto che “tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall’esterno, a fatica, come se fosse quella d’un altro. Dovrei andare in cerca di lettere, di ricordi d’altre persone, per fermare le mie vaghe memorie. Sono sempre mura crollate, zone d’ombra”. (Yourcenar M., 2018)

Noi, però, su quelle zone d’ombra, liberate dalla fascinazione cui rinvia quel cupio dissolvi di cui le ha investite la Yourcenar, cercheremo di riportare la luce cercando una via negoziale per attraversare il caos. Certamente attraverso un lavoro su noi stessi, per fare chiarezza, se non altro, per rendere più̀ flessibili, le nostre premesse epistemologiche, o perlomeno per giungere “a una liberazione della loro tirannia” (Bateson G., 1972), che è ben diverso dall’essere o diventare flessibili.

Con questo viatico inizierò la terza parte di questo saggio, in cui parlerò del significato che ha rivestito per me il contesto della formazione sistemico-relazionale, ma anche le motivazioni che mi hanno portato a essa, su cui, forse, per la prima volta, oggi faccio luce. La mia ricerca sarà sempre sui testi, sulle trame che hanno rappresentato la mia “storia sistemica”, che ha contribuito a interiorizzare la mia epistemologia con la e minuscola. Mi riferisco, quindi, all’intreccio circolare e ricorsivo che ha compreso e comprende una pluralità di testi, alla ricerca di un’alchimia atta a trasformare il mio testo leggibile, cioè l’apprendimento 2, per quanto “inestirpabile”, in testo in qualche modo scrivibile. Mi riferisco a testi nel senso di opere di studio in senso didattico, ma anche testi di lettura da me preferiti, testi interiori, testi mutuati dal setting formativo nella sua interezza, rappresentato dai didatti. Tutti testi ricorsivamente interconnessi, che hanno gettato quel filo di Arianna affinché li internalizzassi e riuscissi autonomamente, come Teseo, ad attraversare il labirinto, con i suoi testi da decodificare, per trovare la via d’uscita, uccidendo, o meglio rendendo inoffensivo, il mio Minotauro interiore (apprendimento 2). Dedicherò meno spazio discorsivo a questa parte, perché ho già rappresentato, seppure parzialmente, cosa ha significato per me l’incontro con l’epistemologia sistemica.


2. La Formazione Sistemica: una poiesis per una danza nell’emozionale

Tutti riceviamo un dono
Poi, non ricordiamo più
né da chi né che sia.
Soltanto, ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.

Giorgio Caproni - Res amissa


La richiesta formativa per accedere a professioni che abbiano come mission istituzionale la richiesta di cura è, per sua natura, non neutrale, in quanto veicola, sempre, implicitamente, una richiesta di cura. Perché? Perché essa evoca l’archetipo del guaritore ferito, e quindi il mito di Chirone, nel suo alludere al fatto che, per potersi prendere cura della ferita altrui, è necessario prima curare sé stessi, da un’antica, forse irrisolta sofferenza, a causa di un vulnus ancora presente. 

In questa prospettiva il lavoro formativo, certamente, parafrasando Duccio Demetrio, ridimensiona l’Io dominante e lo degrada a un io necessario, che possiamo chiamare io tessitore, che collega e intreccia; che, ricostruendo, costruisce e cerca quell’unica cosa che vale la pena di cercare per il gusto di cercare, costituita dal senso della nostra vita e della vita. (Demetrio D., 1996)

È proprio vero che "c’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita” (Hart J., 2004). La richiesta formativa credo aiuti ad attraversare questa geografia dell’anima, con l’aiuto del filo d’Arianna; in questo caso, 

Arianna non può che essere rappresentata dal didatta, guida maieutica per l’attraversamento di quello che certamente si attaglia come metafora, cioè il labirinto. Una maieutica, nel nostro caso, deputata ad aiutare l’allievo a trasformare i “testi leggibili” dell’apprendimento 2, in testi scrivibili, per liberarli dalla tirannia dei primi, riclassificandone il senso secondo la nozione di Barthes, già esplicitata nel precedente capitolo. Un attraversamento per trovare non solo la via d’uscita, ma anche per rendere inoffensivo il Minotauro. 

Non è questa un’impresa da poco, in quanto uno sguardo più attento non ci racconta forse che la metafora del labirinto rappresenta fenomenologicamente la complessa declinazione del nostro vivere e abitare il mondo, soprattutto in momenti che richiedono, una revisione di sé, per liberarci dalla tirannia dell’apprendimento 2, non certo per cancellarlo, considerato che è “inestirpabile”. D’altro canto, “tutto è labirintico, a partire dal corpo umano, con le circonlocuzioni del cervello e le anse intestinali, col groviglio delle vene e delle arterie e la rete del sistema nervoso, fino ai meandri della mente che si perde nei sogni e nei pensieri, per cui nell'uomo tutto è un intreccio di fili e di nodi” a cui trovare, ritengo, senza scompaginarne l’assetto, significanti altri per significati altri (Conty P., 2003). 

Nel mio caso, sicuramente la formazione al Counseling sistemico relazionale, declinatasi in un setting connotato e strutturato come tale, mi ha aiutato ad attraversare il “mio” labirinto, verosimilmente per due ordini di ragioni interconnesse, di cui la prima è stata la conduzione di didatti di prim’ordine, tutti di grande levatura culturale, come Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, veri intellettuali, per il loro saper danzare tra le discipline, senza trasformarsi in tuttologi. Ricordo la loro diversità, per certi aspetti, complementare: cenestesico, viscerale Luigi Boscolo; controllante, più nordico, Gianfranco Cecchin, ma entrambi accomunati da un pensiero che spaziava, nei vari settori della conoscenza, sempre interconnessi da una intertestualità avvincente e nella cornice di una grande eleganza argomentativa. Una interconnessione da cui traspariva la contaminazione tra le discipline, che era stata la caratteristica fondante l’epistemologia di Bateson, di cui ho precedentemente detto. La seconda, ma ricorsivamente connessa alla prima, la cui iniziazione che poi mi ha condotto sulla via di Damasco dell’incontro con l’epistemologia sistemica, attraversando “il mio paesaggio interiore”, ritengo sia avvenuta in nuce, durante gli anni di frequentazione del liceo Mario Cutelli a Catania, città dove abito da sempre, in cui ho scoperto che i miei interessi culturali erano strettamente legati alle discipline umanistiche. Questa passione si è meglio strutturata con la frequentazione per qualche anno del DAMS di Bologna, indirizzo spettacolo, poi, purtroppo, interrotta per la distanza logistica dalla mia residenza. Quanto detto lo riferisco all’incontro con la filosofia, in particolare con la polimatia, di cui ho già detto precedentemente, che, come diceva Eraclito, non insegna l’intelligenza, ma guida ad indagare su molte cose, quindi all’approccio alla complessità. La polimatia, la cosiddetta multi-scienza, che allude alla figura del polimath, dall’ antica lingua greca, “che ha imparato molte cose”, ritengo, si attagli ai veri intellettuali, fauna oggi quasi scomparsa, confusa con la definizione assolutamente inappropriata di “intellettuali”, inopinatamente attribuita ai laureati, spesso, solo, competenti rispetto ai saperi della disciplina di appartenenza.

La polimatia la praticava Socrate, la troviamo nei dialoghi sofistici di Platone, dove viene condannata l’antilogia e l’eristica, figure retoriche, in cui la prima, con artifici linguistici, sostiene due tesi che si escludono a vicenda. Oggi la chiameremmo doppio legame. La seconda è un’arte della disputa, che mira attraverso battaglie verbali, non fondate sulla ricerca della verità, ad averla vinta sull’ipotetico avversario. Credo che proprio l’eristica abbia fatto il suo trionfale ritorno nel nostro mondo distopico. La polimatia veniva praticata anche da molti sofisti, spesso esperti in storia, matematica, astronomia, retorica, mitologia, e anche in temi di politica. Nel Settecento, abbiamo assistito a un vero trionfo della polimatia, con la nascita della Enciclopedie (Enciclopedia) edita da Diderot e D’Alembert, anche se i redattori furono molti di più, 

Diderot, che ne fu l’ideatore, era un intellettuale geniale e bizzarro: spaziava disinvoltamente tra vari saperi, fu autore di saggi filosofici e opere teatrali, romanzi, articoli e saggi su disparati argomenti, occupandosi di arte, storia, politica e società. Non a caso, diceva “i miei pensieri, sono le mie puttane” (Diderot D., 2013).

Purtroppo, la polimatia è stata assimilata inopinatamente alla tuttologia, tanto che la Treccani la definisce “erudizione tra pedantesca e oziosa”, e addirittura “presunta onniscienza dei tuttologi, saccenteria.” Giudizio severo, che ignora la complessità che richiede il vero Sapere. Importante è la misura, il rovello dell’amletico dubbio. Connettere testi mutuati da discipline diverse, a mio avviso dà luogo ad un arricchimento che muovendo dall’intertestualità approda alla transtestualità, verso una koinè linguistica, come tale, più ricca e complessa; qualcosa di diverso, che rinvia a una sorta di trasmutazione alchemica mutuata dai vari saperi. Nel caso dell’insegnamento apre a quella danza nell’emozionale, come la definiva, un altro grande intellettuale, un vero polimath, cioè, Humberto Maturana, biologo, sociologo, filosofo e psicologo cileno che significativamente diceva a proposito di insegnamento: “io penso che perché l'insegnamento abbia un'efficacia o perché̀ una conferenza risulti interessante quello che deve succedere è una danza nell'emozionale nella quale il professore, la professoressa e gli studenti, o l'oratore e il pubblico devono entrare in un co-emozionale che definisce un dominio nel quale quello che si dice ha un senso, ha un senso lì̀ in quel momento. C'è un'espressione per definire tutto questo: il professore, la professoressa, gli studenti, l'oratore e il pubblico devono stare in trance” (Maturana H., 1997). Concludo con queste parole di Maturana, un altro grande dell’approccio alla complessità, vero polimath, perché proprio la “danza nell’emozionale” credo abbia scandito il tempo vissuto della mia formazione al counseling sistemico-relazionale. 

Purtroppo, aggiungo che uno sguardo complesso derivante, proprio da detta formazione, mi fa vedere con estrema chiarezza la deriva distopica verso cui declina il mondo, che abito, oggi. Perché? Perché mi sembra che incarni le atmosfere mortifere e traslucide rappresentate da G. Orwell nel suo 1984. Che dire, se non come Dostoevskij: “vi giuro, signori, ogni coscienza è una malattia, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia”. Una coscienza, che mi proietta sempre più in quel “disincantamento del mondo” (Dostoevskij F., 2014) di cui parlava oltre cento anni fa, il sociologo ed economista tedesco Max Weber. Non vedo luce in fondo al tunnel, nel contesto del mio tempo vissuto, cioè oggi, ma la mia epistemologia sistemica con la e minuscola mi suggerisce che nei momenti peggiori di incremento del disordine, del caos, di entropia, spesso si possono intravedere, già in nuce, i germi del cambiamento. Si tratta solo di attendere!



Bibliografia