Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

Centralità della relazione in psicoterapia


di Marco Bianciardi

Psicologo clinico a indirizzo sistemico
Socio Ordinario AIEMS, Roma
bianciardi.marco@gmail.com


Foto di 19661338 da Pixabay 

Sommario

L’autore propone alcune riflessioni sul proprio percorso di ricerca e crescita personale come clinico ad indirizzo sistemico; sottolinea come questo percorso lo abbia condotto ad una sempre maggior consapevolezza della centralità della relazione; discute come tale consapevolezza abbia modificato nel tempo il proprio porsi e proporsi nella relazione con l’altro.



Parole Chiave

Centralità della Relazione. Contesto. Curiosità. Rispetto. Responsabilità.



Summary

The author proposes some reflections about his research route and his personal growth as a clinician on systemic trend; he points out that this route has led him to an always greater awareness of the importance of the relationship; he talks how this awareness has modified during the time his own placement and proposal in the relationship with the others.



Keywords

Central importance of the Relationship. Environment. Curiosity. Respect. Responsability.




Sistemica vs Scienza


Heinz von Foerster – con l’arguzia e l’irriverenza che erano la cifra del suo pensiero e del suo straordinario acume – ha osservato che parlare di ‘scienza sistemica’ significa cadere in una contraddizione in termini.  Le radici etimologiche dei due termini, infatti, rimandano l’una al separare, dividere, scindere (sci), l’altra al porre e considerare insieme, o con (sun). Se si resta fedeli all’etimologia dei termini, quindi, l’approccio ‘scientifico’ studia ed osserva coerentemente ad una logica e ad una metodologia che separa e divide; l’approccio ‘sistemico’, al contrario, privilegia l’unire, il porre in relazione, e si propone di studiare e modellizzare le caratteristiche della relazione piuttosto che dei termini tra loro in relazione (von Foerster H., 2003). ‘Scienza sistemica’ è quindi un ossimoro: è più corretto parlare di approccio scientifico e/vs approccio sistemico. Non si tratta, ovviamente, di contrapporre i due approcci, o di voler asserire la superiorità dell’uno rispetto all’altro; entrambi, infatti, possono rivelarsi, e di fatto si sono rivelati, utili e fecondi, se pure in ambiti di ricerca differenti e rispondendo a differenti finalità. Si tratta piuttosto di essere consapevoli della differenza al fine di mantenersi coerenti alla cornice epistemologica entro cui si dichiara di collocare la propria ricerca e la propria pratica.

Da quando le prime letture di teoria sistemica mi appassionarono, regalandomi una inattesa sensazione di libertà di pensiero, e un’apertura a prospettive più ampie rispetto a tutti gli approcci di psicologia classica e di teoria e clinica psicodinamica, è sempre stata costante in me la ricerca di mantenere una coerenza il più possibile rigorosa alla logica e all’epistemologia sistemica, nel senso appena ricordato. Ciò mi portò a scoprire, ben presto e in molteplici occasioni, quanto tale coerenza si riveli difficile, e quanto facilmente accada di ‘dimenticare’, per così dire, la centralità della relazione per ricadere, sovente senza alcuna consapevolezza, nel restituire centralità agli elementi tra loro in relazione. 

Come sappiamo questa difficoltà non si dà solo, e forse non essenzialmente, rispetto alla relazione tra i cosiddetti ‘oggetti di osservazione’ presenti nella realtà che consideriamo ‘esterna’ a noi (le interazioni presenti tra gli elementi che com-pongono un con-testo: in clinica, ad esempio, le relazioni interne ad una famiglia in consultazione, o la relazione di coppia), bensì riguarda anche, ad un livello sovraordinato e sempre presente, la relazione osservatore/osservato. Quest’ultima pare andare incontro ad un destino paradossale: pur ponendosi come necessaria, ovvero costitutiva dell’atto stesso del conoscere, si rivela come la più difficile da ri-conoscere e la più frequentemente de-negata e mis-conosciuta. 

La costante ricerca di coerenza alla ‘sistemica’ mi ha portato, nel corso degli anni, a esercitare una pratica attenta innanzi tutto alla relazione che viene definendosi in modo reciproco durante l’incontro con chi mi consulta: centralità della relazione in cui mi impegno, e che mi impegna, senza che io possa in alcun modo considerarmene esterno.




Siamo già in relazione


Vorrei innanzi tutto sottolineare un aspetto di cui assai raramente siamo consapevoli: quando incontriamo un ‘altro’, a rigore siamo già in relazione con lui.

Se assumiamo in modo coerente che in principio è la relazione, non possiamo dimenticare che ciascun singolo elemento della biosfera – dal batterio alla quercia, dall’uomo agli animali marini che abitano le profondità inesplorate degli oceani – è in relazione con tutti gli altri e con la trama tutta dell’evoluzione della vita nel suo insieme e nel suo complesso. Ogni singolo organismo vivente nasce entro un contesto di vita e in continuità con una storia evolutiva con cui resta comunque in relazione – pur nel suo differenziarsi nel corso della propria ontogenesi.  Non ha importanza quanto distanti, nello spazio e nel tempo, siano le singole tessere della vita: esse sono comunque tutte sempre interrelate, se pure in modo certamente non de-scrivibile, dis-piegabile, com-prensibile.

Si potrebbe notare che la locuzione stessa ‘entrare in relazione’ tradisce la cecità epistemica sottesa alla nostra esperienza soggettiva. Nessuno entra per la prima volta in relazione, mai; e ciò per il semplice motivo che siamo già in relazione, e da sempre. Non si tratta di una affermazione metaforica, bensì da prendersi alla lettera: è sufficiente allargare un po’ il campo di osservazione, nello spazio e nel tempo, per rendersi conto che siamo effettivamente già in relazione con tutti gli innumerevoli elementi del vivente. Lo siamo, evidentemente, attraverso una rete fittissima, l’intreccio di miriadi di fili che si rincorrono, si sovrappongono, si intessono, senza che sia possibile seguirne i percorsi e le trame. Ma, pur non potendo cogliere o capire, ricostruire o dipanare, l’intreccio infinito della trama della vita, dobbiamo comunque sapere e riconoscere che – lungi dall’entrare in relazione – siamo, sempre e comunque, già in relazione. La pandemia ce lo ha ricordato in modo drammatico ma molto efficace.

Come tradurre questa consapevolezza nell’incontro inaugurale di un percorso definito come ‘psicoterapeutico’?  Ho imparato ad accostarmi a chi mi si rivolge con la curiosità di scoprire e ri-conoscere tutti quegli aspetti che evidenziano il nostro essere già in relazione. Se è vero che siamo già in relazione con tutte le tessere della trama della vita, lo siamo ovviamente in modo ancor più prossimo con le donne e gli uomini che abitano il nostro tempo: poggiamo i piedi sulla medesima ‘terra ferma’ della madre terra che abitiamo, respiriamo il medesimo ossigeno che ci tiene letteralmente in vita, apparteniamo alla stessa specie, abbiamo il medesimo corredo genetico, condividiamo le medesime conoscenze, segrete a noi stessi, che detteranno le risposte istintuali e i messaggi impliciti e preverbali che, incontrandoci, ci scambieremo im-mediatamente (in modo non consapevole e senza mediazione della parola); e, infine, condividiamo la lingua con cui ci parleremo, il che è ancor più importante ove si tratti della medesima lingua madre, le cui strutture lessicali presiedono al nostro dar forma all’esperienza del mondo, e dell’altro, ben al di là di quanto possiamo saperne.

Se siamo consapevoli di condividere tutto ciò, l’incontro diviene simile a quando si incontra per la prima volta de visu una persona di cui si è già sentito parlare, con cui si condividono comuni conoscenze, di cui si conoscono forse alcune storie, racconti un po’ romanzati, una foto sbiadita… lo si incontra in presenza per la prima volta, sì, ma in un altro senso lo si reincontra conoscendolo già. Ecco: l’atteggiamento di rispettosa curiosità che Gianfranco Cecchin ci ha invitato ad assumere dovrebbe essere sempre animato anche da questa consapevolezza (Cecchin G., 1988). 

Questo atteggiamento è importante perché fino a che siamo vittime dell’illusione di entrare in relazione a partire da una separatezza, l’altro che incontriamo sarà innanzi tutto un estraneo: se ci immaginiamo separati, ci immaginiamo estranei l’uno all’altro. Ed è probabile che tenderemo istintivamente a collocare l’estraneo in una categoria già conosciuta (una categoria diagnostica, ad esempio, ma anche, più in generale, una visione pregiudiziale): l’altro, in quanto ‘estraneo’ viene ridotto ad ‘oggetto’ al fine di poterlo inquadrare entro una categoria rassicurante perché già definita. E ciò a mio parere comporta una perdita di curiosità per ciò che lo rende unico.

Se invece accetto realmente la prospettiva secondo cui io sono profondamente, e misteriosamente, parte e partecipe delle relazioni che intrecciano un comune contesto, allora l’altro è, letteralmente, un fratello. Ripeto: non si tratta di una affermazione metaforica; intendo dire che l’altro è, alla lettera, mio fratello. Credo sia sufficiente un punto di vista un po’ più ampio rispetto ai pochi anni che ci è dato vivere per verificare che gli alberi genealogici di tutti noi si incontrano. Siamo letteralmente fratelli di tutti gli esseri viventi, perché siamo nati differenziandoci dalla storia del vivente, che è matrice unica, comune a tutti. E se davvero ‘so’ che l’altro con cui entro in relazione lo re-incontro dopo che ci siamo reciprocamente differenziati da una comune matrice, allora, lungi dal doverlo collocare entro una categoria a me già nota, potrò essere curioso della sua soggettività, cioè della sua irriducibile autonomia soggettiva, del suo punto di vista assolutamente peculiare, irripetibile, unico. In definitiva: saper ri-conoscere tutto ciò secondo cui siamo già in relazione, per poter scoprire ciò che invece ci rende unici. 




Conosciamo sempre e solo la relazione a cui partecipiamo


Una seconda consapevolezza è relativa al fatto che i processi di conoscenza si danno solo all’interno di una relazione: non conosciamo mai nulla, tanto meno l’altro, al di fuori dalla relazione con noi. 

L’altro non è conoscibile se non in relazione. Un autentico incontro tra persone quale è e deve essere un incontro di psicoterapia, non permette alcuna ‘oggettivazione’ dell’altro: conosco l’altro mentre si relaziona con me, mentre mi ascolta o mi risponde. Non possiamo quindi conoscere dall’esterno la persona o la coppia o la famiglia, bensì iniziamo una danza reciproca e retroattiva, in costante evoluzione, ove ogni possibile fermo-immagine sarebbe illusorio e ingannevole. Ciò che possiamo conoscere, in definitiva, è sempre e solo la relazione tra noi e l’altro, tra noi e la relazione di coppia, tra noi e le relazioni presenti in un nucleo familiare.

Si tratta di una consapevolezza che può dare le vertigini: se ciò che posso conoscere non è l’altro, bensì la relazione con l’altro, evidentemente sto partecipando a definire le caratteristiche di ciò che sto conoscendo. Ciò che sto osservando e conoscendo non è una stoffa che fu tessuta in precedenza e da altri, bensì è un tessuto che sto intessendo in questo momento con l’altro. Il senso di vertigine nasce nel momento in cui prendo pienamente coscienza del fatto che non sto semplicemente ‘influenzando’ l’oggetto di osservazione – nè mi limito a osservare secondo punti di vista, metodologie, presupposti inevitabilmente limitati e parziali, come sempre avviene: non si tratta semplicemente di questo, perché le caratteristiche di ciò che sto conoscendo le sto co-definendo io stesso. 

Questa consapevolezza è davvero molto molto difficile da mantenere: credo che tutti noi – io per primo, ben inteso – nel concreto della relazione in corso tendiamo quasi inevitabilmente a dimenticarcene. Ma si tratta della consapevolezza più importante, perché implica il sapersi co-responsabili di ciò che stiamo conoscendo. La relazione tra 

me e l’altro, lungi dall’essere un ‘dato’ osservabile, è un reciproco coordinarsi che sta emergendo nel qui ed ora, al cui definirsi e alle cui regole implicite sto partecipando attivamente; è una trama che si dipana nel presente e av-viene proprio ora emergendo dalla danza dell’incontro, del confronto, dello scontro – del coordinarsi e del contrapporsi – tra le mie premesse, le mie visioni del mondo, le mie intenzioni, le mie idee, e quelle dell’altro: tra come io mi pro-pongo nella relazione e come l’altro si pro-pone in risposta a me, ed io in risposta alla sua risposta, ad infinitum. 

Ciò dà le vertigini, perché è inevitabile chiedersi: sto conoscendo, oppure sto partecipando a definire la relazione?  L’uno e l’altro: nel partecipare all’incontro sono inevitabilmente catturato in un processo evolutivo le cui caratteristiche emergenti sono imprevedibili e da cui non posso in alcun modo uscire.

Per questo motivo l’idea che sia possibile descrivere l’altro e la sua irriducibile esperienza in base a una certa categoria diagnostica, oltre che illusoria, riduttiva, mistificatoria, dev’essere riconosciuta come una sorta di delirio. Perché ritenere di poter fare affermazioni definitorie sull’altro e dell’altro, omettendo di considerare sè medesimi e la relazione che coinvolge entrambi, significa davvero de-lirare – ovvero ‘uscire di senno’, o, alla lettera, ‘uscire dal solco’ di una evidenza incontestabile: possiamo conoscere solo in relazione, e nel farlo partecipiamo a definire le caratteristiche della relazione medesima. 

Ho incontrato negli anni molte persone che avevano ricevuto diagnosi ‘scientifiche’ rispettate, e considerate ‘veritiere’ dalla persona stessa: ad un differente sguardo, entro una relazione più consapevole e rispettosa, quella rigida diagnosi iniziava a perdere importanza, a scivolare sullo sfondo – rivelando a posteriori quanto e fino a che punto non fosse ‘oggettiva’, bensì rispondesse innanzi tutto alle premesse, allo sguardo ‘scientifico’ che scinde e decontestualizza, del supponente ‘esperto’. Chi diagnostica illudendosi, con ciò, di descrivere l’altro, sta in realtà descrivendo sè medesimo e le caratteristiche della relazione che egli instaura – sta dicendo, senza presumibilmente averne consapevolezza: “Io mi pongo in relazione obbedendo a premesse che scindono la persona dal suo contesto, scindono il problema o il ‘sintomo’ dai contesti in cui emergono, scindono l’altro da me e me dall’altro entro la relazione in cui ci incontriamo”.

Accettare con coerenza una posizione ‘sistemica’, e quindi la priorità della relazione, non è affatto facile: comporta una assunzione di responsabilità cui non possiamo sottrarci con leggerezza. Significa riconoscersi co-responsabili delle caratteristiche del contesto di relazione anche e soprattutto quando, ad esempio, la difficoltà dell’altro non evolve, o (come a volte accade) l’altro lamenta di stare peggio, di soffrire maggiormente. Significa sapersi orfani dei comodi concetti di ‘resistenza’ o ‘reazione terapeutica negativa’ o ‘famiglia insubordinata’. Ma significa anche vedersi aprire una possibilità liberante: potersi e sapersi interrogare, ove il processo non evolva, a livello del contesto di relazione. Su questo punto tornerò prima di concludere queste mie riflessioni.




Influenza ‘diretta’ vs partecipazione alla relazione


Un momento molto importante nella mia ricerca di coerenza alla consapevolezza della centralità della relazione, sono state le riflessioni sui processi di cambiamento e sui concetti di ‘direttività’ e ‘non direttività’ nel corso dell’incontro psicoterapeutico, e, più in generale, all’interno delle relazioni intersoggettive (Bianciardi M., 2014). 

Possiamo ‘influenzare’ l’altro, attraverso metodi e strategie che gli permettano di superare la difficoltà che ci porta?  Possiamo indurre un cambiamento nelle regole implicite che governano le dinamiche di un nucleo familiare? 

A rigore la risposta non può che essere ‘no’. Non possiamo esercitare alcuna influenza ‘diretta’ sull’altro – e ciò per il semplice motivo che costui è un soggetto caratterizzato da una propria autonomia esperienziale, computazionale e operazionale, autonomia che dobbiamo riconoscere come irriducibile. Il mio comportamento non può mai essere considerato causa diretta della risposta dell’altro: la risposta dell’altro potrà sempre sorprendermi.

D’altra parte, il come mi pongo e mi propongo nell’entrare in relazione ha certamente effetti sulla relazione medesima. Come ho sottolineato, nell’impegnarci in una relazione siamo parte attiva nel definirne le caratteristiche: ne siamo co-autori, co-creatori, co-responsabili. Non ci limitiamo quindi a influenzare la relazione – come se quest’ultima esistesse prima del nostro parteciparvi: piuttosto ne siamo gli artefici, se pure non possiamo esserlo in solitudine.

Non possiamo quindi influenzare direttamente l’altro, ma nello stesso tempo non possiamo non partecipare al definirsi delle caratteristiche del contesto di relazione a cui l’altro risponderà in modo autonomo. Se volessimo mantenere la metafora del ‘potere’, potremmo affermare che non possiamo esercitare alcun ‘potere’ diretto sull’altro, ma nello stesso tempo esercitiamo sempre e comunque un ‘potere’ sulle caratteristiche del contesto di relazione che inquadra il porsi e pro-porsi di entrambi.

Si tratta quindi, ancora una volta, di assumere con coerenza la centralità della relazione. La logica ‘scientifica’ si occupa di piccoli archi di circuito: scinde un aspetto, un comportamento, un vissuto, al fine di modificarlo, nella convinzione di poter esercitare una influenza diretta su quel singolo aspetto. Una logica coerentemente ‘sistemica’ è invece attenta alla relazione: pone una costante attenzione a come il contesto di relazione sta definendosi nella danza reciproca a cui il terapeuta partecipa. 

Quando, ad esempio, una coppia genitoriale consulta un esperto perché è in difficoltà con un figlio, gli ‘esperti’ che focalizzano l’attenzione sul comportamento ‘problematico’ e danno suggerimenti ai genitori su come comportarsi propongono un contesto di relazione che conferma implicitamente l’incompetenza dei genitori – presumibilmente senza averne alcuna consapevolezza. Mantenersi coerenti ad una logica sistemica significa invece impegnarsi al fine di ridefinire la relazione con i genitori affinchè questi possano sentirsi, finalmente, e nonostante tutto, competenti.

A questo proposito è necessario divenire ben consapevoli di un aspetto che caratterizza tutti gli incontri ‘psicoterapeutici’: terapeuta e paziente condividono implicitamente un contesto culturale che dà per scontato un approccio lineare, individuale, medicalizzato – secondo cui, ad esempio, l’individuo è ‘depresso’ per qualche motivo interno, piuttosto che sentirsi ‘triste’ coerentemente alle caratteristiche delle relazioni che sta vivendo. I termini stessi che usiamo (in primis ‘terapia’) lo testimoniano e lo confermano. Si tratta di uno degli aspetti che evidenziano il fatto che (come sottolineavo all’inizio) siamo già in relazione: lo siamo, anche, nel condividere, di solito senza alcuna consapevolezza, i presupposti impliciti e le visioni del mondo che sono propri della società e del tempo in cui viviamo.

Queste premesse condivise (‘scientifiche’, individualistiche, medicalizzanti) possono rivelarsi iatrogene. Non possiamo dimenticarlo. Dovremmo parlare di ‘incontro’ piuttosto che di ‘terapia’, di ‘persona’ e non di ‘paziente’. Come ben sappiamo, però, modificare i termini che usiamo non è utile di per sé. Dobbiamo piuttosto essere ben consapevoli del contesto di relazione a cui essi rimandano, al fine di impegnarci a proporre un contesto di relazione che abbia ben altre caratteristiche.

Mantenersi coerenti ad un approccio ‘sistemico’ significa interrogarsi costantemente sulla relazione, sulle sue caratteristiche in fieri, su come viene definendosi nell’incontro. Significa, in altri termini, curare amorevolmente la relazione, prendersi cura della relazione di cura: “So di non avere il potere di cambiare l’altro, ma so di essere co-responsabile di come la relazione si definisce ed evolve”. La relazione si pone ad un livello preordinato rispetto ai singoli messaggi, interventi, ridefinizioni o interpretazioni: li inquadra e dà loro significato. E, consapevoli di non poter influenzare direttamente l’altro, sappiamo anche di non poter non partecipare a definire le caratteristiche della relazione. 

È possibile aggiungere che questo atteggiamento personale prima che professionale si traduce in una costante ricerca di crescita e di consapevolezza soggettive. Sapendo di non poter cambiare l’altro, l’intento diviene quello di cambiare se stessi – non nel senso di acquisire più competenze, più tecniche, più capacità, bensì nella ricerca di quella ‘saggezza sistemica’ che consiste nel sapersi parte di un tutto che ci comprende, e, più in specifico, parte della relazione cui partecipiamo, fiduciosi nel fatto che la relazione stessa ci suggerirà dove scorgere i segni di evoluzione che sono già lì, in germe o in potenza. Rimando a questo proposito alle approfondite riflessioni di Giovanni Madonna sul concetto di ‘finalità introversa’, proposto da G. Bateson e ripreso da Madonna in modo allo stesso tempo cauto e fecondo (Madonna G., 2003).




Una curiosità inesauribile


Come si traduce quindi questo impegnarsi nella relazione, consapevoli di esserne co-autori e co-responsabili? Innanzi tutto vorrei sottolineare l’importanza di mantenere un atteggiamento di autentico interesse ‘antropologico’. 

Intendo con ciò un atteggiamento che non è interessato al giudizio e tanto meno al cambiamento, bensì a capire, a trovare nessi, a contestualizzare. Primo obiettivo sarà l’ascolto umile e attento della difficoltà che l’altro mi propone, con lo scopo di iniziare a porla in relazione ad altri aspetti della sua esperienza – si tratta, alla lettera, di com-prendere: di ‘prendere’, o considerare, insieme.  Naturalmente questo atteggiamento si traduce nell’ampliare il campo di osservazione, investigando sul contesto di vita, sulla storia che attraversa le generazioni, sull’ecologia delle idee, dei miti, delle convinzioni all’interno della quale il problema si presenta.

Non essere curiosi significa condannarsi all’ignoranza. Perché di fronte alla complessità, e al mistero, dell’esperienza umana, siamo tutti terribilmente ignoranti. Il primo passo quindi è il riconoscere la propria ignoranza ed esserne stimolati ad esercitare una curiosità inesauribile. L’approccio ‘scientifico’, che isola e divide, si interessa principalmente ai sintomi con l’obiettivo di inquadrarli all’interno di un quadro psicopatologico già noto, perdendo così la curiosità che anima l’interesse autentico alle storie appassionanti che incontriamo; è per questo che un approccio ‘scientifico’ alla complessità delle vicende umane comporta inevitabilmente l’ignoranza di elementi di conoscenza importantissimi per la comprensione di una vicenda soggettiva: il fatto ad esempio che uno zio si sia suicidato tragicamente, che uno dei nonni fosse un trovatello, che la madre abbia perso un figlio prima che nascesse colui che ci sta consultando, ecc.  

L’attenzione alle relazioni e ai contesti di relazione induce a porre moltissime domande, a mantenere alta la curiosità, a non ‘mollare la presa’ fino a che non sia possibile iniziare a ipotizzare nessi e relazioni. Tutto il contrario dello ‘scindere’, del porsi in modo ‘scientifico’: piuttosto che isolare un aspetto, un tratto, un comportamento, un sintomo, con l’intento di modificarlo, la curiosità ‘sistemica’ porta ad interessarsi anche agli amici di infanzia, a farsi raccontare di quell’insegnate che ebbe una buona immagine di chi sta affermando di avere una pessima immagine di sé, a chiedere di quella vicina che fu come una ‘zia’ comprensiva negli anni più bui dell’infanzia.

Per chi segue un indirizzo sistemico il porre domande e il mantenere alta la curiosità rappresentano linee guida considerate quasi ovvie, scontate. Sarebbe invece utile non darle per scontate, in modo da accorgersi di quanto, inconsapevolmente, restiamo poco curiosi, quanto si tratti di un atteggiamento da coltivare con pazienza, quanto si riproponga facilmente l’inconsapevole tendenza a ridurre, scotomizzare, illudersi troppo presto di ‘aver capito’.

So che, come terapeuta, posso e devo rispondere a un unico impegno: riuscire a portare uno sguardo ‘altro’ sul nostro incontro, e quindi sull’altro all’interno dell’incontro con me. La curiosità inesauribile di uno sguardo che cerca nessi e privilegia la relazione è il primo aspetto di questo impegno: sto proponendo una relazione ove lo sguardo si libera e si allarga, cerca nuovi orizzonti, spazia ovunque il racconto ci conduca, crea nessi inaspettati e a volte sorprendenti. Quante volte, nel costruire insieme un genogramma, ho visto sguardi illuminarsi di sorpresa nello ‘scoprire’ per la prima volta una configurazione relazionale che ritorna attraverso le generazioni…



Non abbiamo nulla da insegnare – se mai da imparare

Altro aspetto di grande importanza è il proporre e riproporre il nostro rispetto sincero per le vite difficili che ci vengono raccontate. La nostra ammirazione anzi. Cecchin ce lo ha ricordato in molte occasioni con candore e semplicità (Cecchin G., 2004; Ganda C., Canova R., 2023).

Lungi dal sentirci persone ‘normali’ che incontrano persone ‘malate’ e ‘problematiche’, dovremmo sentirci persone molto molto rispettose, capaci di ammirare la forza, l’impegno, la speranza mai doma a fronte di vicende familiari e personali segnate da drammi, abbandoni, incomprensioni e fallimenti. Dobbiamo essere ben consapevoli del fatto che non possiamo assolutamente sapere come avremmo reagito noi – come saremmo noi oggi – se avessimo vissuto storie così difficili. 

Non abbiamo proprio nulla da insegnare: piuttosto abbiamo molto da imparare.

Credo siano necessari anni di esperienza umana e professionale per liberarsi dal camice bianco che la nostra professione ci induce ad indossare, per lo meno metaforicamente, e per poterci sentire quindi persone che, con molta umiltà, ascoltano persone sofferenti e in difficoltà ponendo attenzione innanzi tutto a non colludere inconsapevolmente con ciò che tende a confermare le difficoltà che ci propongono.

Non credo che il punto sia di dichiararsi, o ritenersi, terapeuti ‘non esperti’. Si tratta piuttosto di non dimenticare che non abbiamo alcun potere (alcuna expertise) sull’altro, bensì siamo co-responsabili del definirsi del contesto di relazione che intrecciamo con l’altro; si tratta quindi di essere consapevoli del fatto che la nostra responsabilità si pone al livello della relazione. 

Da una parte so di aver molto da imparare da chi mi consulta; l’esperto della sua storia, delle sue emozioni, dei suoi vissuti, dei suoi pensieri, ovviamente è lui; non solo: da lui posso apprendere cosa significhi subire traumi che io non ho subito, sopravvivere a situazioni di abbandono, di confusione e mistificazione, di odio. D’altra parte, però, io ho la responsabilità di come la relazione viene definendosi nell’incontro. 

Il punto è, quindi, saper porre e mantenere la propria expertise a livello della relazione: perchè proporre e mantenere inconsapevolmente un contesto di relazione ove l’altro si sente giudicato, identificato con la propria ‘malattia’, incapace di migliorare, può senza dubbio rivelarsi patogeno. Non esiterei ad affermare che tutti gli interventi che, dopo aver ‘scisso’ il problema dalla persona, dal suo contesto e dalla sua storia, intervengono sul problema con tecniche o farmaci, o più semplicemente con indicazioni o consigli, corrono inevitabilmente il rischio di condannare l’altro a sentirsi ancor più impotente, ‘malato’, senza speranza.



Saper cogliere i minuti segni di un’evoluzione già in atto


La responsabilità del terapeuta è quindi il mantenere la propria expertise a livello della relazione in cui si impegna, e quindi la cura costante della relazione in corso, affinchè questa non confermi implicitamente l’incompetenza, l’impotenza, la malattia, bensì evidenzi le risorse, le potenzialità, i processi autocurativi. Oggi, dopo aver imparato molto dalle tante persone che ringrazio per avermi consultato e avermi dato fiducia, il mio partecipare alla relazione consiste sostanzialmente nel riuscire a proporre in modo credibile un contesto di relazione che veicoli sostanzialmente questo messaggio: “Avete le potenzialità per cambiare, e state già cambiando”.

Si tratta di un intervento lontanissimo dalla muscolarità di combattere il sintomo, sfidare i giochi familiari, o più semplicemente prescrivere compiti e fornire suggerimenti per la salute. Si tratta di un intervento leggero, lieve, delicato direi, e nello stesso tempo molto difficile. 

È un porsi in relazione che prende le mosse dalla consapevolezza di quanto sia facile cadere nel rischio di confermare implicitamente la ‘patologia’; che si basa sull’inesausta curiosità alle storie e alle relazioni; che si nutre della piena fiducia nelle potenzialità autocurative di tutti i sistemi viventi.

Non può trattarsi di una strategia terapeutica, bensì di una convinzione profonda. Il fatto che una persona, una coppia, una famiglia, si rivolgano a un consulente è di per sé un cambiamento molto significativo. Possiamo quindi davvero sentire e pensare che quelle persone stanno già cambiando: è così, in effetti – se solo lo sappiamo vedere. Ne nasce un partecipare alla relazione in modo umile e pacato, che si basa sulla fiducia profonda che la relazione saprà far emergere i primi timidi segni di un cambiamento già in corso. E potendo intravedere i germogli di un processo ancora in boccio, potremo sottolinearli e cercare insieme nuove modalità di descriverli, potremo scoprire nuove risorse, nuove strade percorribili… 

L’incontro, e il reciproco definirsi della relazione, inizia quando una persona mi telefona per consultarmi: ho imparato nel corso degli anni che chiedere chi è informato della telefonata, proporre eventualmente di parlare al telefono con il/la partner, i figli, i genitori, chiedendo loro un incontro perché ho bisogno di aiuto… propone fin da subito un approccio che connette, che ‘demedicalizza’, che intravede possibili risorse.

Una mamma mi telefona preoccupata perchè una figlia adolescente ha iniziato a manifestare un eccessivo controllo del cibo e a perdere peso. Chiedo chi è a conoscenza della chiamata e vengo a sapere che lo sono tutti: il marito, la figlia per cui chiama (la quale avrebbe detto ai genitori che in terapia devono andarci loro), la sorella e il fratello maggiori. Prima di decidere chi invitare parlo al telefono con tutti, chiedendo a ciascuno il parere sull’utilità di una consultazione. Decido quindi di invitare i figli, e dopo un incontro denso e lungo in cui ricostruiamo la storia della famiglia, evidenziandone tutte le qualità e anche le fatiche, posso concludere più o meno come segue: “Mi pare di capire che la vostra famiglia è molto unita e coesa, che i vostri genitori vi hanno trasmesso valori 

ed esempio, che voi siete impegnati in quello che è il compito dei figli a questa età: cercare una propria autonomia, trovare la propria strada, allontanarsi dalla famiglia trovando una giusta distanza. Naturalmente questo compito può essere un po’ più difficile per l’ultimo figlio che deve lasciare il nido, ma l’incontro di oggi mi ha permesso di capire che ne siete consapevoli, e, venendo qui insieme, avete dimostrato di essere capaci di gestire insieme questo momento, aiutandovi l’un l’altro”. Ho poi incontrato una volta i genitori e, a distanza di un paio di mesi, il nucleo familiare al completo: di disturbo alimentare non si è più parlato. Questi incontri non possono non suscitare un interrogativo: cosa sarebbe accaduto se un clinico fedele all’approccio ‘scientifico’ avesse proposto di incontrare la figlia per un inquadramento diagnostico, a cui con ogni probabilità sarebbe seguito un lungo trattamento psicoterapico individuale? Ovviamente, nel caso specifico, nessuno può saperlo, ma le tante vicende simili che ho incontrato a posteriori dopo anni di trattamento individuale, non possono che evidenziare gli alti rischi di patologizzazione di un approccio ‘scientifico’ alla complessità delle vicende umane.

Riconoscere le proprietà di autoguarigione nel fatto stesso che le persone si rivolgono a chi le possa aiutare; mostrare stupore e ammirazione sincera di fronte alle capacità di resilienza, di reazione, di saper lottare a seguito di lutti, fallimenti, drammi; assumere un punto di vista che permetta di sottolineare come un cambiamento sia già in corso; dare un nome alle risorse riconoscendole in modo credibile nel ricostruire la storia della famiglia da più generazioni. Si tratta di interventi lievi, quasi sommessi, proposti con benevolenza e umiltà. E con sincerità, soprattutto: non può essere una tecnica o una strategia. Lungi dall’essere una tecnica si tratta di un atteggiamento personale che dobbiamo lasciar maturare, poco a poco, negli anni. E si tratta innanzi tutto di un atteggiamento di fiducia nell’altro e nella relazione: è la relazione stessa che mi dirà dove cogliere i segni di potenziale cambiamento già in corso; posso pazientare fiducioso, e continuare ad essere curioso, rispettoso, attento; il mio compito, e il mio impegno, è solo provare a non essere cieco (o per lo meno ad esserlo un po’ meno…) rispetto ai segnali minuti che indicano la direzione del cambiamento. Se saprò curare almeno un poco la relazione, la relazione mi indicherà la strada…




La sfida dell’impasse


Come anticipato, il sapersi responsabili del definirsi della relazione in corso, e il porre la propria expertise a livello della relazione, comporta affrontare la sfida di quegli incontri che paiono non evolvere, in cui chi ci consulta lamenta un cronicizzarsi delle difficoltà ed una impossibilità di evoluzione. Se siamo coerenti al ritenere centrale la relazione, lungi dal difenderci definendo l’altro come ‘resistente’, o appellandoci a definizioni diagnostiche che rimandino a una ’inguaribilità’, ci interrogheremo su di noi, sul nostro porci e proporci all’interno della relazione, su come il contesto di relazione è venuto definendosi a nostra insaputa.

Inutile sottolineare che si tratta dei momenti più difficili; ma sono anche le occasioni da cui possiamo apprendere di più – soprattutto rispetto alle nostre premesse e a come a volte esse agiscano davvero a nostra insaputa.

In alcuni casi scopriamo allora una cecità alla storia e al contesto. Una madre anziana e una figlia già adulta, e già mamma a sua volta, mi consultano per una litigiosità rancorosa che si è protratta negli anni e ora coinvolge i figli dell’una, nipoti dell’altra. Quando le cose non evolvono mi chiedo – e chiedo loro – che cosa non abbiamo visto, ripercorriamo la tormentata storia familiare e riprendiamo in considerazione la sorella della madre, morta prematuramente prima che questa venisse messa al mondo, con la cui figura idealizzata questa signora già anziana ebbe sempre a confrontarsi, sentendosi sempre irrimediabilmente da meno; ne segue un momento intensissimo, di forti emozioni, pianti, silenzi carichi di significato... fino a che la figlia abbraccia la madre sussurrandole: “Sapevo della zia Annina, morta a 2 anni prima che tu fossi concepita…ma mai avrei nemmeno immaginato che tanto questo confronto impossibile ti pesò, facendoti sentire sempre e comunque inadeguata…ora posso capire un sacco di cose!”

In altri casi può risultare davvero illuminante il riuscire a mettere in discussione e a vedere dall’esterno premesse che abbiamo condiviso con l’altro a nostra insaputa, ciechi e non consapevoli di come abbiamo colluso nel co-definire la relazione in corso mantenendo il problema presentato. Una coppia lamenta una litigiosità che, da quando sono insieme, si ripresenta regolarmente facendo soffrire entrambi, creando momenti di crisi acuta e minacce di separazione, che poi però vengono ogni volta superate. Discutendone con un collega, questi osserva: “Non potresti aver colluso con la premessa implicita secondo cui il litigio è comunque negativo in una coppia?”. L’osservazione del collega mi illumina: ora posso rileggere il litigio nella coppia come elemento positivo, evidenziando il confronto con le due famiglie d’origine ove, per motivi diversi e con modalità differenti, i contrasti erano invece inammissibili e negati, lasciando però una costante tensione sottotraccia. Non solo, posso mettere in evidenza la loro capacità di differenziarsi dalle rispettive famiglie facendo del litigio una modalità efficacissima di riconfermare ogni volta la reciproca scelta, e posso anche esplicitare un commento sulla relazione con me: anch’io, senza accorgermene, ho accettato l’implicito dogma ‘Mai litigare!”, e ho quindi ricreato il clima di sottile tensione presente nelle loro famiglie d’origine ogni volta che tornavano dicendomi “Abbiamo litigato di nuovo!”. 

Quando chi ci consulta propone una ‘ricaduta’, un peggioramento, il ripresentarsi di una difficoltà, lungi dal sentirci frustrati e delusi, possiamo scorgervi un invito a meglio comprendere, un’indicazione utile a considerare ciò che non avevamo preso in considerazione, un’opportunità che ci permette di rimettere in discussione come abbiamo fino a quel momento partecipato al definirsi della relazione. 




Conclusioni


La relazione precede, è sovraordinata, viene prima. 

La coerenza a tale consapevolezza comporta il saper mantenere ben distinti il contesto di relazione e i singoli elementi che la com-pongono e la intrecciano, e che ne sono inquadrati: si tratta di piani distinti sebbene ricorsivamente intrecciati. Per questo la priorità della relazione implica che, a rigore, nessun intervento, modalità di proporsi, tecnica o commento, può essere considerato, di per sé, utile o dannoso. Ho evidenziato i rischi connessi a premesse medicalizzanti, alla diagnosi che separa l’individuo dai suoi contesti e scinde singoli aspetti della sua esperienza dalla complessità della sua storia; ma sarei incoerente se affermassi che proporre una diagnosi individuale, ad esempio, è da considerarsi comunque negativo o potenzialmente iatrogeno. Vi sono incontri ove l’attenzione al definirsi della relazione suggerisce di accettare e comprendere una richiesta di diagnosi, pena l’instaurarsi di un braccio di ferro tra terapeuta ideologicamente contrario alla diagnosi e persona bisognosa di definire con un termine preciso la propria sofferenza. Si tratterà allora di proporre un’ipotesi diagnostica, facendo attenzione affinchè questa non venga vissuta come condanna alla cronicità, bensì possa essere discussa e posta in relazione, fino a divenire il primo passo per poter cogliere ed evidenziare le potenzialità di cambiamento già in corso.

Non solo: possiamo certamente dare un ‘consiglio per la salute’, dire a un genitore che sarebbe meglio rispondere in un determinato modo alla richiesta di un figlio, proporre a una coppia un rituale, ecc. Il punto è non illudersi di poter essere ‘istruttivi’ (ovvero di poter esercitare un’influenza diretta sull’altro), mantenendo sempre l’attenzione al significato che ciò che proponiamo assumerà all’interno della relazione e all’effetto che avrà sulla relazione medesima.

L’attenzione al definirsi della relazione si pone sempre e comunque su di un altro piano rispetto ai singoli messaggi che proponiamo nel corso dell’incontro. Parafrasando S. Paolo: “Prenditi cura della relazione, e fa quello che vuoi!”. 



Bibliografia