Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

La complessità è morta, viva la complessità


di Giordano Bruno

Professore presso Universitas Mercatorum
Presidente Onorario dell’Associazione Arte e Scienza
Socio Ordinario AIEMS, Roma

Foto di Leopictures da Pixabay 

Sommario

Dopo aver cercato di fornire qualche chiarificazione sul termine complessità, si passa all’approfondimento di cosa debba intendersi per sistema complesso. Segue un breve sguardo rivolto all’insegnamento (come potrebbe essere!), e allo studio dell’incertezza, elemento base dei sistemi complessi; inoltre, si è cercato di chiarire la differenza tra complesso e complicato.  Infine si parla di Sistetica, che a me interessa particolarmente.


Parole chiave

Complessità, Sistemi complessi, Incertezza, Insegnamento, Complesso e Complicato, Sistetica.


Summary

After trying to provide some clarification on the term complexity, we move on to the deepening of what should be meant by a complex system.This is followed by a brief look at teaching (as it could be!), and at the study of uncertainty, a basic element of complex systems. In addition, an attempt was made to clarify the difference between complex and complicated. Finally, we talk about Systhetics, which I am particularly interested in.


Keywords

Complexity, Complex Systems, Uncertainty, Teaching, Complex and Complicated, Systhetics.

 

  

 

Premessa

 

Mi ripropongo di sviluppare questo scritto senza seguire un qualsivoglia schema o algoritmo compositivo. Per cui mi scuso per i buchi, i salti, i cambiamenti di discorso, …, ma desidero in qualche modo procedere per come si affaccia a noi la realtà e un po’ meno per come noi la organizziamo nei nostri modelli mentali. In qualche misura è questo il mio modo di rispondere all’invito rivoltoci da Sergio e Giorgio nel raccontare e fare il punto su come l'approccio sistemico ha influenzato la propria parabola di ricerca e/o di pratica professionale, giungendo fino a scrivere degli attuali temi caldi di vostro interesse e dell'approccio metodologico a cui siete giunti.

 

Siamo immersi nella complessità, la situazione è complessa, questo è un problema complesso e potremmo andare avanti così a lungo, sono diventati dei luoghi comuni, dei “mantra” un po’ scontati, spesso abusati; ormai ci (mi) infastidiscono come succede ad esempio per termini quali “resilienza” e “politicamente corretto”. Non arriviamo al disturbante ”attimino” di trascorsa memoria, ma poco ci manca. La sfacciataggine di molti personaggi, spesso politici o burocrati, nel giustificare le loro incapacità, nascondendosi dietro la complessità di questo o di quello è decisamente insopportabile, per cui questa benedetta parola ci (mi) è diventata antipatica e ne faremmo a meno volentieri. D’altra parte, se tutto è complesso, ovviamente nulla è complesso: elementare Watson! Addirittura, pochi giorni fa ho letto un articolo, che ahimè non ritrovo, in cui in estrema sintesi veniva suggerito di utilizzare complicato al posto di complesso (ci tornerò sopra più in là).

E invece no: la complessità esiste, è viva e vegeta; semmai il mondo, la realtà si sono complessificati a dismisura a causa del ridimensionamento dello spazio-tempo in cui viviamo, con il moltiplicarsi delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, per cui sempre più si parla di “ipercomplessità”.

Qui voglio esporre cosa ha provocato e sta provocando in me questa divaricazione tra l’abuso del termine complessità e la consapevolezza della complessità della realtà.

Per curiosità e per gioco ho chiesto all’”oracolo” (ChatGPT) cosa si intende per  complessità e la risposta è stata la seguente:

Il termine "complessità" può avere diversi significati a seconda del contesto in cui viene utilizzato. Ecco alcune interpretazioni comuni:

 

Complessità nel contesto scientifico e matematico:

In matematica, la complessità può riferirsi alla complessità computazionale, che studia le risorse richieste per risolvere un problema in termini di tempo e spazio.

La teoria dei sistemi dinamici può affrontare la complessità nella descrizione e nell'analisi di sistemi complessi che cambiano nel tempo.

 

Complessità nei sistemi e nelle organizzazioni:

Nei sistemi complessi, i componenti interagiscono in modi non lineari e spesso imprevedibili, rendendo difficile prevedere il comportamento complessivo del sistema.

Nell'ambito organizzativo, la complessità può riferirsi alla struttura organizzativa, alle dinamiche di gruppo e alle interazioni tra le persone.

 

Complessità nell'informatica:

Nell'ambito dell'informatica, il termine complessità può riferirsi alla complessità degli algoritmi, cioè alla misura delle risorse (tempo, spazio) necessarie per eseguire un algoritmo.

 

 

Complessità nel linguaggio comune:

In un contesto più generale, "complessità" può riferirsi a qualcosa di intricato, difficile da comprendere o con molte parti interconnesse.

 

Complessità sociale:

Nell'analisi sociale, la complessità può riferirsi alla complessità delle relazioni umane, delle istituzioni sociali e delle dinamiche culturali.

La complessità può essere considerata sia un ostacolo che una caratteristica interessante, a seconda del contesto. La gestione della complessità spesso richiede approcci multidisciplinari e un pensiero sistemico per affrontare in modo efficace i problemi e le sfide.

 

Ecco, un concentrato di complessità un po’ in tutte le salse come è normale, vista la pervasività della parola, ma anche con alcune affermazioni discutibili.Inizio modulo

Quello che a me interessa, però, non è il sostantivo complessità che appunto rimane spesso vago e serve, come abbiamo capito, a coprire situazioni in cui non si sa come districarsi, ma l’aggettivo complesso “accordato” con il sostantivo sistema.

Perché parlare di sistemi complessi vuol dire viceversa qualcosa di molto preciso.

Ricordo brevemente cosa debba intendersi per sistema complesso.

Un insieme di elementi (siano oggetti, animali, individui, …) costituisce un sistema complesso se per prima cosa gli appartenenti all’insieme “interagiscono” (con continuità) tra di loro: vedi uno “stormo” di storni. Questa però è solo una condizione necessaria.

 

Perché si costituiscano sistemi è sufficiente che sia presente

 

1)      un’organizzazione (vi è un piano, una struttura)

         oppure che siano presenti

2)      processi di emergenza, in breve coincidenti con processi di transizione ordine-disordine, detti di auto-organizzazione, costituenti cioè strutture ordinate a seconda delle condizioni contestuali (ad es. stormi, traffico automobilistico, luce laser).

 

Quest’ultima condizione è quella più interessante: l’emergere di nuove proprietà che i singoli elementi non posseggono. Questo, insieme al ruolo dell’osservatore (cioè di chi in definitiva postula, crea il sistema, identificandolo come tale) è la fattispecie più rilevante dal punto di vista cognitivo del concetto di sistema complesso.

Aspetto che genera una netta frattura tra il modo di vedere meccanicistico-deterministico, per il quale la scomposizione di un sistema in singole minime parti e la loro rispettiva conoscenza sarebbe bastata a farci comprendere l’intero, e il modo attuale di pensare alla realtà, come al presentarsi di continue nuove proprietà emergenti dalle interazioni dei suoi componenti.

 

Si rifletta ancora una volta come tutto quello che ho sottolineato è il risultato di un lungo processo di evoluzione della specie umana, che ovviamente ha anche a che fare con la conquista dell’autoconsapevolezza.

La mia analisi al riguardo è che ancora non abbiamo profondamente maturato questa rivoluzionaria forma di pensiero. Ciò è dovuto principalmente al fatto che la teoria dei sistemi complessi, la “sistemica”, non fa parte dei percorsi di studio, dai licei alle università, se non in minima parte, nonostante che Von Bertalanffy abbia prodotto la sua “Teoria Generale dei Sistemi” negli anni Sessanta del secolo scorso e da allora sono stati numerosissimi i contributi di tanti autori a tale tematica.

Occorrerebbe, ad esempio, che anche solo un determinato numero di parole chiave della “sistemica” fossero trasmesse ai giovani (e non), accompagnate da esempi semplici e chiari. Ci auguriamo tutti che l’assegnazione del premio Nobel a Giorgio Parisi possa essere di aiuto in questa benemerita missione.

 

Ma soprattutto ritengo che l’insegnamento abbia bisogno di un rinnovamento profondo e di un vero e proprio “ritorno al futuro”, un “ritorno” all’indistinto non disciplinare che in qualche modo è ancora presente nella formazione primaria e un “futuro che va riempito con le nuove acquisizioni scientifiche, che tanto influenzano le nostre vite con i mutamenti tecnologici dai più utili ai più perniciosi (ovviamente come sempre dipende dall’uso che se ne fa).

Un intrecciarsi di argomenti che magari a partire da un video relativo ad una scoperta scientifica, o al fenomeno del bullismo o alla visita di un museo o di un parco, o un brano musicale, solo per fare qualche esempio, si sviluppi a partire da questi inneschi e conduca ad apprendere da problemi e non da teorie.

Oppure, perché no, leggere, commentare e approfondire uno dei Pensieri di Blaise Pascal (che molto ha a che fare con la complessità):

 

“Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza.

Nell'uno i principii sono palpabili ma lontani dall'uso comune, di modo che si fa fatica a volgere la testa da quel lato, per mancanza di abitudine: ma per poco che la si volga, si vedono i principii pienamente; e bisognerebbe avere lo spirito del tutto difettoso per ragionare male su principii così grossi che quasi è impossibile che sfuggano.

Ma nello spirito di finezza, i principii sono nell'uso comune e davanti agli occhi di tutti. Non v'è alcun bisogno di volgere la testa, né di farvi violenza; è solo questione di avere buona vista, ma bisogna averla buona: poiché i principii sono così slegati e in così gran numero che è quasi impossibile che non ne sfuggano. Ora l'omissione di un principio conduce all'errore; così bisogna avere la vista ben chiara per vedere tutti i principii, e in seguito lo spirito giusto per non ragionare falsamente sul principii conosciuti.

Tutti i geometri sarebbero dunque fini se avessero la vista buona, poiché non ragionano erroneamente sui principii che conoscono. E gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare il loro sguardo verso i principii inconsueti della geometria.

Dunque, ciò che provoca che certi spiriti fini non sono geometri è che non possono assolutamente volgersi verso i principii di geometria; ma quel che provoca che i geometri non sono fini, è che non vedono ciò che sta davanti a loro, e che, essendo abituati ai principii netti e grossolani della geometria, e a ragionare solo dopo aver ben visto e maneggiato i loro principii, si perdono nelle cose di finezza, ove i principii non si lasciano maneggiare così. Li si vede appena, li si sente più che non li si veda, si hanno pene infinite a farli sentire a coloro che non li sentono da soli. Sono cose talmente delicate e numerose, che occorrono un senso ben delicato e ben preciso per sentirle e giudicarle rettamente ed esattamente secondo questo sentimento, senza potere per lo più dimostrarle per ordine come in geometria, perché non se ne posseggono in questo modo i principii, e sarebbe una cosa infinita il volerlo intraprendere. Bisogna d’un sol colpo vedere la cosa, con un solo sguardo e non per progresso di ragionamento, almeno fino a un certo grado.  E così è raro che i geometri siano sottili e che i sottili siano geometri, poiché i geometri vogliono trattare geometricamente queste cose fini e si rendono ridicoli, volendo cominciare con le definizioni e in seguito con i principii; il che non è il modo di agire in questa sorta di ragionamento. Non è che lo spirito non lo faccia, ma lo fa tacitamente, naturalmente e senza arte. Il saperlo esprimere supera infatti ogni uomo e il saperlo sentire appartiene solo a pochi uomini.

E gli spiriti fini, al contrario, avendo questa abitudine a giudicare con un solo sguardo, quando si presentano loro delle proposizioni delle quali non comprendono nulla e per entrare nelle quali occorre passare attraverso definizioni e principii così sterili che essi non hanno l'abitudine di vedere così in dettaglio, sono così sorpresi che ne sono ributtati e se ne disgustano.

Ma gli spiriti sordi non sono mai né fini né geometri.

I geometri che sono solo geometri hanno dunque lo spirito retto, ma a condizione che si spieghi loro bene ogni cosa mediante definizioni e principii; altrimenti sono falsi e insopportabili, poiché sono retti solo sui principii ben chiariti.

E i fini che sono solo fini non possono avere la pazienza di scendere fino ai primi principii delle cose speculative e di immaginazione, che essi non hanno mai visto nel mondo e che sono del tutto al di fuori dell'uso.” (Pascal B., 1993)

 

E torno ancora una volta a dire qui che insieme all’argomento sistemica occorre essere alfabetizzati sull’argomento incertezza, essendo quest’ultima un aspetto intrinseco dei sistemi complessi.

Noi sappiamo che riguardo ad un sistema complesso possiamo solo fare delle previsioni relativamente ad un suo comportamento, non possiamo stabilire con certezza quando qualcosa accadrà, come e dove. Si pensi ad esempio ai terribili fenomeni meteorologici sempre più difficilmente prevedibili, o alle guerre in atto nel mondo, ma anche più semplicemente (si fa per dire) al traffico automobilistico giornaliero in una città.

 

Non avere le basi di carattere concettuale per affrontare il tema dell’incertezza è un’altra carenza che purtroppo continua a sussistere nei nostri gradi di formazione scolastica e universitaria.

Dopo averne indagato e acquisito gli strumenti di base per saper misurare la probabilità di eventi, sarebbe quantomeno fondamentale apprendere a valutare l’incertezza, dopo (o meglio nell’ipotesi di) aver appreso ulteriori informazioni in merito ad un determinato evento. In pratica occorre saper effettuare quella che in termine tecnico si chiama inferenza (probabilistica). Ciò avrebbe un effetto formativo straordinario, potendo così evitare molti errori logici.

 

A proposito, riporto qui un esempio di quanto accaduto in una scuola elementare di Roma tanti anni fa: avevo concordato con una mia studentessa del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria di introdurre alcuni aspetti della probabilità in una classe quarta, dove svolgeva il suo tirocinio formativo. In breve, la mia studentessa mi raccontò che una bambina a un certo punto si espresse con lei dicendo “maestra se oggi faremo i bravi in aula allora è più probabile che domani ci porterai in giardino a giocare”! È sorprendente come la bambina aveva compreso un concetto fondamentale nell’ambito dello studio della probabilità (che misura la nostra incertezza), quello di probabilità condizionata che ci permette di modificare le nostre valutazioni in merito ad un evento, supposto di venire a conoscenza di un’ulteriore informazione ad esso relativa.

In altri termini, la bambina stimava una determinata probabilità che il giorno seguente la maestra avrebbe portato la classe in giardino, ma aveva compreso che se avessero adottato un certo comportamento allora quella probabilità sarebbe diventata maggiore.

 

Da quanto mi è dato conoscere non mi sembra che siano stati fatti avanti molti passi avanti per diffondere questo tipo di conoscenze e questo modo di ragionare, come ho, peraltro, espresso nell’articolo “Apprendere dall’incertezza”, pubblicato nel 2009 sul n°1 di Riflessioni Sistemiche.

È ben evidente come, quindi, ci sia una violentissima frattura tra quello che ci mostra la nostra realtà quotidiana sempre più “intrecciata” nelle sue principali manifestazioni e gli strumenti di pensiero che ci portiamo dentro per affrontarla. Il modo di pensare occidentale che è stato il nostro “brodo” formativo, per secoli si è nutrito di determinismo, meccanicismo, oggettivismo (potremmo dire di un po’ troppo “esprit de géométrie”) ed è obiettivamente difficile non esserne ancora pesantemente influenzati; pertanto, ci risulta particolarmente difficile prendere le contromisure rispetto ad una realtà che invece ha acquistato sempre più le caratteristiche di imprevedibilità, indeterminatezza, incompletezza.

Diversi, invece, appaiono il pensiero e la cultura orientale in cui le differenze sono viste più come aspetti complementari che come contrapposizioni, ma questa è un’altra storia.

Anche se in effetti è proprio questo l’atteggiamento che occorrerebbe avere per poter affrontare adeguatamente i problemi dei sistemi complessi, dove non esiste la “soluzione”, ma più soluzioni (a volte anche contraddittorie, se viste in chiave assoluta) e che soprattutto necessitano di un atteggiamento favorevole alla composizione, alla cooperazione.

Mi vengono in mente a proposito le famose “convergenze parallele” coniate dallo statista Aldo Moro, che tanto sono state criticate (se non derise) per il loro aspetto contraddittorio, ma che in quel periodo storico al di là di ogni posizione politica erano un tentativo per dare una risposta sistemica alla situazione del tempo.

Molti esempi, proprio in questi giorni, rispetto agli avvenimenti in cui il mondo è coinvolto: dalle guerre, alle crisi ambientali, a quelle migratorie, ci dicono chiaramente come la soluzione di queste attraverso i conflitti è in ogni caso perdente, ma viene pervicacemente perseguita.

 

Tornando alla differenza tra complessità e complicazione, riporto qui un elzeviro di Nunzio Galantino, pubblicato su Il Sole 24 Ore di Domenica 5 Novembre 2023 – N.305, ché meglio non saprei esprimermi:

 

GESTIRE CIÒ CHE È COMPLESSO

SEMPLIFICAZIONE

 

La parola semplificazione è entrata di diritto nel novero delle “parole d'ordine” di questi ultimi tempi, come sostenibilità, ripresa, cambiamento e qualche altra. Non è detto tuttavia che ciò ne faciliti la comprensione. E soprattutto, non è detto che, in assenza di adeguato approfondimento, se ne riesca a cogliere il suo carattere di sfida.

La semplificazione, quando smette di essere semplice emissione di suoni, diventa più di una esortazione. Diviene ricerca seria e rifiuto chiaro di passaggi procedurali che impediscono o ritardano il raggiungimento di obiettivi individuali o collettivi. E ciò che ne fa mezzo indispensabile per rendere costruttivo e creativo il rapporto dei cittadini con le varie forme di amministrazione. Soprattutto quando queste, come scriveva Sturzo a Salvemini nel 1957, mostrano il loro volto di “burocrazia imperante e trafficante”.

È proprio l'ingresso della parola semplificazione nel novero delle “parole d'ordine” di questi tempi ad averla spesso fatta coincidere in ingenuamente (o deliberatamente) con la ricerca di qualche formula magica, con la promessa/pretesa di risolvere nell'immediato quanto di complesso caratterizza la vita amministrativa. La cattiva semplificazione ignora la complessità e la confonde con la complicazione.

La complessità di per sé non è una patologia. È invece una componente fisiologica di qualsiasi processo che preveda incontro tra persone, portatrici di interessi coltivati, obiettivi da raggiungere e legittime aspettative. Essa non è – com'è invece la complicazione – frutto dell'ottuso pressappochismo di tuttologi compiaciuti. La semplificazione chiamata a misurarsi positivamente con la complessità amministrativa, e non solo, è progressivo esercizio di liberazione dalla avvolgente edera che soffoca pensieri, emozioni e sogni possibili. Sia a livello individuale sia a livello collettivo. È sfida che può essere vinta solo lavorando per liberarsi da tutto ciò che ritarda e mortifica, dall'apparenza, dal conformismo, dall'ambizione, dall'avidità e dalle maschere indossate a seconda delle convenienze.

La semplificazione allora non è un fine. È un mezzo con il quale in maniera sempre nuova, vigile e consapevole va governata la complessità amministrativa. L'obiettivo è quello di evitare che la complessità degeneri in patologica complicazione, attraverso l'adozione di norme oscure o che introducono squilibri e privilegi. Terreno di coltura per furbi o modo evidente attraverso il quale legislatori e governanti mettono in bella mostra la loro pigrizia mentale. Confondendo la semplificazione amministrativa con ricorso a norme tanto generali quanto inutili o ripetitive.

Questa, purtroppo, mi appare la scelta (sciagurata) che la classe dirigente ha fatto soprattutto negli ultimi trent’anni in Italia. Inadeguata per formazione a gestire la complessità ha optato per finte semplificazioni che in realtà hanno per lo più complicato la vita dei cittadini.

Pensate allo sconquasso provocato dal trasferimento alle Regioni della gestione del Servizio Sanitario Nazionale!

Desidero soffermarmi ora su un aspetto che mi sta a cuore: la valutazione scolastica.

 

I voti erano e sono sicuramente un forma di semplificazione di un giudizio (cioè qualcosa che per sua natura è complesso), ma spesso un giudizio motivato può avere un carattere ancor più semplificatorio e soprattutto rappresentare una sorta di stigma da portarsi addosso. Un voto anche brutto è un indicatore transeunte di una condizione modificabile, il suo aspetto numerico ha contorni molto più vaghi e meno deterministici di un giudizio (“le parole sono pietre”, come recita l’antico detto ebraico). In fondo un 6 può essere interpretato come un po’ più di 5 e un po’ meno di 7, ma non è tanto questo quello che conta quanto la sua possibile “precarietà” e la sua possibile trasformazione in qualcos’altro.

Quindi anche in questo caso si è scelto di trasformare qualcosa di complesso in qualcosa di complicato (“con più pieghe”), sostituendolo a una soluzione più semplice – se volete anche semplicistica – ma che magari poteva essere superata negli effetti più negativi attraverso un dialogo proficuo tra insegnante e allievo.

 

E a proposito di complesso e complicato mi convincono molto le parole del designer Donald A. Norman:

“Complessità è uno stato del mondo, complicato uno stato mentale. Nella complessità, è possibile scorgere una struttura sottostante di ordine. Recentemente, un manager con cui stavo realizzando un percorso di coaching mi porta nel suo ufficio e mi mostra orgoglioso la sua scrivania: un caos di fogli, documenti, libri e faldoni. Sorridente esordisce: “Vedi, in mezzo a tutto questo disordine, io mi ritrovo. Non perdo un colpo! “. Avendo avuto l'opportunità di conoscerlo professionalmente, credo proprio avesse ragione. La sua scrivania rifletteva la complessità del suo lavoro. Un ordine sottostante reggeva quel caos apparente.” (Norman D.A., 2011)

 

Non ci possiamo liberare della complessità, però possiamo cercare quotidianamente di provare a rintracciarne l’ordine sottostante.

Nella mia sfaccettata e ormai lunga esperienza di docente ho maturato un’idea che devo confessare è nata proprio da quanto sperimentato in un istituto di design di carattere universitario, l’ISIA di Roma.

Contribuire a mettere su un Corso specialistico di Design dei sistemi. Mi è sempre sembrato naturale che un designer si occupasse di progettare sistemi (complessi); tutto l’impianto disciplinare – ricco di svariati contributi in ambiti diversi del sapere – e l’approccio metodologico presente già nel Corso di base sviluppato all’ISIA di Roma conducevano a intraprendere quella strada. E non solo per le indubitabili applicazioni nel campo del design dei servizi, ma anche nell’ambito del design del prodotto, dove quest’ultimo veniva a rappresentare un “nodo” della “rete” progettuale di cui faceva parte.

Poi, a ben rifletterci, poiché notavo come nella progettazione erano sempre presenti elementi aventi caratteri sia etici che estetici ho coniato un nuovo termine: “Sistetica”, che riassume in sé quelli di sistemica, etica ed estetica (Bruno G., 2019).

Ecco, io credo che un buon progetto, in tutti i campi, lo sia solo se è “sistetico”.

Pensate, solo per fare un esempio tra le innumerevoli opere d’arte che hanno questo carattere, alla “Divina Commedia” di colui che ancora chiamiamo padre: Dante Alighieri. Ci ha descritto la complessità della vita e degli esseri umani in tutte le loro manifestazioni, provocando in noi giudizi e sentimenti (spesso di umana “pietas”) e riempiendoci lo spirito di bellezza.

Dovremmo cercare di essere tutti un po’ più “sistetici”!

 

 

 

Bibliografia