Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

Riflessioni ai “margini della vita”


di Luigi Catzola

Socio Ordinario AIEMS, Roma
Ingegnere, ricercatore esperto di teoria della complessità e intelligenza artificiale

Sommario

Ci sono momenti particolari della propria vita in cui si riescono ad amplificare sensazioni del proprio vissuto e a dare colore diverso a fatti e a concetti legati alla propria vita. Questa è la narrazione di uno di quei particolari momenti vissuti.


Keywords

Margine, Bordo, Confine, Transizione di Fase, Punto di Catastrofe, Vita, Morte, Corpo, Anima, Onda, Corpuscolo, Metapensiero, Identità, Rete, Madre, Padre.

Summary

There are particular moments in our own life when we are able to enlarge some sensations of our experience and to colour in a different way facts and ideas linked to our life. This is the telling of one of these particular moments.


Keywords

Edge, Border, Boundary, Phase Transition, Catastrophe Point, Life, Death, Body, Soul, Wave, Corpuscle, Meta-thinking, Identity, Net, Mother, Father.



Introduzione

Quanto mi accingo a raccontare è quanto vissuto la notte del 24 giugno 2019.

Circa un anno prima dell’inizio della pandemia covid-19, erano più di tre mesi che facevo una serie di controlli e di analisi per alcuni sintomi e disturbi che non si riuscivano ad associare ad alcuna patologia o infezione nota. 

Così, la mattina di quel giorno ero sul punto di collassare per una polmonite interstiziale che fino ad allora era sfuggita a tutto e a tutti.

Portato di mattina presto in ambulanza al pronto soccorso di Frascati, ho trascorso poi la notte su una barella. Ero in stato semivegetativo e una serie di pensieri, suggestioni, stati 

di ansia, di angoscia, ma anche di serenità, hanno attraversato tutte le mie membra, la mia mente, la mia coscienza, dandomi modo di mettere a fuoco molti significati importanti che danno senso alla nostra vita.

Quanto qui riportato è la sintesi del vissuto, cosciente, di quella notte.



24 giugno 2019

Domenica ore 02:12 

È notte. Il mio corpo nel letto è una corda tesa che si inarca rigidamente e inizia a vibrare furiosamente di moto caotico. Cerco una coperta, mia moglie mi copre. 

Il tremore forte fa vibrare il letto che martella il parquet: il ticchettio ha iniziato a scandire il battito del mio nuovo tempo, molto diverso da quello interno del mio tempo proprio, del mio ritmo circadiano.

Tachipirina! Mia moglie mi è accanto, poggia la sua mano sulla mia e veglia su di me. Dormo mezz'ora. Mi risveglio madido di sudore freddo, non ho più forze. Mia moglie è al piano di sotto a preparare una borsa col necessario per un eventuale ricovero. Sono esausto, azzerato. Penso sia una semplice indigestione. Ho conati di vomito, devo vomitare. Penso al parquet … è stato appena lamato. Non ho la forza neanche di sussurrare … Titti … il nome di mia moglie. 

Mi butto a terra, lentamente mi trascino verso il bagno per vomitare, sono lento, temo di non fare a tempo. Invece, lentamente, arrivo a quella semplice meta, ma i conati son vuoti non espello nulla. Resto a terra immobile, spalle poggiate a una parete e lentamente, carponi, vado verso il letto; altra apparentemente semplice meta. Aria, semplice miscela di ossigeno, i miei polmoni non ne hanno più. Ora maturo l'idea che non è semplice indigestione. Mi manca anche l’aria.

I medici del 118 arrivano alle 06:45. 

Dati vitali: pulsazioni 120 (il cuore pompa tanto pur nella mia immobilità), saturazione 87 (alle mie cellule arriva poco ossigeno). Ho vari scompensi, rischio setticemia. Dobbiamo far presto, andare immediatamente al pronto soccorso più vicino casa. È a Frascati, solo 3 km.

Protocollo, analisi cliniche e strumentali: grave insufficienza respiratoria, polmonite interstiziale del polmone destro, sofferenza e insufficienza renale. È passata così l’intera mattina e parte del pomeriggio, però ho finalmente una diagnosi. Ma sono scompensato, ancora a rischio setticemia. 

Mi mettono su una barella in un corridoio del pronto soccorso, lì mi lasciano, solo, immobile, con un ago nel braccio, una flebo in vena, ossigeno, cortisone e cefalosporine. Il corpo spento, la mente lucida come non mai. I miei pensieri, che nella vita erano sempre accompagnati dal dubbio del “perché?” ora parevano aver trovato spazio solo su una certezza … a tutto c’è una fine certa, ma incerta sul quando, sul come, sul dove. Ho pensato … ci siamo, è così che ci si ritrova ai margini della morte, o forse dovrei dire ai margini della vita ...

Strano termine, il margine … è un bordo. Sottile linea di confine che segna il passaggio verso altro. Ma in questo caso, questo margine segna il confine con una transizione di fase, un punto di catastrofe verso altro, diverso, immane, imponente e impalpabile … ignoto. La Morte. Altro strano termine che nel linguaggio comune vuol dire cessazione della vita corporea. Perché corporea? Si immagina, forse, una vita altra, diversa da quella corporea? … Oltre il margine della vita … con la morte, troverò un nuovo margine? Un’altra MORTE? La morte della morte? … Cos’altro potrebbe morire dopo la morte corporea? Avrò, forse, un’anima non corporea? Uno spirito che possa vagare e diffondersi ovunque, come un’onda nello spazio e nel tempo … oppure fuori dal tempo e da ogni spazio … potrei essere onda che incontra solo altre onde …

Il margine della morte, o della vita … non è un vicolo, né una strada di separazione. Il margine è una linea impalpabile, sottile e invisibile confine tra il noto e l’ignoto, il diverso. Ma è un diverso catastrofico. 

Il punto chiave è che il suo passaggio è un confine termodinamico segnato dalla irreversibilità, in questo mondo. Quella transizione che trasferisce l’essere verso altro, appunto ignoto. Ma in maniera definitiva e irreversibile, per questo mondo, l’unico del quale abbiamo sentore di un minimo di conoscenza. Ma, potrebbe esistere un altro mondo? Un mondo altro?

Le mie debolissime forze erano appese a un filo, tenue, ma quanto ... non potevo saperlo. Un sottile ma palpabile filo che segnava “il margine della morte”, la mia. Nel mio stato comatoso oramai avevo raggiunto una convinzione … mio malgrado ero dentro al mio margine, ma dalla parte buona e a breve lo avrei potuto oltrepassare. Per saperlo dovevo attendere che passasse la notte. 

Come diceva Eduardo … “Adda passa’ ‘a nuttata!” … Poi? 

Oramai, mancava poco all'inizio della notte. L'unica parte del mio corpo capace di poterla attendere con lucidità e freschezza era la mia troppo effervescente ed esuberante “mente” che navigava “il margine della morte”.

Benedetto margine, che mi vuoi significare? 

La mia mente era uscita fuori dal mio corpo, che vedevo lì, esanime. Come chi racconta esperienze di premorte, ma non era il caso mio … era la mente che vedeva e immaginava il suo corpo. Il mio era solo l'inizio dì un viaggio mentale nel mondo vissuto, immaginato, e in me stesso, ma al margine della vita … o della morte?

È così che la prima immagine apparsa alla mia mente furono le cime verdi delle colline dove vivo. Ma le vedevo dall'alto, come in una veduta aerea che rapidamente aggrega forme, elementi, colori, geometrie e ne crea altre, era armonia. L’indefinibile bellezza della bellezza che conduce al sublime, le proporzioni dei contrasti, degli opposti, logos e caos, i ritmi delle forme, la leggerezza del pensiero che ti fa volare su aree ipnagogiche mai visitate ma che hanno forma e danno ritmo. Al di sopra della tua esistenza, fisica … corpuscolare.

Ecco il termine giusto, sublime. Il mio poteva, forse, essere un viaggio verso il sublime per sublimare il mio essere. Prepararmi alla morte. Non alla mia, anche se quello era il punto di partenza, ma prepararmi alla sua essenza, in quanto concetto “meta”. Concetto che supera lo stesso concetto di morte, ché ne è al di là, ché permette di osservare la morte dal di sopra, che non dà un valore alla morte diverso da quello che dà alla vita, ma ne innesta i legami con essa e col tessuto della socialità umana.

Uno stormo di anatre in volo tracciavano forme ricorsive che mi ricordavano Escher. In questo quadro ipnagogico le loro ali sembravano ritmare il canone 1 a 2 dell'Offerta Musicale di Bach. La ricorsività geometrica delle forme e quella del canone danzavano insieme avvolgendosi nella loro autoreferenzialità, invitando a danzare anche le fronde verdi e abbondanti, mosse dal vento, dei castagni sulle colline. Era una danza senza tempo. Era lei, la danza, il tempo che, con le sue forme, i suoni, i colori, sublimava il ritmo del mio viaggio. Il tempo era lei. Una danza di pensieri in armonia col mio vissuto, con me e in distonia con quel momento che correva sul margine della vita. La mia.

Sarebbe stato un viaggio meta e, come tutti i viaggi meta, non li puoi pianificare perché sono viaggi sulle conoscenze delle conoscenze, sulle domande delle domande, sui “perché?” dei “perché?”. Non ci sono tour operator capaci di accompagnarti. Sei solo con te stesso, i tuoi pensieri, la tua sensibilità, le tue conoscenze, le tue domande e i tuoi “perché?”. Non sai, a monte di tutto, quale sarà l'esplorazione e quale la meta. E a me non interessava saperlo, Volevo fosse un viaggio nella vita, essendo costretto dagli eventi a stare ai margini della morte, la mia. Ma, speravo non fosse, quella, anche la meta.

Sono una minuscola particella. Il mio corpuscolo fisico è composto da circa 10^15 cellule e ognuna contiene all’incirca 10^12 atomi. Sono un ammasso strutturato di 10^27 cellule, dieci miliardi di miliardi di miliardi ... L’organizzazione di materia più complessa dell'universo: L’uomo! Ma, non è questo che mi inquietava … i miei atomi si rinnovano tutti nel giro di pochi anni. Non ne resta alcuno appartenente alla mia genesi e al mio sviluppo. Sono sempre nuovi. E, nonostante ciò, codificano la funzione invariante del mio essere, della mia coscienza, del mio io. Quegli atomi riescono a mantenere stabile non solo il corpo, ma principalmente la mia essenza, la mia coscienza. La base profonda di qualcosa di indefinibile e impalpabile: forse … quella che chiamiamo Anima?

La veduta aerea che la mia mente costruiva era una veduta di connessioni. Invisibili legami creati da me nell’interagire e vivere in quei luoghi. Dall'alto vedevo me giovane con mia moglie e i tre marmocchietti ai piedi di un alto castagno intenti a cogliere i suoi frutti, stando attenti ai ricci spinosi che aprivamo con le scarpe o con una pietra. I bambini si eccitavano anche all'idea di doverle pulire e cuocere sul braciere del caminetto. Tempo felice di quando si è giovani e belli anche se a te appari brutto.

Ecco, stavo analizzando la mia identità, non quella ontologica, come oggetto in sé. Quella diffusa come un’onda. Quella dove non sei tu … ma tu, nell'altro, negli altri, nelle cose, nei luoghi, nei pensieri e nelle idee tue e degli altri. Quello che sei nei legami che hai creato, nei ponti che hai costruito, nelle conoscenze che hai mosso e nelle storie che hai partecipato.

L’identità che credi essere tua non è mai tutta tua. È condivisa, è onda e corpuscolo. 

Corpuscolo, perché ha origine nella fisicità materiale. È parte del proprio corpo. Ma è anche parte del corpo degli altri con cui abbiamo potuto interagire. 

Onda, perché dinamica, fluida morbidezza eterea capace di creare ponti tra mondi apparentemente impossibili da collegare. Ponti tra le tue diversità interiori, tra le tue contraddizioni. Ponti tra te e gli altri, tra te e le cose, tra te e il mondo. 

La mia identità è anche dentro le membra di mia moglie e dei miei figli, dei fratelli, dei nipoti, degli amici e di tutti coloro coi quali ho interagito. È una dinamica di segni incisi dal tempo, dal vivere, dal comunicare e dal condividere, dal socializzare. Avevo la piena consapevolezza che l’eventuale mia perdita avrebbe cambiato anche tutte le altre identità di tutti gli altri. La parte di me nelle membra di mia moglie sarebbe rimasta immutata e ancora lontana dai “margini della morte". Ma la mia assenza fisica avrebbe comunque interrotto l'alimentazione del fluido vitale del nostro legame, ciò che sarebbe rimasto in lei sarebbe stata la nostra storia: le trasformazioni del suo essere legato al mio. 

Lei custode di una bella parte della mia identità, quella dentro di lei. Ma monca della sua parte nella mia. È così anche per i miei figli, i miei amici, i miei cari. La mia identità, corpuscolo in me e onda con gli altri. La loro identità, corpuscolo in loro e onda con me e con gli altri.

Mi sono visto come “funzione d’onda” di Schrödinger. Ma, pur essendo io particella infinitesima di questo immenso e meraviglioso universo, non sono particella quantistica e perciò la mia onda non è un’onda di probabilità ma un'onda classica, viaggiante. Mi connette al mondo, mi crea ponti verso luoghi, cose, persone sconosciute. Divento rete. Sono distribuito e connesso col resto del mondo, ma questo non annulla la mia identità, anzi essa è un divenire e una crescita continua. Perciò “Io”, non sono solo “Io”. Sono rete, rete di onde condivise, corpuscolo sociale capace di essere insieme anche onda e creare ponti, essere rete. Sono rete! Sono parte della rete sociale e sistemica del pianeta.

La mia funzione d’onda era localizzata in quella minuscola porzione di spazio-tempo di una brandina di ospedale. Come tutte le funzioni limitate nello spazio e nel tempo ha una sua trasformata, detta di Fourier, che impegna gran parte dello spettro delle armoniche di frequenza e del numero d’onda. Significa che è anche onda. Sembra la dicotomia dell'essere: corpo materiale aggregato di atomi … ma capace di avere anche una sua essenza invisibile, profonda, imperscrutabile, che abilita viaggi al di sopra del visibile e del tangibile. Un invariante etereo, nel tempo e nello spazio, della mia fisicità. Sono l’attualizzazione di uno dei miei possibili stati quantici: forse, lassù … qualcuno mi osserva?

La mia funzione d’onda era prossima al collasso. E il collasso della mia funzione d’onda potrà attualizzare solo uno dei possibili stati della mia identità, quella corpuscolare, il mio essere. L’essere stato, e ora confinato ai margini della morte, la mia. In attesa che avanzi e passi questa benedetta notte. 

“Adda passa’ ‘a nuttata!” … Ma è ancora lunga! 

Un’altra immagine mi passa davanti. È quella della mamma. Non quella meta, mamma delle mamme, ma proprio quella della mia umile e sempre gioiosa Mamma.

Rivedo le immagini di quando ero studente piegato sui libri, immerso nella carta, negli appunti, negli schemi di sintesi, tabelle, disegni, carta millimetrata, squadrette, gomma e matite. Il tavolo era una bellissima tavolozza di colori che componevano e scomponevano la mia conoscenza, calibrata dal reticolo informativo formato dalle carte sul tavolo, dai libri e dalla mia testa. L’emergere della mia conoscenza dalla altra forma di conoscenza passiva, ferma nei libri, immobile, ma possente e immane dettata dalla storia del pensiero umano. Essa, come un filo di Penelope, si tesseva e poi si disfaceva mentre nuove, variegate forme si intrecciavano generando reticoli dinamici di informazione e di sapere sul diverso materiale che componeva il mio tessuto cerebrale. Il cervello fumava e la conoscenza emergeva in forma libera ma sempre più strutturata, guidata dalle onde della mia identità corpuscolare che creava dinamicamente una mia sempre nuova identità ondulatoria che partecipava le mie relazioni umane coi docenti, coi colleghi, coi libri ...  

A metà pomeriggio l’aria del corridoio che portava alla mia stanza diventava palpitante, fragrante e profumatissima. Nella mia stanza avvertivo l'intenso, caldo, vellutato e possente aroma del caffè. 

Il pensiero si arrestava sull'ultimo fotogramma osservato sul libro, l'ultimo frammento di conoscenza catturato e poi inibito dall’aroma del caffè. E poi … Lei. Anzi, prima entrava il suo sorriso accompagnato dalle sue buffe movenze da equilibrista col vassoio in mano con sopra la zuccheriera, un bicchiere d’acqua, due pasticcini e la fatidica tazza di caffè. Rigorosamente bollente, servita con piattino e cucchiaino, in tazza di ceramica dello spessore giusto, vale a dire non sottile né troppo spessa … 

A questo punto la stanza si illuminava del sorriso e della gioia della mia mamma che veniva a donarmi la sua, per me preziosissima presenza che trasmetteva linfa vitale per sostenere il peso della costruzione dei reticoli di conoscenza, dai frammenti sparsi e informi nella mia testa. 

Mia madre era la terraferma. Il riferimento canonico. Un mark geodetico per stare nella realtà del reale avendo la sicurezza di non potersi perdere. È stato il suo pragmatismo che ha guidato la formazione della nostra (mia e dei miei fratelli) operatività, che ci ha insegnato il come muoversi in condizioni di vincoli, ostacoli, contraddizioni e caos, nel rispetto dei valori etici insegnati e patrimonio della nostra evoluzione sociale.

Semplici parole, molti sorrisi, tanta gioia nel cuore, curiosa, maliziosa, allegra, empatica e … tanto amore. Questa era mia madre!

Nel corridoio del pronto soccorso tutto era reso cupo e opprimente dall’ascolto di lamenti solitari, di suoni lugubri e delle storie tristi dalle quali ero circondato, come un agnello circondato dai lupi. Non vedevo nulla perché non avevo forza per aprire gli occhi e quando li aprivo, lo squallore del dolore altrui tesseva trame ancora più contorte e smorte che prendevano forma di ombre sulle pareti. Ma lo squallore, la tristezza e il disgusto, erano anche negli odori, nei cigolii delle porte, nello sbuffare o nel gridare per il dolore. La notte, la mia notte, era ancora lunga da passare. Ero sempre lì, ancora ai margini della morte, la mia.

Mi appisolo e temo che sia quello il momento della transizione, il mio solstizio stava forse per compiersi?

Quali reticoli organici delle mie membra e quali onde avrebbero partecipato per primi questo triste tenzone? Il cuore, sempre il mio, o i polmoni? Oppure i reni? Avevo riempito il “pappagallo” che ci davano in dotazione, già con un buon litro di sangue color bordeaux, anziché di urine. Lo scompenso era ancora in atto e non sembrava avesse intenzione di arrestare la sua caotica e folle corsa. Io, però ero ancora lì con poche speranze ma con lucida testa che mi aiutava a volare alto, sopra il margine della morte, la mia. 

Nel dormiveglia apparivano le immagini ipnagogiche che non sapevo se ricondurre al sonno, al sogno o allo scompenso della mia identità corpuscolare. 

Mi vedevo piccino al seguito del mio papà, modesto ma autorevole e incorruttibile come nessun altro abbia mai incontrato.

Se la mia mamma era la terraferma, il mio papà era la mia Stella Polare. Sì, era il mio riferimento assoluto per il modo col quale sapeva sempre indicare la giusta direzione verso cui orientare pensieri, fantasie, sogni, decisioni, azioni. Non mi ha insegnato le cose, ma a ragionare sulle cose. Ogni cosa ha una cosa più grande che non solo la contiene, ma la spiega e la dispiega al mondo. Non mi ha insegnato a indagare la natura, avere questo è stato facile: è bastato andare a scuola. Mi ha insegnato a indagare la natura della natura. A indagare i “perché?” che sono a monte della natura e che guidano la bellezza, l’armonia, gli equilibri, le sintonie, le distonie, le transizioni, il dolore, la gioia, il pianto e il sorriso, le cadute e le riprese.

Non mi ha dato solo conoscenza ma mi ha insegnato a conoscere la conoscenza, a vivere di conoscenza, a conoscere come conoscere, a convivere con la conoscenza e a farla diventare linfa vitale per alimentare la mia infinita curiosità. Io, ancora oggi non riesco a vivere senza alimentare di nuova conoscenza i miei tormentati dubbi e la mia infinita ignoranza. La conoscenza è diventata per me fonte di incommensurabile piacere ed è parte integrante del mio vivere. 

Lo avrei voluto con me per un altro po’ di tempo, per potergli dire: 

«Caro Papà, che dire dell’amore. Ci hai insegnato ad amare tutto l’esistente. Ma non ti sei limitato a questo. Ci hai insegnato ad amare l’amare: è stato tuo principio di vita. Non hai mai conosciuto odio, tranne che per l’ingiustizia e la prevaricazione. La pittura era lo strumento che avevi per esplicitare il tuo amore verso il creato, verso tutto l’esistente. E le tue capacità sinestetiche hanno fatto il resto, donandoci su tele materiali i meravigliosi istanti delle tue meta chiacchierate con la natura e con Dio. Ci hai regalato parte della tua identità corpuscolare nei tuoi quadri e nei tuoi scritti, e ora che non sei più con noi … veicolano ancora la parte ondulatoria della tua identità … 

Eri un idealista, sognatore, creativo, ma sempre coi piedi ben saldi a terra, quella terraferma che assieme a mamma garantiva a tutti la giusta fluidità per vivere il reale anche quando amaro.

La tua immagine più bella? Quando mi insegnasti la potenza del significato di essere un uomo, di appartenere alla specie umana: 

“Qualunque cosa farai, qualunque dubbio avrai … ricorda sempre che l’uomo è l'unico animale, su questa Terra, capace di volgere lo sguardo verso il Cielo con l’unico desiderio di voler guardar le stelle”. 

E mi recitasti queste due, tue, brevi, strofe:

“All‘improvviso,

sulla lavagna del cielo

una effimera breve

sottil striscia di luce.

Sulla terra il riverbero

nelle pupille

di un uomo”


La sua infinita sintesi aveva l’abilità di far esplodere le emozioni più profonde che avrebbero inciso sulla mia identità corpuscolare e su quella ondulatoria, la sua profonda identità. Son così diventato custode della sua essenza, di quella sua identità diffusa come onda su tutti noi, ultimi custodi del suo essere. Così, coi miei due fratelli, alla luce di tali minuscoli ma possenti fari umani, abbiamo avuto la fortuna di maturare l’amore per l’amare, il piacere del conoscere la conoscenza, il sentire la natura della natura, ascoltare il silenzio e guardar le stelle.

E ora anche questo nobile ruolo era in discussione. Ero ancora ai “margini della morte”. La mia.

La notte non era ancora passata.

Ero stremato fisicamente. Ma la mia mente era eccitata dalle mie meta-esplorazioni, dai ricordi, dai sentimenti sempre più violenti, intensi, dirompenti, con lo sfondo delle immagini ipnagogiche e i suoni che il mio cervello ancora elaborava. Forse, avrei perduto tutto … ma non potevo saperlo.

La stanchezza mi faceva crollare, neanche mi accorgevo di passare dagli stati ipnagogici al sonno profondo. Né avrei potuto sapere se la nottata sarebbe passata. Almeno per me.

Buio. Io non c'ero. Né in forma corpuscolare, né in forma ondulatoria. Dormivo e basta.

Passa un tempo che non posso quantificare perché dormivo. A un certo punto, occhi chiusi, vedo le palpebre schiarirsi, poi illuminarsi, sarà la luce del corridoio o del nuovo giorno? … Lentamente apro gli occhi … era il nuovo giorno e sulla panchina a me di fronte incrocio gli occhi di mio figlio … Andrea.

… È stato come se gli avessi visto dentro le pupille il desiderio di guardar le stelle. 

La notte era passata … 

… “A nuttata è passata! Ma … … chiu’ tarde, ne accumincia n’ata!” …




30 Novembre 2023
Ho scritto questa monografia in ospedale, non appena passato il pericolo e recuperato un po’ le forze, solo due giorni dopo quella notte. L’ho scritta per mantenere traccia dei pensieri di quella notte, per poterci tornare su e riflettere sul turbinio di sensazioni, di storie, di suggestioni, di concetti che mi hanno accompagnato e dato struttura e vita a uno dei momenti più particolari della mia esistenza.

Quando la Redazione di Riflessioni Sistemiche ha chiesto un contributo sul come l’approccio sistemico avesse influenzato la mia parabola di ricerca, ho creduto opportuno e utile raccontare questa particolare esperienza perché in essa ho ritrovato in pieno il risultato della mia formazione sistemica alla vita: ogni cellula di pensiero e di storia intessuta nella esperienza narrata, ha natura sistemica.

Quando mi avventuro nelle vie del significato del termine margine, diversamente dal linguaggio comune, nel quale con esso si intende solo un confine, un bordo che limiti due 

parti distinte e diverse, esclusive e alternative tra loro, in un approccio sistemico le parti diverse, separate da un margine, sono viste in modo inclusivo, non esclusivo e alternativo, ma in forma embricata: l’uno esiste perché c’è l’altro, in maniera imprescindibile dall’altro. 

Il margine diventa, allora, elemento di continuità che attribuisce valore alla diversità anche laddove, superandolo, si potesse trovare irreversibilità e incertezza, come nel caso del margine tra Vita e Morte. È con tale intendimento che ho vissuto il momento in cui ero sul margine della Vita. 

Ho avuto modo, pur “stando sul margine”, di osservarlo dal di fuori, di meta-osservarlo e di comprendere, “del margine della Vita”, la sua essenza catastrofica (nella accezione di René Thom): punto di catastrofe che delimita un cambio radicale dello stato e del comportamento rispetto alla situazione precedente, ovvero una Transizione di Fase, in questo caso non solo di esito incerto ma anche irreversibile – Vita vs Morte. Ciò nonostante, elemento di continuità, perché Morte abilita nuova Vita e innesca nuovi cicli vitali. Essa non interrompe la Rete vitale, sociale e sistemica, costruita in precedenza, ma la modifica abilitandone nuove opportunità di connessione e di condivisione, permettendone uno sviluppo nuovo e ovviamente diverso dal precedente. La Vita continua. Traccia della mia identità permane nelle strutture biologiche, di pensiero e di azione, delle persone con cui ho interagito e nelle quali ho segnato parte di me … la Rete vitale cambia e plasma continuamente il suo essere, mentre anche tutto il mondo cambia in modo non prevedibile e incerto. 

Una cosa importante ho imparato osservando in modo sistemico la rete vitale che connette l’esistente: non possiamo credere di rubare alla rete sistemica della natura, elementi che modifichino i delicati equilibri che ne reggono la vita senza comprometterla, la nostra è parte di essa e la non prevedibilità, l’incertezza, è parte integrante della vita stessa. Perciò, il mio è anche un invito a costruire la propria vita e la sua rete di connessioni, utilizzando le proprie forze e capacità in modo armonioso con la rete sistemica della natura e con le altre vite umane.

Concludo, perciò, con alcuni brevissimi versi del mio papà …


“Non chiedere l’azzurro al cielo …

Nello spazio del presente

Il fiato

Dell’ignoto Futuro.”