Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

L’approccio sistemico e la mia vita professionale


di Valeria Fassi

Socio Ordinario AIEMS, Roma, psicologa, psicoterapeuta e mediatrice familiare.
Servizio di Psicologia Clinica Università Cattolica di Milano.
Docente al Master di Mediazione Familiare del CMTF

Sommario

L’articolo si propone di evidenziare come l’approccio sistemico abbia influenzato la mia vita professionale e il mio modo di operare. Sono messi in evidenza importanti incontri con Selvini, Boscolo, Cecchin e altri maestri. Il mio lavoro è centrato sull’importanza della “comunicazione sana” da sostituire alla comunicazione patologica in tutti i contesti: interventi terapeutici, formazione e prevenzione.


Parole chiave

sistemica, pragmatica, comunicazione patologica e “comunicazione sana”, prevenzione.


Summary

The article aims to highlight how the systems approach has influenced my professional life and the way I operate. Crucial encounters with Selvini, Boscolo, Cecchin and other masters are reported. My work focuses on the importance of "healthy communication" to replace pathological communication in all contexts: therapeutic interventions, training and prevention.


Keywords

systemic, pragmatics, pathological communication and "healthy communication," prevention.



Incontro con l’approccio sistemico


Tutta la mia vita professionale è stata grandemente influenzata dall’incontro con la pratica sistemica avvenuto precocemente, ma per comprendere meglio in quale modo è stata importante per me devo fare una piccola premessa autobiografica.

Sono nata nel 1947 in un piccolo paese della provincia di Varese, vicino al lago di Lugano. I miei primi anni di vita sono stati vissuti in un’atmosfera tipica del 1800: una casa di campagna, il pollaio con le galline e le uova, l’orto con la frutta e la verdura. Gli inverni erano molto freddi, non c’era il riscaldamento e quindi le serate si trascorrevano 

davanti al camino acceso. Mia nonna faceva il pizzo a tombolo, mia madre l’uncinetto e mio padre, medico di famiglia con una grande passione per la letteratura e la cultura umanistica, ci leggeva tanti libri. Partendo dalle favole, Nell’antro dell’orco e Le novelle della nonna, passando per Pinocchio, Cuore e Robinson Crusoe, L’isola del Tesoro, Il Conte di Montecristo, il Giro del mondo in 80 giorni, I promessi sposi, fino a Balzac, Shakespeare e Molière. Questa passione per la letteratura ha segnato molto la mia vita ed è rimasta sempre presente. Ho iniziato a leggere molto presto e la lettura è stata ciò che mi ha permesso di conoscere il mondo nei primi vent’anni in cui ho abitato in provincia di Varese. Frequentare le medie e il liceo in città significava anche fare la pendolare, uscendo molto presto la mattina per prendere un treno e ritrovarmi in un ambiente molto chiuso, con insegnanti, soprattutto i primi anni, che non prestavano attenzione ai problemi dei ragazzi, ma erano molto autoritari e poco comprensivi.

Per fortuna, nel triennio del liceo classico ho avuto alcuni insegnanti molto preparati, e da lì ho iniziato a pensare che avrei potuto fare l’insegnante di lettere per essere diversa dagli esempi negativi che avevo avuto. Per cui, finito il liceo, mi sono iscritta a Lettere all’Università Cattolica di Milano.

Desideravo staccarmi dal paese, quindi ho trovato un convitto laico, dove erano presenti molti studenti provenienti da varie parti del mondo: Grecia, Cile, Africa, Sri Lanka, Siria e altri paesi. C’era anche un gruppo di sardi e uno di pugliesi. In questo modo ho iniziato a entrare in relazione con persone provenienti da altre realtà e con altre idee, mentre all’università che frequentavo scoppiava la contestazione del ’68. Infatti in Italia è stato proprio all’università Cattolica di Milano che sono iniziate le contestazioni. Io avevo un atteggiamento di curiosità, volevo capire il mondo e partecipavo con interesse sia alle lezioni universitarie che alle altre attività e ai gruppi.

Dopo un biennio di lettere, dove comunque pensavo ancora che avrei fatto l’insegnante, ho avuto un incontro importante con un docente di psicologia dell’Università Statale, Ettore Caracciolo. Era uno psicologo comportamentista che lavorava con le scuole. Teneva dei seminari molto affollati e coinvolgenti, dove contestava il vecchio modello dello psicologo che vede i bambini facendo diagnosi, ma proponeva un approccio diverso con gli insegnanti per aiutarli a lavorare in modo differente con i ragazzi. Questo incontro mi ha fatto capire che mi sarebbe piaciuto fare quel tipo di attività. Anziché fare l’insegnante che lavorava bene con piccoli gruppi, avrei potuto lavorare con gli insegnanti per aiutarli a modificare una situazione più complessa. 

Parallelamente, nel ‘69 c’è stata la riforma universitaria che consentiva di allargare e differenziare i piani di studio. In questo modo io ho modificato completamente il mio piano di studi in Cattolica, inserendo tutte le discipline psicologiche, biennalizzandole e chiedendo la tesi in Psicologia Sociale. Il professore, Giancarlo Trentini, mi ha affidato una tesi di ricerca sperimentale che lo interessava molto, e questo mi ha consentito di laurearmi con lode e di collaborare poi con l’università come assistente volontaria addetta alle esercitazioni.

Per poter fare la psicologa avrei dovuto iscrivermi alla scuola di specializzazione. I corsi di laurea in psicologia di Padova e Roma stavano nascendo in quel periodo. Io ero già laureata, a Milano c’erano due scuole di specializzazione che nel 1971 avevano chiuso per timore della contestazione. L’unica aperta in Italia era all’Università degli Studi di Torino.

Nonostante l’altissimo numero di domande sono stata ammessa alla scuola e per tre anni ho frequentato, facendo la pendolare tre giorni alla settimana. L’anno successivo ha riaperto la scuola di specializzazione in Cattolica, e una mia collega assistente mi disse che c’era una docente straordinaria che faceva delle lezioni molto interessanti.

Si trattava di Mara Selvini Palazzoli, che era appena tornata dagli Stati Uniti con Boscolo, Cecchin e Prata, aveva appena pubblicato Il mago smagato (Selvini Palazzoli M., et al., 1976) sul ruolo dello psicologo nella scuola e stava scrivendo Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli M., et al., 1975). Questo è stato l’incontro più importante della mia vita perché mi ha messo precocemente in contatto con la teoria generale dei sistemi all’inizio della mia professione. 

Infatti la Selvini ci fece per prima cosa studiare molto seriamente libri scientifici sulla teoria generale dei sistemi: Miller e von Bertalanffy (Bertalanffy L.V., 1956). Parallelamente a Torino c’era un professore, Mario Pollo, anche lui sistemico, che essendo ingegnere, ci faceva approfondire ancora di più gli aspetti scientifici della teoria dei sistemi.

Per me questo approccio è stato fondamentale perché ho capito che la teoria dei sistemi è una chiave di lettura dell’universo, all’interno della quale possiamo comprendere una serie di altre cose anche differenti. Selvini parlava della famiglia come sistema naturale con storia. I sistemi vanno dal micro al macro e hanno caratteristiche comuni. Questo consentiva di leggere come all’interno della famiglia fossero fondamentali le relazioni. Ogni cambiamento (nascita, morte, separazione e altri cambiamenti) modificava la struttura delle relazioni familiari. Questo approccio apriva a una lettura diversa della realtà e ad una comprensione delle problematiche familiari rivoluzionaria rispetto agli anni precedenti.

Mara Selvini Palazzoli affiancava, alle spiegazioni scientifiche molto dettagliate, le esperienze cliniche che andava facendo, sia rispetto all’intervento dello psicologo nella scuola, sia nel lavoro con le famiglie patologiche. Ci raccontava che, avendo fatto la psicanalista per molti anni e avendo già scritto un libro sull’anoressia mentale, non era soddisfatta dei risultati ed era andata negli Stati Uniti proprio per capire meglio l’approccio sistemico del gruppo di Palo Alto in California.

Dopo la teoria dei sistemi, la Selvini ci ha proposto una lettura approfondita della Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlavick e collaboratori (Watzlavick et al., 1967), che io avevo già conosciuto ai tempi dell’università nella prima edizione americana. Questo libro è stato fondamentale perché ha mostrato in modo molto chiaro come la teoria dei sistemi si ponesse di fronte alle problematiche psicologiche e psichiatriche. Infatti, allargando il campo di osservazione dall’individuo alla famiglia, era possibile comprendere una serie di problematiche che non potevano essere comprese focalizzando l’attenzione solo sul singolo. Fondamentale è stato lo studio degli assiomi della comunicazione, che io ancora ora ritengo importantissimi. Rimango sempre colpita dal fatto che molti colleghi parlino della Pragmatica della comunicazione umana come di un libro superato, perché ritengo che la comunicazione patologica sia un concetto fondamentale da tenere sempre in grande considerazione. Il libro teorizza l’idea che la comunicazione è circolare e non lineare e quindi anche la causalità è circolare e non lineare. L’idea che ognuno di noi fa un’interpunzione personale in una sequenza di eventi significa che quando raccontiamo qualcosa partiamo da un punto, ma questo è il nostro punto, che potrebbe benissimo essere capovolto o visto in altri modi. Queste teorie, che fanno comprendere cos’è la comunicazione patologica, mi sono servite in seguito per approfondire il tema di come potrebbe essere la “comunicazione sana”, che è quella che dovrebbe regolare le relazioni umane.

Soltanto in un secondo tempo la Selvini ci ha proposto di affrontare Bateson. Infatti, la pubblicazione italiana di Verso un’ecologia della mente (Bateson G., 1976) è stata successiva ai due libri precedentemente citati. Avere studiato prima la teoria generale dei sistemi e poi la Pragmatica della comunicazione umana ci ha permesso di comprendere meglio il pensiero di Bateson.




L’approccio sistemico nella mia vita professionale


Con questo bagaglio culturale ho iniziato a lavorare nei Servizi Pubblici della Provincia di Milano nel 1975.

Inizialmente lavoravo in un centro di Abbiategrasso, che faceva capo a un Consorzio Sanitario di 11 comuni. All’epoca c’erano pochi Servizi e pochissimi operatori sparsi con compiti diversi, provenienti da differenti amministrazioni. Nel frattempo a Roma era uscito anche il libro di Cancrini Bambini diversi a scuola (Cancrini L., 1974). 

Facendo riferimento a questo nuovo libro e a Il mago smagato ho iniziato a collaborare con altri colleghi, in un momento in cui gli enti per cui lavoravamo erano in una fase critica e non si stavano occupando attivamente dell’organizzazione dei servizi che ci sarebbe stata nel periodo successivo. Quindi eravamo in uno “stato nascente” in cui ci sentivamo attori protagonisti di un cambiamento importante, “andando alla “conquista del territorio”. In quel momento, l’incontro con l’approccio sistemico dava una dignità scientifica ad un lavoro che altrimenti rischiava di sembrare solo una scelta politica. Abbiamo dato vita un’equipe che facesse prevenzione, lavorando con gli educatori, dai nidi alle scuole materne, elementari e medie, e organizzando un lavoro strutturato anziché piccole attività individuali nei vari Comuni. È stato un lavoro importante perché la psicologia usciva dagli studi privati degli psicanalisti e degli psicologi per affrontare il territorio. Avere alle spalle la teoria dei sistemi permetteva di affrontare le situazioni complesse in modo diverso con i bambini, con gli insegnanti, con le famiglie, e anche con i colleghi e con le istituzioni.

Nel frattempo il fermento culturale cresceva, e l’approccio sistemico a Milano conquistava sempre più colleghi. All’ospedale di Niguarda era stato aperto un Centro di Terapia Familiare, e Burbatti e De Peri avevano aperto un corso di Terapia Familiare Sistemica. La Provincia stessa aveva organizzato un corso per gli operatori, al quale erano intervenuti grandi personaggi internazionali come Virginia Satir e Salvador Minuchin. Nel frattempo, dal ‘71 al ‘79 ho continuato a lavorare all’Università Cattolica come assistente di psicologia sociale, dove conducevo gruppi sull’intervento sistemico nel territorio. Ho seguito la Selvini per tre anni con il gruppo dell’università, un’esperienza che per me è stata fondamentale sia per l’apporto teorico che per la supervisione che ho ricevuto all’inizio del mio lavoro nel Pubblico.

In seguito ho vinto un concorso del Comune di Milano e nel febbraio 1981 ho iniziato a lavorare nella periferia sud-ovest. All’inizio lavoravo in Consultorio, cercando di mettere in pratica quanto appreso e continuando a frequentare convegni, seminari e giornate di studio sistemiche. In seguito, pur lavorando, ho frequentato la scuola di psicoterapia che Boscolo e Cecchin avevano aperto dopo la separazione dalla Selvini. Al termine, nel ‘90, con altre due colleghe che lavoravano in zone limitrofe, abbiamo pensato di progettare un Centro di Terapia Familiare pubblico e abbiamo presentato il progetto in Regione Lombardia.  Quindi, insieme a un gruppo di colleghi che avevano una formazione sistemica abbiamo dato vita a un Centro di Terapia Familiare pubblico alla Barona.

Eravamo in 10 ma, considerata la complessità delle problematiche che ci venivamo presentate, abbiamo ritenuto di chiedere la supervisione di Luigi Boscolo perché ci sembrava il più vicino al nostro pensiero sia dal punto di vista teorico che emotivo. Il bando di Regione Lombardia che abbiamo vinto prevedeva un finanziamento, con il quale abbiamo creato un Centro con lo specchio unidirezionale, la videocamera e un impianto di registrazione. Per parecchi anni Luigi Boscolo è venuto nel nostro Centro, facendo supervisioni a tutti i membri del gruppo ed entrando anche nella stanza di terapia insieme alle famiglie. Luigi Boscolo è stato per me il secondo grandissimo maestro; mentre Mara Selvini mi ha dato un imprinting teorico fortissimo, Boscolo mi ha aiutata a capire come io entravo in relazione con le famiglie e con le coppie. Inoltre, l’attenzione di Boscolo era molto rivolta al linguaggio e alle modalità comunicative.

Dopo la separazione da Selvini e Prata, mentre Selvini era interessata alla ricerca sulle famiglie a transazione psicotica, Boscolo e Cecchin erano più aperti al confronto e alla formazione che veniva richiesta sia a livello nazionale che internazionale e avevano un approccio più libero rispetto a categorie diagnostiche etichettanti. Avendo lavorato per molti anni con loro, ritengo che mettessero in pratica spontaneamente, con il loro modo di comunicare, le teorie che avevano studiato ed interiorizzato in precedenza. 




Ulteriori incontri sistemici 


Poco tempo dopo l’apertura del Centro di Terapia Familiare presso il Servizio Pubblico, ho avuto la possibilità di frequentare un corso di mediazione familiare “globale” insieme ad altri colleghi, organizzato dall’Asl Città di Milano. Il Comune di Milano aveva già aperto il Centro “Genitori ancora”, creato da Irene Bernardini e Fulvio Scaparro. L’idea della mediazione familiare era nata con l’obiettivo di proteggere i figli dai conflitti dei genitori in separazione, e il Centro dava la possibilità alle coppie in separazione di affrontare il tema della comunicazione ai figli. 

Il nostro corso alla Asl partiva invece dalle esperienze sviluppate prevalentemente in Canada, in Francia, Svizzera e negli Stati Uniti e i docenti principali che abbiamo scelto per approfondire i temi proposti sono stati Annie Babu di Parigi ed Aldo Morrone di Montreal. Entrambi i docenti erano di formazione sistemica.

In particolare, Morrone portava avanti un lavoro sul linguaggio, che era simile a quello di Boscolo ma, mentre Boscolo, lavorando anche con gravi patologie, usava un linguaggio positivo allo scopo di non etichettare il paziente designato, Morrone, lavorando con coppie “normali” che si trovavano in un momento di sofferenza a causa della separazione, ci ha insegnato a trasformare le comunicazioni negative in comunicazioni positive: un concetto che io in seguito ho espresso con “passare dal negativo passato al positivo futuro”. 

Questo tipo di lavoro è molto utile in tutte le situazioni di conflitto. Ogni volta che un membro della coppia o della famiglia racconta qualcosa di negativo avvenuto nel passato recente, la domanda successiva può essere incentrata sul futuro, chiedendo per esempio: “se accadesse una cosa simile nei prossimi giorni, quale potrebbe essere la decisione migliore da prendere, diversa da quella che è stata presa ieri?”.

Un’altra nozione per me fondamentale, che abbiamo appreso da Annie Babu, è stata l’importanza di inserire in mediazione il tema economico e finanziario. Babu ci ha fatto capire che lo splendido lavoro che potevano fare colleghi competenti sulle relazioni e sulla comunicazione, talvolta veniva bloccato e interrotto da litigi sulle questioni economiche. 

La risoluzione delle dispute veniva affidata agli avvocati, che davano luogo a escalation simmetriche e ad azioni giudiziarie molto costose, sia dal punto di vista emotivo che economico, con gravissimi danni per l’equilibrio psicologico dei bambini.

L’aver capito il peso che gli aspetti economici hanno nelle relazioni familiari mi ha portata ad allargare lo sguardo a questi argomenti anche in terapia di coppia o familiare e ho scoperto che non soltanto i problemi economici possono costituire un’aggravante nella complessità delle problematiche familiari, ma che laddove ci sia una patologia della relazione, le problematiche economiche sono strettamente interconnesse e possono dare luogo a disagi molto seri. Mi sono accorta inoltre che spesso nelle famiglie più ricche questo risvolto è più rilevante e che il denaro viene spesso usato per danneggiare anziché come risorsa.

Da quelle considerazioni è nato il mio interesse specifico sulla relazione tra aspetti affettivi ed economici, che in effetti sto approfondendo da molti anni sia in mediazione familiare che in terapia. Su questo argomento tengo molti corsi, sia nel master di mediazione familiare che in altri contesti e ho intenzione di produrre uno scritto più esteso e significativo su questo argomento per dare ad altri la possibilità di proseguire la ricerca. 

Successivamente, nel Centro di Terapia Familiare del Comune di Milano, insieme al gruppo di confronto dei colleghi milanesi, dei consultori e degli altri centri di terapia familiare e di mediazione, ci siamo posti il problema di come utilizzare le conoscenze che avevamo acquisito sulla patologia della relazione con l’obiettivo di lavorare sulla prevenzione, ossia per attivare una modalità di comunicazione “sana”.

Venuti a conoscenza che a Friburgo, in Svizzera, Guy Bodenmann aveva elaborato un progetto denominato “gruppi antistress per coppie”, nel 2001, insieme ad alcuni colleghi, ci siamo recati a Friburgo per formarci su questa tipologia di intervento (Bodenmann G, Bertoni A., 2004). 

L’idea centrale è che i piccoli stress della vita quotidiana sono a volte fonte di incomprensioni e litigi e, se non affrontati adeguatamente, possono peggiorare la conflittualità di coppia e portare a situazioni più gravi. Il progetto di Bodenmann prevede di formare gruppi di sei/otto coppie, condotti da esperti appositamente formati, che si incontrano sei volte a cadenza settimanale oppure concentrati in un weekend. 

Abbiamo quindi tradotto e sperimentato questa attività nel Servizio Pubblico di Milano, con cadenza settimanale. I conduttori danno una breve spiegazione sul concetto di stress, a questa segue una discussione da parte delle coppie su come lo stress può venire affrontato. Il cuore del progetto consiste nell’attivare esercitazioni di comunicazione con le singole coppie, separatamente, dando prima delle regole di “comunicazione sana”.

A turno, in esercitazioni di mezz’ora, ognuno dei partner si pone in relazione all’altro seguendo le regole dell’ascolto attivo: un partner fa l’emittente, cioè la persona che enuncia un problema circoscritto, inizialmente esterno alla coppia e successivamente interno, mentre l’altro partner deve esercitare un “ascolto attivo”. Sono proibite le generalizzazioni, l’accenno ad altre persone o ad altri episodi. Il risultato più sorprendente è che con questo tipo di esercizio le persone cercano di capire qual è l’emozione forte sottesa al malessere evidenziato a fronte di eventi che paiono poco rilevanti a chi ascolta. 

Lavorando con coppie non problematiche, la cosa che succede più frequentemente è che, a fronte di un problema enunciato da uno dei due, l’altro si attiva dando “buoni consigli”.

Anche questa esperienza è stata molto congruente con la precedente formazione sistemica, ed è una modalità che a volte utilizzo con le coppie, sia in terapia che in mediazione familiare.



Come utilizzo la sistemica nel mio lavoro


Negli ultimi vent’anni mi sono dedicata prevalentemente alle coppie, sia nelle terapie di coppia che nelle mediazioni familiari in caso di separazione e divorzio. L’approccio alla famiglia come sistema è alla base della lettura trigenerazionale, che faccio sempre quando incontro una coppia. 

Il primo lavoro consiste sempre nella condivisione della valutazione della crisi. L’idea di fondo è che una coppia si co-costruisce e anche le fratture nella relazione sono in qualche modo co-costruite. 

Da Boscolo ho imparato a mettere in atto una modalità di colloquio interattivo che, partendo dall’ascolto delle persone, pone sempre domande in relazione a quello che le stesse affermano, utilizzando prevalentemente il loro linguaggio e le loro parole o modificandole in positivo quando sono negative. 

A ogni descrizione della situazione fatta da un membro della coppia segue una domanda circolare o relazionale all’altro membro sul tema espresso. Per esempio: “Sua moglie ha detto che dopo il parto non si sentiva vista come donna. In quel momento lei se ne era accorto?”. A questo segue una restituzione a entrambi che implica un riconoscimento di quanto ognuno dei due abbia in modo diverso sofferto, o comunque abbia partecipato con una componente personale o abbia fatto quello che pensava giusto fare. Questo intervento serve per “mettere pari i dispari”, cioè restituire uguale dignità nella differenza e permette alla coppia di comprendere che la situazione in cui si trovano ora è qualcosa che è stato costruito insieme. 

Ciò a cui dò molta importanza e che perseguo costantemente con le coppie è l’uso del linguaggio, delle parole, e della “comunicazione sana”. Questo permette di abbassare il livello di conflittualità, mettendo le coppie in condizione di parlare con calma e di pensare serenamente, per quanto sia possibile, a quello che in realtà desiderano. In particolare, è molto importante capire se alla base del conflitto ci sia la decisione di separarsi da parte di uno dei membri della coppia o di entrambi. 

Credo che non sia possibile fare una terapia di coppia quando uno dei due partner intende separarsi. Per fare una terapia di coppia deve esserci una minima volontà di entrambi di voler provare a far funzionare il rapporto. Invece, anche se uno solo dei partner sta pensando alla separazione, è molto importante aiutarlo ad esplicitare chiaramente la sua decisione, in modo da poterli inviare al più presto possibile a una mediazione familiare, soprattutto in presenza di figli, perché la precocità dell’intervento previene il peggioramento della relazione e della escalation simmetrica che si manifestano spesso quando le persone si rivolgono ad avvocati “di guerra”. 

Quando c’è tensione o rabbia che impediscono di riflettere con calma, è possibile attivare l’azione di “pronto soccorso emotivo”. Si possono proporre alcune regole della “comunicazione sana”, che ho appreso sia dagli studi fatti sulla teoria sistemica e sulla patologia della relazione, sia dagli insegnamenti di Guy Bodenmann sulla comunicazione in situazioni di stress.

Come utilizzare l’approccio sistemico per migliorare la comunicazione umana


Come ho raccontato in precedenza, la mia attività professionale è stata prevalentemente centrata nel lavoro con le coppie e le famiglie in differenti contesti, pubblici e privati.

Il concetto più importante che ho tratto dall’approccio sistemico è il concetto di patologia della relazione. L’esempio più significativo è quello del doppio legame, vale a dire quando la comunicazione verbale è in contrasto evidente con la comunicazione non verbale. Noi allievi all’inizio eravamo preoccupati nel riscontrare alcune modalità comunicative simili nelle nostre famiglie di origine, ma Mara Selvini insisteva sul fatto che la differenza tra relazione sana e relazione patologica risiedeva nell’intensità e nella frequenza delle comunicazioni patologiche all’interno di relazioni altamente significative. Nella vita quotidiana ci sono dei momenti in cui tutti noi commettiamo degli “errori di comunicazione”. È come il sale e il pepe nella minestra. Un pochino dà sapore, ma l’eccesso può essere velenoso.

Un altro concetto fondamentale è che le relazioni si co-costruiscono in una sequenza continua di modalità alternativamente simmetriche o complementari. È la rigidità che contribuisce a creare patologie: quando c’è un’escalation simmetrica che non si interrompe oppure una complementarietà rigida dove uno è dominante e l’altro dominato. 

Le sequenze patologiche possono essere interrotte con una meta-comunicazione, cioè comunicando su ciò che avviene nella comunicazione. Quindi, bloccando la sequenza negativa e parlandone. Per esempio possiamo dire: “Parliamo di ciò che sta succedendo tra noi”. Altrettanto negative sono le generalizzazioni, per esempio le frasi tipo: “Tu sei sempre così, tu fai sempre questa cosa”. Negativo é parlare a nome di qualcun altro: “Se fai così, tuo padre ne soffrirà oppure si arrabbierà”. Ci sono persone che non dicono mai: “A me non fa piacere questa cosa”. Quindi comunicare in modo sano è parlare sempre a nome nostro e mai di qualcun altro, dire “io” e non “tu”. Un altro elemento importante è la frequenza con cui le persone utilizzano termini negativi, quindi non solo le parolacce o gli insulti, ma anche i termini che contengono un aspetto negativo. Il cambiamento avviene quando ci sforziamo di utilizzare termini positivi.

Ovviamente non è sufficiente la nostra modalità di comunicazione, perché molto importante è anche l’attenzione che poniamo di fronte alla comunicazione dell’altro, la curiosità e l’interesse per le persone.

Questi aspetti possono essere affrontati sia dai terapeuti che dagli operatori sociali in generale. È importante che gli stessi facciano molta attenzione all’utilizzo del linguaggio e della comunicazione, attivando nei loro colloqui modalità comunicative che aiutino i membri della coppia o della famiglia a tradurre in positivo le affermazioni negative, ad esempio con questo genere di domande: “Come potrebbe aiutare suo figlio a…?”. 

Questo tipo di lavoro, che io faccio da anni con le coppie e le famiglie, ma anche con gli allievi dei miei corsi, potrebbe essere trasferito in quella che ora viene definita “educazione ai sentimenti”. Negli anni ‘80 e ‘90 avevo attivato, con altri colleghi, gruppi con gli insegnanti proprio per aiutarli a gestire nelle classi delle attività volte ad educare gli allievi all’ascolto interattivo.


Purtroppo questo tipo di comunicazione è abbastanza assente nella nostra società e nei dibattiti politici e televisivi. Pertanto io credo che un obiettivo che tutti noi potremmo darci è di diffondere il pensiero sistemico all’esterno del nostro piccolo circuito, per dare un contributo alla società, al miglioramento della qualità della vita di tutti e all’eliminazione o alla riduzione della violenza e dei femminicidi.



Bibliografia