Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

Muovermi in un multicolore universo di storie


di Silvia Luraschi

PhD in Scienze della Formazione, Pedagogista,
Counselor e Insegnante di Metodo Feldenkrais
Socio Ordinario AIEMS, Roma

Foto di selassie da Pixabay

Sommario

L'articolo racconta l'incontro dell'autrice con il pensiero sistemico attraverso una pratica di scrittura d'esperienza ispirata dagli studi della femminista afroamericana bell hooks. La narrazione dialogica a partire da sé, grazie all'utilizzo di un io letterario, si fonda sull'evidenza scientifica dell'unità di corpomente. Esplora tre tappe fondamentali della vita dell’autrice: l’infanzia, gli anni universitari e la sua attualità di pedagogista. Nel dialogo biografia e professione s'intreccino generando pensiero radicato nel corpo.


Parole chiave

corpomente, pedagogia critica, femminismo.


Summary

The article recounts the author's encounter with systemic thinking through a writing form experience practice inspired by the studies of African American feminist bell hooks. The dialogic narrative from self, using a literary self, is grounded in the scientific evidence of body-mind unity. It explores three milestones in the author's life: her childhood, her university years, and her actuality as an adult educator. In the dialogue biography and profession intertwine generating thought rooted in the body.


Keywords

bodymind, critical pedagogy, feminism.

 

Come donna non ho paese. Come donna non voglio nessun paese.

Come donna, il mio paese è il mondo intero.

 

(Virginia Woolf)

 

 

Partire da sé: una scrittura esperienziale

 

Per rispondere all’invito ricevuto dalla redazione della rivista desidero cimentarmi, per la prima volta, in una pratica di scrittura proposta dalla femminista afroamericana bell hooks nel saggio Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà (Meltemi, 2020). Qui la pensatrice, all’anagrafe Gloria Jean Watkins (1952-2021), realizza un dialogo che definisce “scherzoso” (bell hooks, 2020, pag. 80) tra sé e sé, nel quale la Watkins intervista il suo io letterario bell hooks, per parlare della relazione con il pedagogista brasiliano Paulo Freire (1921-1997) e il suo lavoro. Lo fa, ci spiega, perché il dialogo le consente un’intimità – una familiarità – che non è possibile ottenere nella forma del saggio: “E in questo modo ho trovato il modo di condividere la dolcezza, la solidarietà di cui parlo” (bell hooks, 2020, pag.80).

 

Descrivere come l’approccio eco-sistemico stia influenzando la mia parabola di ricerca e di pratica professionale (questo è in sintesi l’invito di scrittura al quale proverò a rispondere), significa far accedere chi legge a eventi toccanti, quanto ordinari, della mia vita connotati dalla sensazione di ritrovarmi finalmente a casa, ovvero qualcosa di simile all’esperienza di intimità, familiarità, dolcezza e solidarietà di cui parla bell hooks.

 

Assumendo, per gioco, che io possa come lei avere un io letterario, proverò a condividere il racconto di alcuni momenti nei quali ho avuto un insight sull’influenza dell’approccio eco-sistemico (Bateson, 1984) nella mia vita. La fluidità nella scrittura, ve lo anticipo, a differenza che per bell hooks, non è proprio il mio forte perché vivo con un walkman nella testa. I miei pensieri sono intrecciati uno all’altro, così scrivo come se le frasi fossero una collana di perle, dove a ogni perla corrisponde una questione che si collega all’altra; io il filo ce l’ho nella testa, ma capisco che chi sta leggendo può sentirsi disorientatə, portato a spasso verso non si sa bene dove e chiedersi: “ma questo cosa c’entra con quello che ha scritto una riga sopra?”. Nel dubbio, fatevi una risata pensandomi, che male non ci fa. Anzi, l’umorismo nella comunicazione umana - ci insegna Gregory Bateson - ci permette quella sana “libertà di parlare in modo assurdo, di ammettere alternative illogiche” (Bateson, 2006, pag. 9) che - continua - “è essenziale per le relazioni umane soddisfacenti” (Bateson, 2006, pag. 9).

Non da ultimo, la mia mente ama le inferenze, quei varchi apparentemente lasciati vuoti dai nessi logici, ma in realtà riempiti dal mio corpo pensante, dalla mia mente che radica nel corpo.

Prima di iniziare la pratica di scrittura desidero esplicitare che devo a bell hooks la commozione di leggere nelle sue pagine come condividere - con un lessico simile a quello del parlato - le proprie epifanie, possa rappresentare un modo per smarcarsi dal linguaggio specialistico, spesso inaccessibile, del sapere accademico, che ho ravvisato anche nella teoria sistemica, per condividere pensieri complessi con un linguaggio comprensibile a una platea ampia di persone. Scrivere in modo colloquiale è dialogare corpo a corpo con chi legge.

Lo voglio dire: senza le pratiche di scrittura femminista, che partono dal corpo di noi donne, il pensiero ecologico sarebbe rimasto per me qualcosa di astratto a cui arrivavo, come vedrete più avanti, da sempre con l’intuito, senza avervi pienamente accesso con il sentire corporeo e totalmente inaccessibile nella scrittura.

Attualmente sto studiando tutti i testi di bell hooks, nella traduzione in italiano, e vorrei che mi immaginaste come sono ora seduta al tavolo della mia cucina – non ho una stanza che fa da studio – con addosso un pigiama con le foglie autunnali disegnate sui pantaloni,

un maglione di lana color lilla sopra e i capelli corti con i riccioli per aria. Non è molto che mi sono alzata e, come accade da mesi ormai, da qui posso sbirciare sul comodino un libro di bell hooks. Quando riesco studio la sera e mi addormento immancabilmente con un suo libro in mano e la luce del comodino accesa. Spero che questo renda l’idea dell’amore e della dedizione che sento verso l’imparare.

Imparare è per me aprire il cuore e disvelarmi per come sono a me stessa, agli altri e al mondo.

 

Per stare al gioco proposto dalla femminista ho dovuto trovarmi un io letterario, così per trovare l’ispirazione e l’ardire ho studiato come Gloria Watkins divenne bell hooks durante gli anni universitari. Ce lo spiega bene Mackda Ghebremariam Tesfau’, ricercatrice sociale italo-eritrea attivista e femminista, che in una nota nella sua Prefazione “Aspettando Gloria” all’edizione italiana di Insegnare a trasgredire (bell hooks, 2020), segnala che lo pseudonimo richiama il nome della bisnonna materna della Watkins, Bell Blair Hooks. Questa scelta, ci spiega, rimanda a una tradizione in uso nel composito mondo afroamericano e afrocaraibico che intende sia rendere omaggio agli avi che riscattarne contemporaneamente le vite vissute in schiavitù. Inoltre, sottolinea Ghebremariam Tesfau’ come la scelta di usare le iniziali in minuscolo sia fatta in parte per distinguere il nome da quello della bisnonna, ma - e qui sta il coraggio gigantesco e la forza dirompente della Watkins, a mio sentire - “per sancire un predominio del messaggio rispetto al messaggero, dell’idea sull’identità” (Ghebremariam Tasfau’, 2020, pag. 16).

Accedere al multi-sfaccettato significato dello pseudonimo mi ha innanzitutto profondamente emozionato perché, provenendo da una genealogia di soggetti oppressi e sfruttati, l’idea di poter con le mie parole riportare in vita la forza e il coraggio che gli abbracci dei miei nonni - in particolare della mia nonna materna -  mi hanno lasciato in eredità mi ha pacificato. Non potete immaginare quante volte nella mia vita mi sono chiesta perché mia nonna non abbia potuto lasciarmi niente di scritto per ricordarmi di lei.  Dall’altra l’utilizzo delle lettere minuscole mi ha illuminato sulla possibilità di evitare il rischio del “guardarsi il proprio ombelico” che le pratiche autobiografiche portano con sé, pericolo che ho imparato ad annusare grazie alla vicinanza e all’amicizia con un’altra donna - Laura Formenti - a cui devo l’incontro con la ricerca sistemico-critica (Formenti & Cino, 2023) e che non posso per onestà di cuore e d’intelletto non nominare.

Non scrivo di me per ripiegarmi sulla mia storia personale, per celebrarla, ma per farla uscire dalle mie viscere e metterla alla luce. Per partorirla e lasciare che divenga altro da me, con la speranza che possa incontrarvi e trasformarsi grazie al nostro incontro.

 

 

 

Un fiore parla a tuttə

 

Luraschi: Ancora non hai scritto qual è lo pseudonimo che ti sei scelta. Puoi condividerlo e raccontarci perché la nonna materna a cui ti richiami ha segnato la tua vita così profondamente?

cila sogno: Non è semplice trovare le parole per raccontare la relazione con mia nonna Rosina Zogno (1913-2002) perché la nostra forma di comunicazione principale erano i gesti d’amore e non le parole. Lei, contadina del Polesine, facendo parlava. Aveva una relazione particolare con la terra e i sogni. Sono cresciuta osservando come sapeva intrattenere conversazioni a volte silenziose, altre volte nel dialetto degli abitanti cresciuti nei paesini intorno ad Adria (RO), con le piante che coltivava, in special mondo teneva moltissimo alle violette di campo che riusciva a far crescere nei vasi del giardino di casa. La scelta di trasformare la Z del suo cognome in una S minuscola nel mio pseudonimo nasce sia da questo che dal fatto che sono dislessica e che confondo questa due lettere. A tutto questo si aggiunge il suggerimento di un’amica, ma andiamo avanti. La nonna parlava anche con il cibo che cucinava per me e con la statua della Madonna posta in una piccola grotta poco fuori la porta della sua casa. Faceva discorsi anche con il nonno, anche se era morto da anni, e mi raccontava delle persone incontrate in sogno come se non esistesse una distinzione tra gli incontri reali e quelli avvenuti di notte nei sogni. Qualcuno potrebbe essere tentato di ipotizzare una diagnosi con DSM-5 alla mano per lei e di conseguenza per me che ne scrivo con ammirazione, ma vi chiedo di provare a leggere questo racconto provando ad assumere il punto di vista di una donna contadina semi-analfabeta, ma non per questo ignorante, che ha vissuto non a contatto con la Natura, come faccio io quando vado a fare le mie passeggiate nel bosco o le mie nuotate nel lago, ma nella Natura.

Per mia nonna ogni creatura vivente era viva e aveva un pensiero. Mia nonna era una portatrice sana della saggezza delle nostre civiltà contadine che ha saputo resistere, nonostante traumi e strazi devastanti, alla industrializzazione e alla migrazione. Era una donna rappresentante della campagna povera, una donna che Nuto Revelli avrebbe definito l’Anello forte (2018).

Il suo modo di pensare l’ho ritrovato recentemente in un saggio etnografico che nel 2014 ha vinto il prestigioso Gregory Bateson Prize e che ha sollevato sia interesse che critiche. L’autore, l’antropologo statunitense Eduardo Kohn (2021), sostiene che le foreste pensano a partire dalle sue ricerche con i popoli nativi dell’Amazzonia. Kohn racconta svariati episodi accaduti durante i suoi viaggi di ricerca ospite della gente della foresta di Ávila, chiamati Runa, mostrando come “l’ascolto etnografico è una pratica che cerca di aprirci all’inaspettato, lasciando da parte gli schemi con cui, di norma siamo soliti pensare” (Kohn, 2021, pag. 29). In un episodio racconta come un uomo nativo, Juaniku, riesca a comunicare con le formiche accedendo non solo al loro universo comunicativo, ma anche ad altre creature legate a loro. Questa comunicazione produce un risvolto pratico direttamente osservabile dal ricercatore: l’uomo, comunicando con le formiche, riesce a comprendere l’esatto momento della notte in cui le formiche alate si sarebbero levate in volo attirate dalle lanterne di cherosene da lui accese al momento opportuno. In particolare, il ricercatore racconta di come Juaniku emetta dei fischi come una sirena spiegando poi che questo suono viene da loro riconosciuto come “il richiamo delle loro madri” (Kohn, 2021, pag. 161) riuscendo in questo modo a raccogliere una grande quantità d’insetti e dunque di cibo.

È particolare come io ritrovi spesso nei libri il pensiero di mia nonna. Un pensiero che

rimane a tratti totalmente misterioso per me. Non ho mai capito cosa significasse per esempio il soprannome Cila che mi aveva assegnato perché non mi ha mai voluto spiegare cosa significasse. Ero Cila come era, per fare solo uno tra tanti altri esempi, Ferulia - un altro nome che non esiste - la sua figlia maggiore. Lei stessa, che si chiamava Rosina all’anagrafe, si è sempre fatta chiamare Paola, detta Paolina per via della sua statura minuta. Ipotizzo che la possibilità di avere un nome diverso da quello che sta scritto sulla carta d’identità, elemento che hanno in comune tre dei suoi quattro figli, derivi dal fatto che nel suo mondo i documenti non esistevano. La sua era una cultura prevalentemente orale in cui le storie si raccontavano attraverso i rituali familiari e i nomi corrispondevano al suo sentire, un sentire che non aveva accesso, nella sua esperienza, né all’ufficio dell’anagrafe né al registro dei battesimi.

Pur avendo partecipato attivamente alla Resistenza – contribuendo personalmente “al più grande salvataggio collettivo della storia d’Italia” (Tobagi, 2022, pag. 10) nascondendo soldati, sfamandoli e rivestendoli nell’autunno del 1943, quando giovani di diverse nazionalità, tentavano di sfuggire alla guerra: “anche tedeschi che non volevano più combattere e che piangevano come bambini davanti a una tazza di latte e un pezzo di pane secco” (trad. in italiano, ricostruita nella mia memoria) mi raccontò più volte la nonna a colazione – lei era cresciuta in una cultura profondamente patriarcale. Alle donne come lei non solo non era concesso studiare, anche se i soldi per studiare, nel caso della sua famiglia, non c’erano per nessuno, ma anche l’accesso alla vita pubblica era limitato. Sicuramente non è stata la nonna a registrare il nome delle sue figlie all’anagrafe o quello di suo figlio e anche i nomi da dare loro al battesimo pare li scelsero i padrini, non lei. Erano diversi da quelli dell’anagrafe. La cosa fantastica è che poi, nella pratica lei facesse di testa sua.

L’incontro con la complessità della vita di mia nonna, una nonna che solo quest’anno grazie agli studi sulla resistenza delle donne della storica Benedetta Tobagi (2022), ho potuto definire a pieno titolo Partigiana riconoscendo nel racconto storico della Tobagi le esatte stesse scene impresse nella mia memoria di bambina che a colazione ascoltava, non so bene per quale motivo, le avventure incredibili della nonna e del nonno durante la II Guerra Mondiale. Una nonna che parlando con le piante, in particolare con i fiori, e con i personaggi che visitavano i suoi sogni mi ha dato le chiavi d’accesso della porta dell’immaginazione, insegnandomi che possiamo coltivare possibilità impensabili nella nostra vita.

 

Luraschi: Hai scritto molto, puoi provare a sintetizzare in due righe qual è l’insegnamento eco-sistemico che ha ricevuto in dono da lei.

cila sogno: La sensibilità della nonna alle relazioni con l’umano e il mondo oltre l’umano mi ha mostrato che il pensiero non è qualcosa di necessariamente astratto, ma può essere in contatto con tutti esseri viventi. Grazie a lei io mi sono sempre sentita parte di un mondo ampio. Riconoscendo nella nonna una grande saggezza ho avvertito, senza bene riuscire a dare nome a questo processo mentale perché non ne avevo le basi teoriche, che la conoscenza è innanzitutto corporea, biologica, incarnata.

 

 

Il pensiero è un’azione

 

Luraschi: Facciamo un salto cronologico enorme e dalla tua infanzia passiamo all’adultità dritto per dritto, così ti chiedo di raccontarci quando hai letto per la prima volta un articolo della rivista per la quale stai scrivendo.

cila sogno: Studiavo all’università Scienze Pedagogiche e dopo essermi infilata per coincidenze fortuite in un tirocinio all’interno dell’Ateneo di Milano Bicocca ero stata invitata a pensare di scrivere la tesi su quell’esperienza. Il tirocinio consisteva nel progettare e realizzare attività di orientamento peer-to-peer fondate sull’epistemologia sistemica che in quegli anni Laura Formenti (2019) stava mettendo a punto insieme a una giovane ricercatrice (Formenti & Vitale, 2016). Laura - ci siamo fin da subito date del tu e questa sua apertura ha rappresentato per me un momento di svolta nella mia relazione con il sapere accademico: il suo stile informale, e allo stesso tempo rispettoso dell’istituzione accademica che rappresentava ai miei occhi - mi ha fatto sentire che anche io facevo parte di quel mondo pur vivendomi come un pesce fuor d’acqua, essendo la prima della mia famiglia ad avere accesso agli studi universitari.

Se Paolina si era fermata alla terza elementare, mia madre e mio padre non erano potuti andare oltre la terza media e sono stati sempre molto spaventati dal mio desiderio di volere studiare perché sentivano legittimamente di non potermi garantire quel sostegno non solo economico, ma anche rappresentato dal capitale sociale (Bordieu, 2001), necessario per emanciparmi - questo era il loro punto di vista - dalla classe operaia di cui facevo parte. Ma torniamo al punto.

In quel periodo Laura aveva appena pubblicato un articolo sul tema dell’orientamento in università sulla rivista, così, dovendo iniziare a pensare a come sviluppare il mio pensiero nella tesi, avevo accolto il suo suggerimento di cercare l’articolo e di dare anche un’occhiata a tutto il numero. Il numero di Riflessioni Sistemiche era il numero 1 ed era dedicato a “Il tema dell’incertezza nel pensiero sistemico”. Un tema, quello dell’incertezza, che io avrei poi definito come dis/orientamento (Luraschi, 2013; Luraschi & Formenti 2016), un momento di evoluzione esistenziale che poteva essere letto come sacro nell’ottica batesoniana (Bateson & Bateson, 1989). Utilizzo la barra obliqua per rappresentare il dis/orientamento per evidenziare come orientamento e disorientamento siano due possibili, e sempre parziali, letture di un unico processo più ampio (Formenti et al, 2015). Dove il dis/orientamento può orientare e l’orientamento può disorientare (Formenti et al, 2017).

 

Luraschi: Cosa ha significato per te approfondire le teorie sistemiche?

cila sogno: Mi ha letteralmente cambiato, lentamente e inesorabilmente, la vita. Mi sono aggrappata alla curiosità e alla sensazione di benessere che le teorie della complessità e poi la lettura dei testi di Gregory Bateson mi davano. Non capivo quasi nulla, intuivo qualcosa, ma la cosa meravigliosa è che mi divertivo. Certamente ero disorientata, ma era un tipo di disorientamento diverso da quello che conoscevo. Era di una qualità, di una pasta diversa. Dicevo, wow qui c’è qualcosa di autentico, si parla con un linguaggio tutto diverso di quello di cui mi parlava la nonna. E soprattutto le teorie avevano una ricaduta pratica e concreta nella vita delle persone.

Nei laboratori inizialmente chiamati Parliamone, poi LAB’O (Laboratori dell’Ateneo Bicocca per l’Orientamento), dove il cambio del nome fu dettato proprio dalla scelta di rendere più esplicita la dimensione dell’azione, si realizzavano della attività concrete: disegnavamo, creavamo dei giochi interattivi, ingaggiavamo i/le partecipanti in esperienze corporee o in esperienze di fruizione museale e artistica. Nel giro di due ore, due ore e mezza osservavo le studentesse e gli studenti riposizionarsi rispetto alle idee iniziali sul loro futuro che avevano condiviso all’inizio dell’incontro. Le persone erano diventate disponibili non solo a mettersi in discussione, ma a ripensare l’idea che avevano di loro. Cambiavano il punto di vista sul loro sé e questo era fantastico, perché più lo osservavo in loro più io sentivo dentro di me che tutte le mie insicurezze si stringevano per fare spazio a qualcosa di nuovo: il piacere di pensare insieme agli altri e di comporre le mie idee con quelle di chi mi stava intorno. Sentivo che pensando insieme riuscivo a rendere praticabile nel quotidiano quella disponibilità ad imparare che osservavo intorno a me.

 

 

La consapevolezza corporea

 

Luraschi: Conoscendoti so che, quando dici/scrivi sentire stai facendo riferimento alle sensazioni corporee, ma non credo che questo sia così evidente a chi legge. Forse questo verbo evoca il concetto di vissuto nella chiave interpretativa della psicologia clinica, così ti chiedo di evidenziare come nella tua parabola di ricerca il corpo si connette indissolubilmente con le teorie e l’epistemologia eco-sistemica.

cila sogno: Durante gli stessi anni dell’università, avevo deciso di interrompere un percorso di psicanalisi perché sdraiata sul lettino a guardare il soffitto non riuscivo a trovare le parole per raccontarmi. Sentivo che le parole erano bloccate nella pancia e nella gola ed erano come incastrate. Non uscivano nonostante tutto l’impegno, il dolore e lo sforzo che ci mettevo.

In quello stesso periodo ho sentito parlare per la prima volta della psicoterapia bioenergetica dal giovane che era allora mio marito. Insieme abbiamo per diversi anni partecipato a classi di esercizi di bioenergetica prima che mi sentissi pronta per interrompere la psicoanalisi e iniziare un percorso a indirizzo psico-corporeo. Sentire il corpo, vivermi fino in fondo mi atterriva perché negli anni il mio corpo comunicava con me, mi sembrava, solo attraverso tensioni, dolori, somatizzazioni e malattie. Avevo una grande paura d’incontrarmi. Devo alla psicoterapeuta con la quale avevo iniziato finalmente il percorso a indirizzo bioenergetico, l’invito ad andarci piano con me stessa, a cercare la via della gentilezza e della tenerezza per toccarmi. È stata lei a suggerirmi di cercare una insegnante di Metodo Feldenkrais per imparare a entrare in contatto con la struttura corporea di sostegno, lo scheletro, (Feldenkrais, 1991; 1996a) e sentire la mia forza a partire da esso (Feldenkrais, 1996b; 2007). Praticare il Metodo Feldenkrais ha significato imparare nella mia quotidianità a fidarmi di me e anche ad affidarmi alla terra (Luraschi, 2020). La terra ci sostiene e se mi sento sostenuta allora posso imparare a sentirmi libera. L’educazione come pratica della libertà è un modo d’insegnare che chiunque può imparare (bell hooks, 2020).


 

Imparare ad imparare

 

Luraschi: Mi pare che l’imparare connoti la tua ricerca e la tua pratica professionale, ci porti un esempio significativo?

cila sogno: quando ho capito che imparare era divertente, e non ne avevo più paura, mi sono tuffata a capofitto per imparare più che potevo. Con la borsa di studio del dottorato che nel frattempo avevo vinto, ho lasciato il lavoro da educatrice e ho investito praticamente tutti i miei risparmi nella formazione per diventare un’insegnante di Metodo Feldenkrais perché le teorie sistemiche volevo sentirle nel corpo. E più studiavo e praticavo più contattavo la sensazione bellissima di sentirmi viva e partecipe della vita di questo meraviglioso Pianeta. Sono oggi un insegnante del Metodo Feldenkrais, ma questo non è il mio lavoro principale. Perché ho a cuore l’educazione come azione politica e sono socia di una cooperativa sociale di educatori e di educatrici (Società Cooperativa Comunità Progetto, Milano) grazie alla quale ogni giorno mi muovo tra storie di vita dalle quali non smetto mai d’imparare.

Incontro persone che hanno esperienze migratorie incredibili (e a volte terribili) quanto emblematiche della complessità e dell’assurdità dello scenario geo-politico neoliberista post-contemporaneo;  incontro famiglie che si barcamenano con quattro soldi e abitano case, molto vicine alla mia, dove non è detto che ci sia l’armadio in camera da letto e che le luci nel cortile del caseggiato popolare funzionino alla sera quando si torna a casa stanchi dopo una giornata di lavoro sottopagato o si esce per il turno di notte. Ritengo di un valore incommensurabile avere accesso a luoghi di vita tanto vicini quanto misconosciuti della Milano che tende a marginalizzare chi vive una situazione di ingiustizia sociale. Attraverso storie e imparo a guardarle con rispetto, cerco di costudirle dentro di me per allenarmi ad avere fiducia nella vita. La marginalità è uno spazio di resistenza dove immaginare altrimenti.

 

Luraschi: La domanda precedente intendeva invitarti a raccontare, per concludere questa parabola in evoluzione di relazione con il pensiero sistemico, della tua esperienza all’interno di GRASS che so rappresentare una, forse l’unica costante, insieme al nuoto, degli ultimi dieci anni della tua/nostra vita. Dai, vai al punto…

cila sogno: Se però mi parli del nuoto io rischio di prendere di nuovo la tangente e perdermi nei miei pensieri: come sai nuotare per me è la cosa più bella che so fare e ho deciso di coltivarla proprio perché rappresenta un piacere inutile.

Non nuoto per inseguire la performance, nuoto per ascoltare la qualità dei miei movimenti e per ridere e divertirmi se nuoto insieme ad altri, o per ammirare la bellezza del mare e del lago se nuoto in acque libere. L’utilità dell’inutile è che ci rende più umani, sosteneva

Nuccio Ordine (2013) nel suo manuale sull’inutile. Ecco credo che questo si colleghi alla mia esperienza all’interno di GRASS – Circolo di ricreazione di sguardi e pratiche educative (a Philo-Scuola di Pratiche Filosofiche, Milano) che da dieci anni co-conduco insieme a Laura Formenti e all’amico e collega pedagogista sistemico Andrea Prandin. GRASS è uno spazio di ricerca-formazione, ma soprattutto di pensiero che non è intenzionalmente finalizzato all’operatività, ma che è invece declinato verso una nuova formazione alla cura (Mirabelli & Prandin, 2015). Ogni mese ci incontriamo online o in presenza, per sperimentare come dall’esperienza corporea, passando per le pratiche di scrittura ed estetiche, si possa arrivare a costruire una teoria sistemica soddisfacente e una azione deliberata nel lavoro in campo educativo (Formenti, 2017). La condivisione delle storie di vita personali e professionali vengono messe al servizio della ricerca di una teoria collettiva soddisfacente per generare una collettività di saperi, di sguardi, di teorie che poi si realizza concretamente attraverso una messa in gioco nel tempo al di fuori del contesto del Circolo che coinvolge chi partecipa a incarnare il pensiero eco-sistemico respirato all’interno di GRASS.

A GRASS la cosa più speciale per me è provare ogni volta a sottrarmi all’eccesso di finalità cosciente che caratterizza la nostra vita di occidentali medi (Bateson, 1997) per ricercare insieme come contattare concretamente respiro dopo respiro l’unità necessaria delle “cose” fondamentali che stanno alla base della vita di tutti gli organismi, ossia la struttura che connette l’intero Pianeta vivente e che parla a tutte le sue creature (Bateson, 1984). Questa pratica insieme - delle interdipendenze, delle relazioni dei sistemi con il loro ambiente e delle connessioni aperte - mi permette di reinventare la memoria della relazione con mia nonna e di promuovere una modalità di fare e pensare all’educazione ispirata ai valori che tanto ammiro in bell hooks. Connettere il pensiero ecologico di Gregory Bateson con la pedagogia critica per sviluppare una conoscenza che nasce dall’interrogazione profonda della differenza che fa una differenza, dove la differenza permette di immaginare nuovi scenari e trasgressioni ovvero movimenti “contro e oltre i confini – per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni” (bell hooks, 2020, pag. 43).

 

 

Bibliografia