Riflessioni Sistemiche n° 29


Volti molteplici di un’appartenenza

La pedagogia dell’effetto farfalla


di Silvia Montevecchi

Pedagogista, antropologa,
insegnante di scuola primaria ed esperta di educazione alla pace.
E’ stata cooperante internazionale (Africa, Haiti, Palestina)
Socio Ordinario AIEMS, Roma

Sommario 

Il racconto di come succede che – percorrendo i sentieri della vita – si diventa un’insegnante con un approccio sistemico. Come tale approccio viene applicato nella scuola primaria pubblica.


Parole chiave

Interconnessione, visione d’insieme, tessitura, laboratorialità, interdipendenza, sfondo integratore, interdisciplinarità, jam session, scrittura autobiografica, chiusura del cerchio, metariflessione. 


Summary

The story of how it happens that - following the paths of life - one becomes a teacher with a systemic approach. How this approach is applied in public primary schools.


Keywords

Interconnection, a comprehensive view, texture, laboratoriality, interdependence, integrating background, interdisciplinarity, jam session, autobiographic writing, closing of the circle, metareflection.





Quando penso alle relazioni sistemiche che regolano l’universo, oltre ai capisaldi di G. Bateson, alle riflessioni di E. Morin … e tanti altri scritti e autori di varie discipline, per decenni, mi viene per forza di cose alla mente anche l’effetto farfalla. 

Quella consapevolezza per cui anche uno dei più piccoli tra gli esseri viventi, apparentemente così fragile (basta davvero un nulla per sciupare le sue ali e renderle inutilizzabili) anche lui (o lei) ha la possibilità di spostare l’ordine delle cose. Nell’universo! 

Il più piccolo spostamento di energia, di direzione, di aria, di luce, di calore… può generare cambiamenti epocali, anche a chilometri di distanza. 

È poi ben difficile, a ritroso, capire quale sia stato quell’elemento, quella farfalla. Difficile ricostruire tutto il cammino, tante sono poi le aggiunte, le deviazioni possibili. Vale nelle scienze naturali, vale in quelle sociali. Vale anche nelle nostre singole vite.

Qual è stato il battito d’ali che ci ha spinto in una direzione piuttosto che un’altra? Non è sempre facile identificarlo. Magari ne abbiamo in mente tanti, giustamente; poiché tanti sono stati gli apporti ricevuti. E certo molto prima che potessimo averne contezza. 

Se dunque mi si chiede “come sia stato che l’approccio sistemico è entrato nella mia vita”, la risposta necessita di una riflessione non da poco, a ritroso. Come l’esploratore che va alla ricerca delle sorgenti di un fiume, quindi risale, risale, e incontra tanti affluenti, ciascuno con il proprio contributo di peculiarità (minerali, animali, botaniche…). Siamo il fiume della vita. A volte le correnti ci travolgono. Altre riusciamo a governarle (o almeno lo crediamo).

Proverò quindi a rispondere a questa domanda, e nel farlo mi pare proprio di fare un esercizio autobiografico. È come dire: come e quando sei diventato così? Come mai il tuo lavoro è impostato in questo modo? Ed è anche un bell’esercizio di autocoscienza. Perché è un po’ come se ti chiedessero come e quando hai imparato la tua madre lingua, posto che hai imparato a usarla molto prima di impararne le regole grammaticali. Usi i verbi, molto prima di sapere che si chiamano verbi. Così è, per me almeno e in buona parte, per l’uso di un “metodo” pedagogico-didattico e tanto più per dargli un nome. 

Dunque: come sono arrivata a fare in gran parte uso di ciò che possiamo definire approccio sistemico nella mia quotidiana pratica pedagogico-didattica con i bambini? Racconterò gli apporti di cui ho maggiore ricordo e consapevolezza. 


1. Certamente un primo “imprinting” ad analizzare il contesto educativo in tutta la sua complessità e con le sue tante sfaccettature mi venne proprio dalla formazione universitaria. Quando io frequentai il mio primo corso di laurea (parliamo degli anni ’80, a Bologna) la facoltà di pedagogia imponeva una divisione per ambiti, che costituivano – tutti, irrinunciabilmente – le scienze dell’educazione (da cui poi infatti la facoltà avrebbe preso il nome, ma anni dopo). Sicché venivi forgiato obbligatoriamente per analizzare i fenomeni da un punto di vista pedagogico ma anche psicologico, antropologico-culturale, sociologico, filosofico, storico. Credo dunque che anche se allora non si usava come oggi il termine complessità, certamente era insita nell’approccio. Mentre sicuramente si studiava l’approccio sistemico di Bateson, con tanto di libri suoi agli esami. Nella seconda parte del quadriennio poi, ci si specializzava in una delle varie scienze. Ho sempre avuto un bellissimo ricordo della mia formazione universitaria, anche a distanza di tempo e di chilometri, lavorando all’estero, confrontandomi con persone di provenienza molto diversa.  Sono quindi sempre stata molto grata per lo spirito che si respirava e la formazione che mi venne data in Alma Mater. 


2. Successivamente, anzi per la verità fu durante lo stesso periodo universitario, mi capitò di incontrare il gruppo che lavorava alla rivista del CEM Mondialità di Parma. Cem stava (e sta ancora) per Centro per l’Educazione alla Mondialità, e la sua sede era presso la bella casa madre dei Padri missionari Saveriani, dove tutt’ora esiste un museo delle culture che è anche stato rinnovato e ammodernato, con un cospicuo investimento, in anni recenti. Successivamente poi il CEM passò in mani laiche e cambiò sede. Ricordo quegli anni come un periodo meraviglioso: per lo scambio, il fermento culturale, gli incontri mensili per la redazione della rivista, i convegni internazionali (nei quali ebbi l’opportunità di conoscere e intervistare personaggi meravigliosi tra cui Bruno Hussar, Raimundo Panikkar, e divenni profondamente amica di Gianfranco Zavalloni). Fu lì che la “visione d’insieme” trionfò. Fu una grande palestra, per tanti di noi. 

Il filone principale della rivista era, come evidenziava il sottotitolo stesso, “l’educazione alla differenza e alla comprensione tra i popoli” – che poi guarda caso divenne anche il titolo della mia tesi di laurea, pubblicata come sussidio didattico con l’Associazione Follereau di Bologna – ma in realtà l’approccio era davvero “a 360° “partendo cioè dal principio che TUTTO è INTERCONNESSO. Che quindi non c’è pace senza giustizia, non c’è pace senza sviluppo, ma non può esserci vero sviluppo, e duraturo, senza una salvaguardia degli ecosistemi. Il lavoro di analisi e di sensibilizzazione toccava dunque tutti gli ambiti: l’educazione ambientale, la concezione di “pace negativa e positiva” alla Johan Galtung, la comunicazione nonviolenta, l’educazione ai conflitti, il teatro dell’oppresso, le cause delle migrazioni (quindi gli squilibri internazionali, le ragioni della fame nel mondo…). 

In quel periodo cominciai a lavorare come esperta di educazione interculturale e alla pace (e grazie a queste esperienze mi ritrovai anni dopo consulente Unicef, prima in Burundi poi in Ciad , ovvero nel cuore di zone in conflitto). 

Sempre in quel periodo pubblicai anche una mostra per le scuole di cui – anche dopo tanti anni – sono ancora fiera proprio per quell’approccio di interdipendenza che metteva tutto in relazione con il tutto, e solo in questo modo poteva offrire ipotesi di soluzione ai problemi del nostro tempo. Questa – almeno nei miei ricordi - l’impostazione di fondo al Cem: non puoi affrontare un problema, senza occuparti dell’insieme che produce quel problema. Ogni anno il convegno (e le riviste mensili) si occupavano di un tema in particolare, ma veniva poi analizzato e sviscerato nel modo più completo e interdisciplinare possibile. Allo stesso modo facevo io nel mio lavoro di formazione dei docenti e produzione di materiale didattico. 


3.  Negli anni a venire, vuoi per attitudine, vuoi per necessità, sul lavoro mi ritrovai sempre di più a ricoprire ruoli di coordinamento, nei quali è fondamentale avere la visione dell’insieme, e conoscere il più approfonditamente possibile anche le parti, per far in modo che tutto l’organismo (lavorativo in questo caso) funzioni al meglio. 

Può sembrare scontato detto così, ma nella pratica constatai molte volte che non lo era, e che molto più spesso le parti lavorano indipendentemente dalle altre, a compartimenti stagni, senza neanche sapere le une cosa fanno le altre. Questo quando si parla di progetti sociali è assolutamente deleterio. Io ho sempre amato il lavoro di rete. Mettere in collegamento, far comunicare. E di questo molte volte sono anche stata ringraziata, nei contesti più diversi (in Italia come ad Haiti o in Sierra Leone, in Chad… ). Per cui, col tempo, l’approccio circolare, pluridirezionale, trasversale, “complesso” e – in definitiva – sistemico, è diventato per me un modo di essere, una seconda pelle, senza neppure necessità di definizione. Non potrei lavorare diversamente. Non potrei concentrarmi su singole parcellizzazioni, ultra specialistiche. Amo la visione d’insieme.


4. Su tutto poi, è evidente che incide l’avere trascorso anni come cooperante internazionale, lavorando per Ong di aiuti umanitari sia in Italia che all’estero. Il “glocale” è per me una costante. La relazione tra il qui-e-ora, e al contempo tra questo e ciò che è lontano. Non lo vedo, ma lo sento. So che esiste, ed è dentro di me. Per questo, per esempio, anche il mio lavoro con i bambini in una scuola bolognese fa continuo riferimento a mondi altri, che ho vissuto, che sono rimasti nel mio cuore (e dove pezzi del mio cuore sono rimasti). È dunque quasi una sorta di “compresenza”. Forse solo la fisica quantistica può spiegarcela. Anche se (apparentemente) la nostra materia è in un solo luogo per volta, le energie sono aeree. Onde senza fine e senza con-fine. Quella che Recalcati chiama La luce delle stelle morte: le stelle non ci sono più, ma la loro luce continua a illuminarci, scaldarci, renderci vivi. Così è per le esperienze passate, o lontane geograficamente. Non sono visibili ai nostri occhi, ma ci sono ancora. Le portiamo addosso.


5.  Un altro apporto che mi viene alla mente a proposito della formazione professionale in chiave sistemica è relativo al mio incontro, avvenuto nel 2000, con la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, fondata da Duccio Demetrio e Saverio Tutino. Io avevo da tempo raccolto storie di vita, in Italia, in Palestina, tra i profughi saharawi, tra i rifugiati burundesi… e avevo sempre scritto molto del mio quotidiano: diari e lettere. L’incontro con la LUA (grazie all’Archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano) fu quindi determinante per il passaggio da un fare esperienziale ad un fare professionale e tecnico. 

La scrittura autobiografica da allora è entrata sempre più nel mio quotidiano, sia nel mio lavoro di cooperante prima, sia poi in quello di docente, con i bambini anche piccoli. E la pratica autobiografica a scuola ha determinato un punto di svolta. È diventata il filo conduttore, la chiave di accesso alla gestione della complessità. La tenuta di un diario, mi consente di cucire le parti, quelle che altrimenti sarebbero “palle da biliardo” sparse, senza il “tessuto che connette”. Io amo tessere. Anche in senso non metaforico (e probabilmente non è un caso). Sono sempre stata affascinata e avevo fatto corsi sin da giovanissima sull’uso degli antichi telai. Fili a volte spessi, a volte sottilissimi, che posti a intreccio creano una materia nuova, potenzialmente infinita. La scrittura diaristica è il filo che connette. La narrazione che consente di unire ciò che è apparentemente disgiunto. Creare quindi le relazioni trasversali, circolari, verticali, orizzontali, bidirezionali, divergenti… tra tutti i contenuti e tutte le discipline, nonché le esperienze.


6.  Ed eccomi all’ultimo (solo in ordine di tempo) degli apporti di cui ho contezza: è stato soprattutto l’incontro con AIEMS e i successivi confronti con il suo fondatore, Sergio Boria, a farmi prendere consapevolezza del mio “fare sistemico”. Esattamente come quando parli la tua lingua madre, ma non ti soffermi sul fatto che i verbi si chiamano verbi, le parole che indicano le cose sono nomi, quelli che li precedono sono articoli. Li usi e basta. Non hai bisogno di definirli. Fanno parte di te. Dunque sì, ho scritto molto sul mio modo di lavorare. Tra l’altro un libro intero dedicato alla pedagogia della complessità nella scuola primaria, in cui Sergio Boria mi ha curato la postfazione.

Riflettendo ulteriormente con Sergio posso dire che sì, certo: nel mio modo di lavorare – sia come pedagogista, poi come capo progetto in progetti di cooperazione internazionale, poi come insegnante di scuola primaria – il mio approccio è stato sempre decisamente, profondamente sistemico. E col passare del tempo sempre di più. Forse anche “in virtù” dell’invecchiamento, per cui lo sguardo si allontana ancor più dai singoli dettagli, per vedere il mondo nella sua interezza, nell’insieme appunto. È uno sguardo quasi aereo, che va più lontano. 


E siamo così giunti alla seconda domanda: ma questo fare sistemico, come si esplicita nella tua pratica quotidiana? Cosa vuol dire attuare un approccio sistemico insegnando a bambini tra 6 e 10-11 anni

La risposta a questa domanda è un po’ più difficile della prima, poiché nel primo caso posso scegliere quanto meno, per la narrazione, un ordine cronologico. Ora no: è proprio una risposta “a rete”, come in qualunque sistema appunto. Di conseguenza, non c’è un centro con le relative periferie; non vi è esattamente un prima e un dopo, né un tassativo ordine di priorità. Ci sono i fili. E gli intrecci. Ed è una rete tridimensionale, con molti livelli, interscambi. 

La didattica è solo una parte. Di questa, fanno parte i metodi e i contenuti. Poi però c’è tutta una parte valoriale, educativa, che si esplica anche al di fuori dei contesti strettamente didattici: in mensa, in autobus, nei rapporti con le famiglie, in bagno, nella modalità di organizzare le uscite sul territorio… Tutte queste parti, sono necessarie per quella che definiamo “educazione sistemica”. Ovvero per la realizzazione di un individuo (poiché questo è il fine della scuola) capace di vivere responsabilmente in società, di prendervi parte attiva… e tutte quelle belle cose che si trovano nelle “Indicazioni Ministeriali”. Occorre che i fili “si tengano”, altrimenti la rete si rompe. 


Dunque, mettiamola così (per cominciare). 

Sicuramente dimentico qualcosa, e non potevo fare le frecce proprio fra tutti gli elementi, ma sono tutte frecce bidirezionali, a sottolineare che ogni parte influenza e quindi cambia tutte le altre. 

Per descrivere la mia attuale attività con i bambini della scuola primaria (abbondantemente descritta nel mio libro già citato), credo innanzitutto di dover sottolineare il mio passato – di circa otto anni – come insegnante di scuola dell’infanzia (o materna, come si chiamava allora) il quale mi ha fortunatamente lasciato un imprinting che spero non mi abbandoni mai. 

La scuola dell’infanzia non è divisa in discipline; è (o dovrebbe essere) estremamente attiva, vivace, laboratoriale, fisica. Inoltre, con i bambini piccoli si fa molta attenzione ai tempi … di attenzione, e mi scuso per la cacofonia ma è proprio così. Fare attenzione alla necessità di cambiamento. Quando vedi che metà classe si sta annoiando e non segue più, è inutile proseguire con lo stesso schema, lo stesso linguaggio. Quindi è una didattica che cambia spesso, a prescindere dalle ore a disposizione. Bisogna cercare pause, attività di risveglio, stimoli diversificati per vivacizzare l’apprendimento. Questo è uno dei motivi per cui non mi è possibile tracciare un programma netto delle discipline per ogni giorno della settimana, uguale per tutte le settimane. Al contrario: ho una bozza di percorso, un itinerario nella mente, ma poi le tappe, le soste, le durate, le deviazioni… si decidono lungo il cammino. Ogni settimana, ogni giorno. 

Per questo nel mio libro ho dedicato un intero capitolo alla “scuola come una marmellata”, ovvero luogo in cui tenere vere e proprie jam sessions: con la stessa abilità di musicisti jazz, saper improvvisare. Tessere una rete con filati improvvisi, non previsti, ma capaci di creare disegni non immaginati, sorprendenti, costantemente.

Altra eredità che gelosamente conservo dalla scuola dell’infanzia è quella dello sfondo integratore. Elemento fondamentale, che dovrebbe essere contemplato sempre, in ogni ordine e grado. 

Lo sfondo integratore è l’ordito, indispensabile per costruire una trama. Senza ordito puoi avere solo una matassa, o un groviglio, ma non una rete, una tessitura. 

Nel mio caso, l’ordito è dato dalla scrittura autobiografica. È questa che cuce i pezzi sparsi, che fa in modo che “tutto si tenga”. Grazie ad esso, puoi tessere qualunque trama, con i fili più diversi e inattesi.

Nella fattispecie, la scrittura autobiografica viene realizzata attraverso la diaristica: la tenuta di un vero e proprio diario che è insieme individuale e collettivo, pubblico e privato. Contiene parti realizzate dal singolo bambino (spesso con l’aiuto di mamma o papà), e parti costruite insieme, con l’insegnante, con i compagni. Contiene disegni, fotografie, mappe, biglietti, collage... Pensieri, firme dei bambini o di adulti. Qualunque altro ricordo che il singolo voglia conservare, che sia della vita scolastica o della vita “a casa”. Ciascuno lo scrive quando e come vuole, utilizzando la scrittura e i colori che preferisce. A scuola, quando ne sentiamo la necessità, scriviamo ciò che riguarda la vita scolastica, la classe, gli apprendimenti raggiunti (vera e propria metariflessione su ciò che facciamo e perché), i festeggiamenti come i momenti di difficoltà, i ricordi collettivi, i saluti per un periodo di vacanza… Riportiamo anche ciò che può costituire un approfondimento su un tema specifico, per dare una valenza più emozionale ad un contenuto, o a un evento. 

La tenuta del diario costituisce anche un mezzo straordinario di comunicazione scuola-famiglia, nonché di stimolo alla comunicazione in sé, quindi all’apprendimento di una scrittura corretta, comprensibile al lettore/ascoltatore.

I nostri diari vengono letti regolarmente (ma liberamente, solo da chi vuole), una volta a settimana, e questo costituisce il momento fondamentale di educazione all’ascolto – in primis – quindi al rispetto dell’altro, dei turni, del silenzio; e alla astensione dal giudizio. 

Di fatto, verifichiamo innumerevoli volte che ascoltando i racconti dei compagni impariamo moltissime cose, perché fuori dalla scuola vivono le esperienze più diverse, a seconda delle famiglie. 

Questo, per un insegnante, è spesso di grande aiuto. Offre il pretesto per affrontare argomenti non previsti, a volte anche profondi e molto seri. 

Un altro aspetto metodologico fondamentale nel mio esperire quotidiano con i bambini è dato dalla scelta di un insegnamento il più possibile interdisciplinare. E di esplicitarlo anche, ai bambini stessi. 

Loro spesso, appena entrano in classe, mi chiedono “cosa facciamo oggi?”, intendendo quasi sempre “quale disciplina?”. E io molto spesso li “spiazzo” con una risposta “trasversale” (nb: educazione allo spiazzamento, come al paradosso, come all’ironia… tutti elementi voluti, consapevoli, pedagogicamente scelti e perseguiti; non certo casuali). Nel senso che trattiamo non tanto una disciplina, quanto un argomento, o portiamo avanti un progetto, che comprende più di una disciplina, e poco a poco se ne rendono conto. 

Potrei fare l’esempio del progetto di geografia portato avanti con una quinta: lo studio 

delle regioni italiane (argomento che letteralmente mi appassiona!). Ogni regione è stata sviscerata in mille sfaccettature: ambiente fisico ovviamente, poi clima, prodotti, ma anche cucina, siti Unesco, musica tradizionale, artisti importanti (poeti, attori, pittori…), avvenimenti... Ciascun alunno ha realizzato un “librone” con fogli in formato A3, e alla fine dell’anno su questo lavoro abbiamo realizzato un video messo online (il link è nella sitografia, a fine articolo) che, come si nota dal titolo, parte dal presupposto di una educazione alla bellezza, in particolare alla bellezza del nostro Paese, quindi alla necessità di prendersi cura del patrimonio (materiale, immateriale, naturale, culturale). È quindi geografia, ma è educazione civica, è italiano (quante prove per scrivere e poi leggere bene durante le riprese!), è antropologia, scienza, storia, musica, arte... 

Altro lavoro interdisciplinare, da cui anche si è poi realizzato un video, è stato quello di educazione civica e inglese, a partire da un mio vecchio testo preso tanti anni fa non ricordo in quale città africana (forse Nairobi). Un lavoro importante per l’educazione alla pace, ai diritti umani, alla conoscenza delle diversità che esistono nel mondo relativamente ai diritti umani, nonché per comprendere la fortuna di ciò che abbiamo e la necessità di difendere costantemente i diritti acquisiti, poiché nulla può essere mai dato per scontato. 

Se questi sono lavori realizzati con bambini del secondo ciclo (quarta e quinta) un altro progetto è stato portato avanti con bambini di classe prima, a partire proprio dall’obiettivo primario di questa classe: imparare la letto-scrittura. Solo che per ogni lettera dell’alfabeto… abbiamo praticamente esplorato il mondo! E infatti ne è uscito un grande Libro degli esploratori. Anche in questo caso, a fine anno, un video. Cosa difficilissima per bimbi di prima, ma se la sono cavata alla grandissima! 

Il lavoro è durato tutto l’anno, e ogni argomento è stato trattato e sviscerato per più giorni, con l’aiuto soprattutto della preziosissima LIM (la lavagna interattiva multimediale) e dei tanti supporti che oggi offre il web: video, canzoni, immagini di ogni sorta, e per ogni età. Quindi: A come aereo (per esplorare il mondo), E di Europa, I di Italia, O di oceani, U di Uragani, M di mongolfiera (mezzo metaforico utilizzato in classe per far portare via tutte le ansie, le paure, le pignolerie…), L come Lentezza (di cui cantiamo l’elogio), S come sistema solare, B – bicicletta, R- ruota (in senso metaforico), P – planisfero, F – fiume, V – vulcani, T – terremoto, Z – zaino dell’esploratore, N – nave, D – dialetti (con lavoro ad hoc, poesie e canzoni in dialetti diversi), C – ciclo dell’acqua, G – gesti (educazione alla diversità), H – humus (visto/toccato in classe e nell’orto comunale), Q – quota (video su montagne nonché alpinisti di oggi e di ieri), J – jeep, K Y – Kayak, W - evviva!,  X – taxi brousse. 

A supporto ulteriore di tutto questo lavoro - che ha portato la classe a visitare anche tematiche non prettamente del programma di classe prima – mi piace far notare un altro aspetto. Nella nostra scuola si usa, a Carnevale, fare una festa in cui tutte le classi si ritrovano insieme e sfilano con i costumi di loro realizzazione, con materiali poveri. Ogni classe sceglie il tema del proprio travestimento. Generalmente le classi del 2° ciclo scelgono argomenti storici (quindi si vestono con gli abiti della preistoria, o degli antichi greci/egizi/romani ecc) con cui i bambini si divertono molto (la mummia è sempre la più gettonata!). 

Quando ci siamo posti il problema del nostro costume … ovviamente la scelta non poteva che cascare su un soggetto: l’esploratore / esploratrice!  Idea entusiasmante, ma con un aspetto di non facile soluzione: come realizzare questo costume? L’esploratore… è sé stesso, non ha una maschera! E fare un cappello da safari non è cosa facile. Era relativamente semplice costruire binocoli, monocoli, lenti di ingrandimento, anche macchine fotografiche, nonché un giubbottino color cachi utilizzando dei grandi sacchetti di carta che avevo in classe da tempo. Il problema restava il cappello, ma … ci vennero in aiuto le famiglie! In particolare alcune mamme molto creative e vere artiste, che riuscirono a darci un modello da realizzare con strisce di cartoncino. Il risultato fu strepitoso, e decisamente originale!

Naturalmente trovammo nel web anche la CANZONE DELL’ESPLORATORE, così tutto il cerchio si era chiuso. Ogni elemento era collegato. Discipline, obiettivi didattici, manualità, creatività, coinvolgimento delle famiglie, festa, musica, canto corale, coordinamento motorio durante la sfilata. Studio e divertimento. Dimensione personale e dimensione collettiva. Elaborazione di un progetto comune. Il tutto, non “programmato” a inizio anno, bensì nato come si suol dire in itinere. Cioè davvero “viaggiando”.

Un altro aspetto fondamentale nel mio lavoro alla primaria è l’organizzazione di molte uscite sul territorio, nel corso di tutto l’anno.

Certo, ho la fortuna di vivere e lavorare in un ambiente (la città metropolitana di Bologna) che offre tantissimo, nell’arco di pochi chilometri, ma è comunque una scelta, e non è scontata. Io amo infinitamente i musei, su cui peraltro ho anche svolto una tesi magistrale (per puro amore, avevo già superato i 50 anni) in antropologia museale. Va da sé che ciascuno di noi ha la tendenza a trasferire agli altri ciò che più ama. Nel mio caso dunque, l’amore per i beni culturali e i musei in particolare, che del resto offrono meravigliose attività pratiche, coinvolgenti, per ogni età. Con i bambini, nel corso degli ultimi anni, ne ho visitati davvero tanti, svolgendo ogni volta laboratori molto accattivanti.

Una volta ho avuto una soddisfazione particolare: una mamma mi scrisse in piena estate,

tutta la famiglia era in vacanza all’estero, e la bambina era contentissima di visitare musei, perché tramite le nostre uscite nei musei di Bologna e provincia ne aveva avuto un’esperienza estremamente positiva. Ne fui davvero felice! Mi dispiace enormemente quando sento, ancora, adulti che considerano il museo come un oggetto noioso, morto, che espone oggetti a loro volta morti… Idea purtroppo ancora molto radicata nell’immaginario collettivo. È vero che ci sono ancora musei concepiti male, in cui le esposizioni sono davvero poco soddisfacenti e poco istruttive, ma credo siano davvero una esigua minoranza ormai. In tutta Italia, nonostante la fatica nel portare avanti la cultura con le scarse risorse che i nostri governi (tutti) mettono a disposizione, ho visto sempre tanti splendidi musei, grandi o piccolissimi, ma generalmente tenuti davvero con amore, spesso anche con tanto lavoro di volontariato, tanta passione e competenza. Sono felice se riesco a trasferire ai “miei” bambini almeno un immaginario diverso.

Per visitare i musei di Bologna e provincia, ho sempre bisogno della collaborazione delle famiglie, soprattutto per il tragitto con i mezzi pubblici. L’utilizzo del bus di linea, oltre che una necessità, è una scelta: considero un obiettivo educativo in sé quello di imparare a usare il mezzo pubblico, con tutto ciò che questo implica, non sono sul piano ambientale, ma anche su quello sociologico.

L’autobus talvolta (come il treno) è un vero e proprio “cinema”, una finestra sulla società. Vi puoi vedere volti di tutto il mondo, sentire tante lingue, vedi la mamma nera col bimbo in carrozzina, anziani o persone con difficoltà motorie, a cui devi imparare a cedere il posto; gente maleducata o magari anche un po’ ubriaca e poco raccomandabile (per questo da conoscere, in ogni caso), e tanto altro ancora. Per tutto ciò, considero importante abituare i bambini all’utilizzo del mezzo pubblico, ma anche per tutti questi motivi (e per la densità dei mezzi negli orari di punta) è assolutamente necessario essere in un numero di adulti considerevole, tanto più quanto i bambini sono più piccoli.

Anche in questo caso dunque, il coinvolgimento delle famiglie è fondamentale. E devo dire che nel corso degli anni ho sempre visto papà, mamme, anche nonne molto felici di venire con noi. Tra l’altro, si tocca - diciamo così - un “obiettivo secondario”: portare al museo anche gli adulti, che in genere (almeno in quei musei) non ci sono mai andati, e certamente non conoscono le attività educative che vi vengono svolte.

Mi è capitato anche di organizzare delle uscite in orario extrascolastico, perché diversamente non si riusciva (essendo destinazioni un po’ complicate, non raggiungibili coi mezzi pubblici). Fu bello per esempio portare tutta la classe con i genitori (e le loro auto) a visitare il sito archeologico delle Terramare di Montale. La maggior parte delle famiglie non aveva nessuna dimestichezza con l’archeologia, soprattutto con quella di età preistoriche. Sicché furono davvero tutti entusiasti nell’ascoltare le esperte guide (archeologhe loro stesse), genitori in primis. Ma lo stesso potrei dire della visita al Museo dei Burattini di Budrio (una collezione pazzesca, a sua volta riconosciuta dall’Unesco) o al Museo della Comunicazione di Gianni Pelagalli… e altri ancora.

Avendo sul territorio musei di tanti tipi - oltre a quelli citati: il museo del Patrimonio industriale, quello Internazionale della Musica, il sito archeologico della città etrusca di Kainua, a Marzabotto, l’Accademia delle Belle Arti, l’Orto botanico universitario, il

museo della Preistoria, della Tessitura, del Medioevo, e altri ancora - va da sé che la visita a questi musei offre un panorama di conoscenze e di abilità estremamente variegato e interdisciplinare. Le visite sono pianificate in base al programma dell’anno, e poi sempre ricostruite in classe, con le conversazioni e la scrittura diaristica collettiva.

Oltre alle uscite verso i musei vi sono poi gli spettacoli teatrali, potendo scegliere tra più teatri, specializzati da anni in teatro per l’infanzia nonché in attività a scuola. Anche il laboratorio di teatro a scuola (che si svolge con sedute settimanali per circa due-tre mesi) cerco di unirlo, in accordo con l’attore-regista, al lavoro che si fa in classe.

Mentre scrivo, per esempio, sto svolgendo un lavoro sulle stagioni. Anche questo è un progetto che durerà tutto l’anno, e anche questo viene visitato in qualunque forma, linguaggio, disciplina. Essendo in autunno: abbiamo studiato quali sono le piante commestibili di stagione. Utilizziamo le classiche schede di scienze (come è fatta la castagna, come è fatta la pianta dell’uva, poi le verdure ecc…) poi le filastrocche (=quaderno di italiano ma anche di scienze, proprio a sottolineare gli intrecci disciplinari) le canzoni (=esercizio di canto corale) poi l’esperienza e la manipolazione: abbiamo fatto il mosto in classe, lasciandolo a riposare vari giorni per vedere e annusare la fermentazione. Abbiamo coinvolto la cucina e il gusto: chi vuole (me compresa) porta da casa cibi prodotti con gli alimenti di stagione: uvetta, castagnacci, torta con le noci, con la zucca… qui le famiglie si sono letteralmente scatenate! I bambini hanno prodotto ogni leccornia possibile!

Il lavoro sul cibo coinvolge naturalmente l’educazione alimentare, che è a sua volta parte integrante dell’educazione civica. Si parla degli ingredienti di ciò che mangiamo, di ciò che fa bene e di ciò che fa male (l’uva per esempio ci ha portati a parlare del vino e dell’alcol nelle bevande fermentate).

Non manca ovviamente l’aspetto storico, per esempio: il modo di produzione del vino oggi, non è esattamente come una volta, con i piedi dentro il tino!  Le castagne, un tempo cibo fondamentale per i contadini di montagna (come si mangiavano? Cos’è un essiccatoio?) E non può certo mancare la geografia del cibo: dove crescono i castagni? Dove crescono le zucche, i funghi, i fichi, i cavoli…? Dove pascolano gli animali da latte?

Dunque, tornando al teatro, attualmente stiamo lavorando evidentemente sulle stagioni. Come rappresentarle con il nostro corpo? La ricerca/riflessione stimolata dal regista è meravigliosa. 

Così, nuovamente, il cerchio si chiude. Tutto è interconnesso. E questa interconnessione viene sempre più esplicitata ai bambini, per comprendere che il mondo non è diviso in discipline. 

Potrei portare ancora molti altri esempi. Il lavoro di un insegnante è infinito …Ma lo spazio di un articolo evidentemente no! 

Una cosa ancora però voglio citare del mio lavoro, a cui tengo molto: l’approccio storico, pressoché costante. Questo, dal mio punto di vista, è volto in particolare ad una educazione alla complessità che amo avviare già dalla prima. Per tutti i cinque anni di scuola primaria insisto (anche a mo’ di “tormentone”!) su questo mantra: tutto ha una storia (premessa per comprendere che tutto ha delle conseguenze, quindi le nostre scelte, i nostri gesti; il famoso effetto farfalla…). Tutto ciò che ci circonda ha un passato.  E la conoscenza di questo passato è assolutamente indispensabile per capire ciò che avviene adesso: qui e ora!

Per questo motivo, già dal primo ciclo della primaria porto avanti la storia in vari modi e aspetti. Un anno, con la seconda, ho svolto un progetto di arte/scienza/storia legato all’evoluzione del pianeta terra, la nascita della vita, l’evoluzione, fino ai mammiferi e all’uomo. Anche in questo caso ciascun bambino compose il proprio librone formato A3, con tante pagine (rilegate a fine anno) realizzate con tecniche diverse (pittura, disegno, collage), e argomenti trattati per vari giorni, sempre con l’ausilio di video, libri e quant’altro disponibile per un primo approccio a questi argomenti, che poi vengono studiati più approfonditamente negli anni successivi.

Personalmente trovo molto efficace lo svolgimento di temi e argomenti in questa “doppia fase”. In un primo tempo la narrazione, la visione d’insieme nei suoi punti fondamentali. Poi, negli anni successivi, lo studio sempre più focalizzato sulle singole parti. È proprio la tecnica “dal generale al particolare”, che ripaga enormemente. Quando, in terza, si comincia a studiare gli stessi argomenti sui libri di testo e con il programma ufficiale, loro hanno già avuto una visione di insieme, sanno già “dove il racconto va a finire”, e questo rende tutto più facile. 

Per lo stesso motivo, ormai da diversi anni ho avviato la consuetudine di realizzare in classe una “linea del tempo” che comprende tutta la storia umana, non solo quella del programma della scuola primaria (che si ferma ai romani). Quindi una lunga striscia che va da milioni di anni fa fino a noi, e i bambini sanno cosa studieranno in terza, cosa in quarta, in quinta e poi alle medie, ma sempre con uno sguardo d’insieme, per comprendere il tutto

Per far sedimentare il concetto che tutto ha una storia analizziamo insieme proprio la storia di tutto! In maniera semplice e a grandi tappe, ma ci alleniamo a vedere come tutto abbia avuto un’evoluzione, e qualunque cosa noi vediamo intorno a noi – fossero anche le finestre, o i termosifoni della classe - non sia da dare per scontata: che si tratti di arredamento, abbigliamento, mezzi di trasporto, case musica, cibo… affrontiamo qualunque argomento a partire dal “come eravamo” milioni di anni fa. 

Anche in questo caso naturalmente, emerge la inevitabile connessione di tante parti. Nell’approccio storico, tutto si lega: la geografia, il clima, la tecnologia, i viaggi, le scoperte, i cambiamenti climatici, le religioni… 

E tutto ciò, attraverso e grazie alla scrittura diaristica, si connette ulteriormente alla dimensione emotiva e personale-familiare. 



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