di Marco Bianciardi
Socio Ordinario AIEMS, Torino
Psicologo, Psicoterapeuta, Direttore Associazione Episteme
Foto di Avelino Calvar Martinez da Pixabay
Aprile 2020: L’indifferenza del virus
Credo sia davvero presto per iniziare a capire quanto e come la pandemia in atto modificherà la vita dell’uomo sul pianeta e ciascuna delle nostre vite soggettive.
Personalmente sento, per il momento, farsi strada in me una consapevolezza nuova - e si tratta di una consapevolezza dolorosa, amara - che mi ha ricordato una frase che avevo appuntato da Acciaio, il bellissimo, duro, quasi feroce, romanzo d’esordio di Silvia Avallone:
“Arturo fissa i tergicristalli e pensa che ci sono milioni di fatti nel mondo, tutti collegati tra loro, estranei e connessi. Lui è uno di questi, uno dei tanti. Un fatto vivente e pensante nella catena illimitata e indifferente”.
Sono da tempo avvezzo a intendere la vita come una rete ove tutto è connesso. E mi impegno a pensarla come una trama complessa, articolata, che intreccia piani distinti ma embricati e che può a volte imbrogliarsi in nodi inestricabili. Ma, e me ne accorgo solo ora, si trattava di una visione molto astratta e, in fondo, un po’ ‘romantica’, che eludeva e scotomizzava la drammaticità della condizione umana, segnata da una consapevolezza di sè che non la affranca per nulla dall’esser parte della storia dell’evoluzione senza poterne comprendere, e tanto meno controllare, l’infinita complessità degli anelli ricorsivi che tutto e tutti legano. Forse per questo mi colpì, quando lessi Acciaio, la riflessione dell’autrice, che mette il dito, impietosamente direi, su quegli aspetti che fanno sì che l’esser parte della catena illimitata possa rivelarsi una condizione senza scampo. Perché la rete che tutto e tutti connette è indifferente ai destini del singolo, e l’evolvere della vita sulla terra può rivelarsi crudele – perlomeno dal punto di vista, del tutto parziale, di un singolo organismo o di una singola specie. E perché siamo connessi, attraverso infiniti circuiti che non conosciamo e ancor meno controlliamo, anche a chi resta per noi irriducibilmente estraneo.
Che ne sappiamo delle innumerevoli persone attraverso cui il virus è passato per arrivare qui, anche qui, proprio qui? Non ne sappiamo nulla, sono persone del tutto estranee, lontane; come estraneo è chi incrociamo per strada e viviamo, ora, come un potenziale pericolo… Eppure questi sconosciuti si sono rivelati così vicini e prossimi da aver veicolato una catena che ha spezzato molte vite care e ha modificato la quotidianità di ciascuno. Grazie a un invisibile elemento del vivente la rete che tutto connette, la catena illimitata, l’esser parte e l’essere comunque coinvolti, è venuto prepotentemente alla luce nei suoi aspetti più drammatici.
Si tratta di un amaro dover aprire gli occhi: siamo in relazione, tutti e comunque, senza eccezioni o sconti, a livello planetario. E non lo siamo solo nel mondo astratto e un po’ immateriale della rete (internet) o dell’economia globale (per quante conseguenze, drammatiche, quest’ultima possa avere nella vita concreta di milioni di persone - ma si tratta di solito degli ‘altri’, dei popoli meno fortunati…). Siamo in relazione, tutti e senza scampo, in quanto siamo, volenti o nolenti, catturati nella rete dei contatti fisici, corporei, che passano dallo sputo o dallo starnuto o dalla prossimità fisica: i nostri corpi, fragili, mortali, imperfetti, eppure meravigliosi e palpitanti di vita, sono tutti, letteralmente, interconnessi; tanto che dal corpo di un cinese lontano mille miglia, e che, fosse morto di fame o sotto un terremoto, avrei potuto illudermi non fosse misteriosamente e irrimediabilmente connesso anche a me e a tutti, il virus può arrivare, attraverso miriadi di nodi della rete, fino a insinuarsi nel mio corpo.
Il virus non è un ‘nemico’, come è stato descritto, piuttosto è ‘indifferente’: è un invisibile elemento della trama della vita, che si riproduce per vivere e sopravvivere, esattamente come l’uomo fa, da sempre, sulla terra, sfruttandola e distruggendola.
Questa consapevolezza reca con sé una incredibile lezione di umiltà: organismi dotati della miracolosa potenzialità della parola, soggetti di quell’instancabile narrare a sé la propria esperienza nel mondo che ci fa ‘senzienti’ e consapevoli della morte, siamo comunque un accidente, un caso fortuito e imprevisto, e non abbiamo alcun reale controllo sulla catena illimitata e indifferente.
Sapremo cogliere la lezione?
Il virus, nella sua indifferenza, non comunica nulla - ovviamente. Sta a noi creare l’insegnamento che questa drammatica situazione può permetterci di trarne.
Vi è un primo aspetto, da molti giustamente sottolineato, che riguarda il nostro rapporto con la madre terra, e il monito a saper modificare lo sviluppo in modo più sostenibile. Ma tale monito è intimamente connesso ad un altro, su cui vorrei brevemente soffermarmi: mentre nello sfruttamento delle risorse, irrimediabilmente limitate, vale, almeno in apparenza, una logica mors tua vita mea, e di conseguenza homo homini lupus, di fronte al virus è evidente che la salute e il benessere dell’altro permettono la salute mia e dei miei cari: vita tua vita mea. Non si tratta quindi solo di prevenire la catastrofe ecologica, bensì, anche, di promuovere il benessere di tutti e di ciascuno.
Potremo farlo se mossi innanzi tutto dalla paura? Non credo. Perché significherebbe restare entro la medesima logica, impegnarci solo di fronte all’emergenza e, presumibilmente, quando è troppo tardi. Dovremmo, piuttosto, accedere a una ‘saggezza sistemica’ da cui siamo ben lontani.
Come anticipavo l’uomo, organismo senziente, ‘sa’ la propria mortalità; ma si impegna per tutta la vita a dimenticare in ogni modo e con tutti i mezzi questo ‘sapere’. Come? innanzi tutto con l’accumulo di potere e di averi, ovvero di ciò che giustifica e incentiva lo sfruttare irresponsabilmente la terra e il vivere l’altro come ‘nemico’. Solo la saggezza del ‘sapere di sapere la morte’ può portarci a un rapporto consapevole e responsabile verso l’ambiente e verso l’altro. Solo ‘sapendo’ in modo spontaneo quanto sia stupido e risibile il voler sfuggire al sapersi mortali grazie al potere e alle ricchezze, l’uomo potrebbe promuovere il benessere dell’ambiente e dell’altro, di tutti gli altri, non per reazione e per paura bensì animato, come ci ricorda Gregory Bateson, da “una certa dose di umiltà, temperata dalla dignità o dalla gioia di far parte di qualcosa di assai più grande”.
Novembre 2020: Ri-conoscere la differenza: dramma originario e orizzonti possibili
1. Il virus è indifferente, certo. Esattamente come lo è un terremoto o un animale feroce che ci attacca, e come lo sono l’acqua che ci disseta e i molti vegetali che ci nutrono: fenomeni naturali che non hanno alcuna ‘intenzione’ malevola, o benevola, bensì obbediscono semplicemente e inevitabilmente a ciò che noi denominiamo ‘leggi della fisica’ e ‘condotta istintuale’.
La catena illimitata e indifferente indica tutto ciò che per l’uomo è ‘natura’: sia il mondo fisico delle galassie, ivi compreso il nostro pianeta, sia l’intreccio inestricabile e infinitamente interconnesso della trama della vita – di cui è parte, naturalmente, anche il corpo che noi siamo, organismo vivente fatto di carne e di sangue, di visceri e terminazioni nervose, che invecchia e si ammala nostro malgrado, e che può, all’occorrenza, ospitare il virus, indifferente a quanto ciò possa dispiacere a quel soggetto senziente che noi siamo.
Ora, l’indifferenza della natura non è da intendersi, ovviamente, da un punto di vista emozionale, nel senso cioè di non dare importanza, o, più prosaicamente, di fregarsene: tale significato, peraltro, si rivela del tutto proiettivo e antropomorfico, in quanto attribuisce alla natura emozioni tipicamente umane, soggettive. Si potrebbe dire, piuttosto, che l’indifferenza della natura si pone al di qua della differenza tra fregarsene e non fregarsene, ovvero al di qua della possibilità stessa di distinguere tra fregarsene e non fregarsene e di scegliere tra fregarsene e non fregarsene. In altri termini: l’indifferenza di cui parliamo è da intendersi in un prima logico rispetto alla differenza stessa, alla distinzione, alla scelta.
La natura ci appare indifferente in quanto, sorda a qualsiasi considerazione e cieca ad ogni possibile conseguenza, semplicemente accade. Si tratta quindi di un accadere che si colloca in un dominio ‘altro’ e incommensurabile rispetto alla possibilità stessa di cogliere differenze, possibilità che è presupposto alla intenzionalità, alla volontà, alla scelta, e alla responsabilità.
In questo senso l’indifferenza si specifica in senso logico: in-differenza intesa come assenza di differenza, o, più precisamente, della possibilità stessa della differenza; come un accadere, quindi, che non implica l’atto del distinguere entro il continuum della catena illimitata, che non crea distinzioni che articolino, organizzino, ordinino e punteggino la catena stessa e la sua continuità.
2. Ma non dobbiamo dimenticare che quanto accade nel mondo del vivente è comunque governato dalla differenza: gli organismi viventi agiscono e si muovono grazie all’energia tratta dal proprio metabolismo, e per questo il loro agire non è causato dall’energia ricevuta bensì è attivato dalla differenza; è la differenza di luce che fa schiudere il fiore; sono le differenze interne al metabolismo di un animale ciò che lo spinge alla ricerca di cibo.
Il punto è che, nella catena illimitata che unisce e intreccia gli elementi della vita, la differenza agisce come un relais o un interruttore, come uno snodo, come un automatismo: la pianta e l’animale conoscono la differenza – tanto che agiscono rispondendole – ma non la ri-conoscono. In altri termini: i processi vitali evolvono governati da differenze – ma ciò è vero solo dal punto di vista di un osservatore che tali differenze distingua, colga, e in definitiva crei. Nella catena illimitata e indifferente tutto avviene senza che le differenze vengano riconosciute e quindi colte come ‘differenze’ – esse funzionano, appunto, come relais di automatismi ciechi e prevedibili.
Per parlare di ‘differenza’ in senso proprio è necessario che la differenza non sia solo conosciuta, bensì sia ri-conosciuta: è necessaria, in altri termini, una conoscenza ri-corsiva, ovvero la potenzialità di ri-flettere sul proprio atto di distinzione, di distinguerlo entro la catena indifferente (e indifferenziata), di narrarlo a se medesimi. Tutto ciò è stato possibile solo nel momento in cui la storia della biosfera ha generato (miracolosamente, e attraverso biforcazioni imprevedibili e exaptations improbabili) un organismo caratterizzato dalla potenzialità di creare un linguaggio simbolico e di porsi come soggetto senziente. L’uomo è stato reso ‘uomo’ dal linguaggio che lui stesso ha creato, e a partire da quel momento ha potuto ri-volgersi a se medesimo per narrare i propri atti di distinzione, sapersi autore della differenza, senziente di sé come soggetto delle distinzioni attivamente ‘prese’ entro il proprio habitat, e soggetto della distinzione stessa soggetto/oggetto, sé/mondo esterno, sé/altro.
In definitiva: il reale (sebbene sia ricco di differenze e sebbene la vita funzioni per differenze) è indifferenziato in quanto nulla nel reale ri-conosce la differenza – e, nel riconoscerla, la distingua e la crei; e, nel distinguerla, si distingua e si differenzi ponendosi come soggetto senziente di sè, come differente da tutto ciò che è altro da sè.
3. Questo miracolo dell’evoluzione è stato – e continua ad essere – un dramma. Chi conosce il pensiero di Gregory Bateson ritrova questo dramma all’inizio del saggio Una teoria del gioco e della fantasia, là ove Bateson parla del momento logico in cui l’uomo si accorge che i segnali sono ‘segnali’: li conosceva, certo, come ogni animale che, ad esempio, risponde ai segnali che innescano il corteggiamento; ma ora li ri-conosce – e tale riconoscimento inaugura un ‘dramma’, appunto.
Innanzi tutto perché esilia per sempre l’uomo dall’innocenza. Il riconoscere la differenza implica la potenzialità della scelta ed introduce al peso della responsabilità.
Orfano di una innocenza perduta, capace di ri-conoscere, pre-vedere, per-seguire, pro-gettare, l’uomo ha iniziato a incidere differenze nel territorio che abita, a modificarlo, scarnificarlo, sottometterlo, deturparlo. Ma il punto non è quanto l’uomo possa incidere sul territorio (un asteroide ‘innocente’ può incidere ancor più che una bomba atomica) bensì il fatto che il suo agire non sia innocente, bensì guidato dalla finalità cosciente.
Non solo: l’uomo ha iniziato ad impegnarsi e ad ingegnarsi per amplificare le differenze tra sé e l’altro. La differenza tra sé e altro da sé (che, in natura, fa dell’altro un potenziale nemico, un avversario, un rivale nella lotta per la sopravvivenza) lungi dal restare innocente è stata amplificata fino all’odio gratuito, alla crudeltà, allo sterminio. Il ‘mondo esterno’, entro cui le differenze vengono colte, è divenuto così terreno di sfruttamento ma anche di scontro in una battaglia senza esclusione di colpi contro ‘l’altro da sé’, divenuto rivale e nemico per il fatto stesso di essere ‘altro’.
La natura è cieca e crudele, ma è innocente. L’uomo è cieco e crudele, e ne è responsabile.
4. Ma il dramma non si esaurisce nella perdita di innocenza: la consapevolezza di sé come soggetto distinto dal proprio habitat e come autore delle distinzioni nel proprio habitat, acceca il soggetto rispetto al suo partecipare ed ‘esser parte di’.
Non dimentichiamo che il nostro ‘corpo proprio’ (condizione necessaria affinché si dia l’esperienza narrativa e riflessiva che è la soggettività) è e resta un organismo vivente che è parte della natura e che non sopravvive se non entro una nicchia ecologica con cui e in cui è co-evoluto. E la soggettività stessa, attività emergente dal dono del linguaggio, non è rinchiusa nei confini individuali, bensì è intessuta fin nell’intimo dalle caratteristiche di una lingua viva che trascende l’individuo, e che il singolo soggetto, per ex-sistere come soggetto, non può che accettare, pur divenendone fin da subito co-autore entro una dialettica mai conclusa. D’un lato, quindi, l’organismo che noi siamo è una tessera della trama della vita, e, d’altro canto, il ‘sé’ che il nostro narrare crea e ricrea senza sosta è un co-sé che co-emerge dalla con-divisione di ininterrotti dia-loghi; ma, nel riconoscere la differenza, il soggetto misconosce questo esser parte di che lo tiene in vita, e si immagina (costruisce un’immagine di sé) se-parato dall’ambiente e dall’altro, confondendo l’attivo atto del distinguere con il passivo registrare una separatezza oggettiva.
Esiliato dal paradiso terrestre, snaturato pur continuando a far parte della natura, differente a se stesso, e anche all’altro divenuto nemico, l’uomo persegue il fine di dominare il proprio habitat per dominare l’altro, cieco al fatto di essere – di co-essere – sia l’habitat che egli abita, sia l’altro che lo abita.
La soggettività, nel porsi, si illude di porsi come a se stante, avulsa e separata: per distinguersi si acceca al fatto che essa può av-venire solo in quanto proprietà emergente dalle relazioni entro cui e da cui ex-siste.
Il ri-conoscimento della differenza comporta quindi un dis-conoscimento e un mis-conoscimento dell’esser parte di.
Solo la cecità all’appartenere pare permettere l’attività del distinguere.
5. Anche io, come molti, mi sono chiesto se il virus possa aiutarci a riconoscere tale cecità e a promuovere uno sviluppo che tenga conto della nostra condizione di co-essere l’habitat e l’altro. Ma credo che non dobbiamo farci illusioni – e il ritorno, crudele, della pandemia ce lo sta ricordando impietosamente.
Ma perché? Quale è il nodo irrisolto, il nocciolo del problema, il punto segreto a noi stessi, che pare condannare l’uomo a una follia senza scampo?
È bene innanzi tutto chiarire che il punto non è che l’uomo sappia rispettare o difendere l’ambiente, sappia amare l’altro – perché tale atteggiamento comporta, e conferma, un mantenersi di fronte all’ambiente e all’altro vissuti come altro da sé. Il punto piuttosto è interrogarsi sulla possibilità che l’uomo sappia di essere ambiente, di essere l’altro. Quando ritraiamo istintivamente una mano dal fuoco, stiamo proteggendo noi stessi – e ciò anche se abbiamo appreso a dire ‘mano’ nominandola come distinta dalle altre parti del corpo e a ri-conoscere la differenza tra mano e corpo. ‘Sappiamo’ istintivamente, e senza bisogno di rifletterci (è un ‘sapere’ che fa parte del processo stesso dell’av-vento della soggettività) che la nostra mano, insieme a tutte le altre parti del corpo, co-è il nostro organismo. Al contrario ‘sapere’ di co-essere l’habitat che abitiamo e l’altro che ci abita, possiamo riconoscerlo solo a fatica, in una successiva, mai conclusa, presa di coscienza.
Sarà possibile che un giorno l’uomo ‘sappia’ di essere in relazione con l’ambiente così come la mano è in relazione con il corpo? E ‘sappia’ quindi che l’unità di sopravvivenza non è né l’individuo, né la specie, né la singola razza o nazione, bensì l’ecosistema tutto nella sua unitaria complessità?
Che l’uomo possa un giorno accedere a questo ulteriore livello di consapevolezza appare oggi pura utopia. Si tratterebbe di modificare un atteggiamento profondo e radicato in noi fin dagli albori della civiltà; si tratterebbe, in definitiva, di mettere in gioco la lotta stessa per la sopravvivenza, per lo meno così come l’abbiamo vissuta fin da prima di accedere al linguaggio che ci ha reso uomini, e di ridefinirne in profondo le caratteristiche fino a poter vivere la biosfera tutta come unità di sopravvivenza. La soggettività che noi siamo dovrebbe assumere un punto di vista soggettivo e contestuale allo stesso tempo. Forse solo una neo-neo-corteccia ci permetterà, tra alcuni millenni, di ‘sapere’ che siamo contesto.
Utopia, certo. Ma riflettiamo ancora sulla differenza.
La lotta per la sopravvivenza è ineludibilmente connessa alla vita degli organismi nel mondo materiale, un mondo le cui possibilità e risorse sono limitate, ove vige un gioco a somma zero perché ciò che è mio non è tuo, ove domina l’orizzonte della morte. Ma la differenza non è materia, bensì relazione tra due aspetti della materia; essa non appartiene quindi al mondo materiale, bensì crea il mondo non materiale delle idee, della comunicazione, del linguaggio – un mondo ove il gioco non è a somma zero, ove il moltiplicarsi delle narrazioni, delle visioni del mondo, dei significati, è un potenziale arricchimento per tutti, ove le idee possono rivelarsi immortali.
È per questo che il riconoscimento della differenza ha inaugurato uno sviluppo dell’intelligenza umana tale da renderci oggi in grado di affrancarci dalla lotta per la sopravvivenza: abbiamo imparato a limitare le nascite, a creare energia rinnovabile, a produrre cibo in grado di sfamare tutta la popolazione terrestre. Il punto quindi è che l’intelligenza umana viene invece asservita alla lotta per la sopravvivenza, rendendola crudele e assurda piuttosto che ‘innocente’ come in natura.
Per concludere, quindi, una consapevolezza: continuiamo ad essere ciechi, possiamo solo sapere di non ‘sapere’ che siamo il pianeta che abitiamo e siamo l’altro che ci abita. E un impegno: cercare insieme ogni occasione concreta affinché il mondo delle idee inizi ad affrancarci dalla stupidità di illudersi di poter sopravvivere contro e non con.