Presidente AIEMS, Roma
Medico-psichiatra-psicoterapeuta
Aprile 2020: La pandemia e la regola semplice
Comincio a scrivere questo mio breve contributo nella Domenica delle Palme, dopo 26 giorni in cui mi sono messo in quarantena. Avrei potuto continuare il mio lavoro di psicoterapeuta, ma ho preferito stare a casa per senso di responsabilità, mantenendomi disponibile solo per situazioni di emergenza, che poi di fatto non ci sono state. Così mi sono fermato.
In sostanza, dopo qualche giorno di comunicazioni istituzionali confuse e contrastanti, e quindi di perplessità e indecisione da parte mia, è arrivata alla fine l’indicazione del Governo di stare a casa. Così dopo un pomeriggio interlocutorio di visite un pò surreali, parlando a più di due metri di distanza con le mascherine e versando gel di amuchina nelle mani dei pazienti all’inizio e alla fine delle visite, ho deciso di fermarmi e sono rimasto professionalmente fermo per venti giorni. Poi negli ultimi sei giorni, su invito e richiesta dei pazienti, ho ripreso il mio lavoro tramite le piattaforme Zoom e Skype, fatto questo che rappresenta qualcosa di assolutamente inedito e sperimentale nella mia esperienza.
In questi 26 giorni sono uscito di casa solo per gettare la spazzatura, per fare la spesa, e per accendere il motore dell’automobile in modo che la batteria non si scaricasse. Mio figlio la mattina segue le lezioni scolastiche on line, mia moglie fa la sua parte ed è preoccupata per i suoi genitori, ormai anziani, cercando di assisterli sul piano logistico, io collaboro in casa e nel tempo che mi rimane leggo molto. Libri di recente pubblicazione, ma anche saggi, commenti, articoli di riviste, interviste e testimonianze sulla pandemia che stiamo vivendo.
In tutto questo mi rendo però conto che il mio pensiero è catturato in modo particolare dalla difficoltà personale e collettiva vissuta nell’interiorizzare e applicare la regola del distanziamento. Qualcuno dice un metro, qualcun’altro due metri, ma con il passare dei giorni si arriva anche a dire tre metri. Si tratta comunque di introdurre quella che potremmo definire a tutti gli effetti come una regola semplice, e qui mi viene in mente il movimento collettivo degli stormi. Si tratta inoltre di una regola nuova e che quindi ridefinisce e riorganizza profondamente la dinamica sociale.
Un giorno, mentre ero assorto in pensieri di questo tipo, mi è per così dire apparsa davanti agli occhi dell’immaginazione la scena di una fitta rete di relazioni composta di tanti puntini luminosi in movimento ed organizzati in sistemi e sottosistemi di sistemi.
Un vorticare complesso che all’improvviso si semplificava in modo drammatico per l’introduzione di una regola semplice. Quella del distanziamento, appunto. Nei giorni successivi, pensando a questa dinamica semplificata, ho poi immaginato di dare un colore ai vari puntini. Bianco ai puntini rappresentanti le persone sane, blu a quelli corrispondenti alle asintomatiche portatrici del virus, e rosso a quelli corrispondenti alle persone malate. Così i bianchi nell’incontrare i blu talvolta diventano anch’essi blu e altre volte si fanno rossi, ma solo se non rispettano la regola semplice. Poi ci sono i bianchi che incontrano i rossi, e diventano blu oppure rossi, e allora la mente mi è subito andata ai reparti ospedalieri e agli ambulatori di medicina generale. In questi contesti la regola semplice è violata, i puntini bianchi, blu e rossi coesistono gomito a gomito, e si crea la situazione paradossale (e qui mi viene in mente il doppio legame di Gregory Bateson) per cui proprio dai processi di cura può innescarsi l’amplificazione dell’epidemia.
Questa sorta di simulata mentale che ho appena descritto mi sta spingendo da qualche giorno a temere che molti medici, infermieri, ed operatori sanitari in genere, possano diventare portatori asintomatici trasmettendo così il virus, oppure che si ammalino, o che qualcuno addirittura muoia. Provo una forte angoscia, e intanto si accavallano notizie che confermano questi miei timori, nonchè polemiche sia sulla tempistica di allestimento dei reparti Covid-19 dedicati, sia sull’esecuzione dei tamponi al personale sanitario, e sia infine sulle mascherine che non arrivano, o che invece arrivano tardi, o che arrivano sbagliate.
In queste stesse giornate l’aria a Roma si fa sempre più frizzante, pulita e profumata, insomma è palpabile la riduzione dell’inquinamento da polveri sottili che sicuramente ha una parte in tutta questa storia.
Per quello che riguarda invece la mia professione di psicoterapeuta, come dicevo all’inizio, sono entrato in una fase sperimentale in quanto ho deciso di rimettere in discussione la centralità che la dimensione corporea ed emozionale hanno nel mio modo di lavorare. Credo infatti di aver sviluppato nel tempo una certa sensibilità nei confronti dei messaggi non verbali emessi dall’interlocutore durante i vari passaggi di una conversazione terapeutica, così come una certa consapevolezza di quella che è la mia esperienza corporea ed emotiva mentre parlo e mentre co-costruisco un senso per quegli stessi messaggi. In sostanza, la mia abitudine è quella di fare con il paziente, o la famiglia, o la coppia, una sorta di danza che risulta da una complessa integrazione dinamica di idee, emozioni, movimenti, esperienze somatiche, narrazioni e molto altro. E’ possibile tutto ciò con le piattaforme Skype e Zoom? Chiaramente no. Però la mia sperimentazione è nel pieno del suo svolgimento e mi vado convincendo che la cosa può funzionare se terapeuta e paziente si conoscono da tempo e riescono quindi a compensare con l’esperienza delle pregresse interazioni quella che è l’inevitabile perdita di informazioni sul piano non verbale. In sostanza, se esiste una buona e consolidata coordinazione relazionale, allora è possibile riempire di senso i buchi comunicativi evitando fraintesi, imbarazzi o disorientamento. Sto poi riflettendo su alcuni aspetti del cambiamento di cornice (ci si parla dai rispettivi spazi privati, e “si sta sulla stessa barca” della pandemia) che rende l’incontro più paritario, e sul fatto che qualcuno tira fuori discorsi mai fatti prima, come fossero delle rivelazioni, e mi chiedo se per caso ci si possa sentire come protetti, meno esposti, proprio comunicando così.
Voglio concludere questo mio breve contributo con l’augurio che le prossime settimane siano il tempo della semina interiore. Se è vero infatti che il Covid-19 ha tratto vantaggio (spillover) dalla smania predatoria e di sfruttamento che l’uomo mostra nei confronti dell’uomo stesso, delle altre forme di vita, e dell’ambiente, allora bisognerà ripartire da una concreta riconversione ecologica, e dalla salute ed il benessere delle persone come bene supremo.
8 Novembre 2020: Meditando sulla complessità
Respiro, sono vivo.
I polmoni si aprono lentamente e sento l’aria fresca entrare e scorrere lungo la trachea, i bronchi, giù fino agli alveoli.
Inspiro ed espiro, e l’aria si muove spontaneamente come le onde del mare e la risacca. Un andamento ciclico che mi connette al mondo.
Proprio ieri ho compiuto 60 anni ed oggi sto qui seduto nel salotto di casa ascoltando il mio corpo. Sono rilassato e la mia mente vaga. Dal viottolo d’entrata del palazzo in cui abito una voce sudamericana parla di lavoro, forse un badante. Dalla stanza di mio figlio giunge un vociare di adolescenti durante la didattica a distanza. Sono le nove di mattina ed il sole splende nel cielo azzurro. Così lascio scorrere i miei pensieri come nuvole nel cielo, prendendo di tanto in tanto piccoli appunti per poi lasciarli andare.
Siedo con la schiena dritta e la mia attenzione e tutta qui. Con il passare dei minuti sono sempre più presente a me stesso, ma anche consapevole che mentre io realizzo una tale esperienza la corporeità degli altri si va progressivamente dissolvendo, e con essa si dissolve anche la complessità e la bellezza della comunicazione umana non verbale. E tutto questo per una regola semplice!
Respiro. Inspiro ed entra aria fresca nei miei polmoni, espiro e mi riconnetto al “qui ed ora”. Si affacciano a tratti fastidiosi i pensieri sugli impegni della settimana, ma continuo a respirare, e la mente un po’ alla volta si svuota. Via ogni pensiero per un po’.
Poi ecco un’intuizione. Ma sì, certo, il virus non si vede, è invisibile. Ciononostante, seppur in assenza di una chiara percezione del pericolo noi siamo indotti ad un vero e proprio cambiamento antropologico. Dovremmo cioè smettere di comportarci da mammiferi sociali. Forse è anche per questo che scattano in molte persone le resistenze al distanziamento, fino alla negazione del pericolo!
Del resto anche i cambiamenti climatici sono stati a lungo fuori del nostro campo percettivo. Erano per noi un racconto, un ragionamento scientifico, una previsione, talora una serie di dati o di immagini, ad esempio dal Circolo Polare, ma mai un’esperienza sensoriale vissuta in prima persona.
Inspiro profondamente e affiora allora il ricordo vivido della giornata di ieri. Una bellissima passeggiata nel parco di Monte Mario con la mia famiglia, mio fratello, mia
sorella, i rispettivi partners, e Luna, un cane labrador di otto anni meraviglioso. La temperatura nel primo pomeriggio era di 20C° e questo rendeva il mio compleanno piacevole e surreale al tempo stesso, bello ed inquietante. Insomma il global warming ha raggiunto i nostri sensi. Ora esiste!
Respiro profondamente e l’aria è ancora fresca. Colgo la comunità di destino che noi siamo, e per un attimo provo tenerezza. Poi ecco il pensiero dello spillover, il salto di specie, riflesso del modo di stare al mondo dominato dall’idea tossica di una crescita senza fine, di una dominazione senza confini, e alla tenerezza si sostituisce un sentimento di rabbia e la paura. Paura per le future generazioni, per mio figlio, e un senso di colpa strisciante.
Respiro chiudendo gli occhi. Cerco un appiglio, qualcosa di rassicurante.
Mi appaiono allora i volti sorridenti degli amici toscani dello Sportello di Agroecologia di Calci. Riconnettere l’uomo all’ambiente, riconnettere le generazioni mettendo in dialogo i saperi antichi con quelli moderni, riconnettere le culture. Prendersi cura e co-evolvere! Ecco le parole d’ordine che ci salveranno!
Di nuovo per un po’ la mente si svuota, si calma, e sono solo immagini.
Il ciclo delle stagioni, il mio respiro, il ciclo del sonno e della veglia, il ciclo dell’ossigeno e dell’anidride carbonica. E’ un vorticare sacro di fronte al quale il silenzio è facile e d’obbligo. E poi immagini di cause che sono anche effetti e di effetti che sono anche cause. Una rete di interdipendenze che mi mostra solo un suo vago e parziale riflesso, uno dei suoi molti profili, l’eco lontano e disorientante del suo funzionamento.
Si affaccia allora una domanda. Come possiamo abitare il Sacro?
Mi affido al respiro e lascio andare la domanda. Le risposte vengono talora quando non le cerchi. Affiorano in modo naturale quando semplicemente contempli il momento.
Inspiro ed espiro, lentamente, poi mi alzo dalla sedia e mi avvio verso la cucina. Ho bisogno di un caffè.
Tre settimane dopo: Rileggo quello che ho scritto sinora ed esco a fare una passeggiata a ridosso dell’imbrunire per rifletterci su. Finora ho raccontato della regola semplice, della riorganizzazione sociale che ne è conseguita, delle mie simulate mentali immaginando la dinamica interattiva fra asintomatici negativi, asintomatici positivi e ammalati di Covid-19, ed ora, a distanza di mesi dal lockdown, di come sia il virus che i cambiamenti climatici siano rimasti a lungo invisibili e fuori dal nostro controllo sensoriale, finchè non è scoppiata la pandemia (la presenza del virus mostra i suoi effetti) e finchè ciascuno di noi non si è trovato a girare in maglietta a novembre. Poi ho fatto cenno al Sacro e mi sono chiesto come possiamo abitarlo.
Mentre passeggio sono concentrato e cerco di fare un po di ordine. Penso a tutte le persone a cui voglio bene e che ho smesso di abbracciare, e al mio corpo di cui mi sono preso più cura del solito e che ho potuto vivere nella lentezza e nella consapevolezza. Il corpo dell’Altro oggi è un corpo osservato con gli occhi, ma noi sappiamo osservare? Trascorrendo più tempo da solo sono più presente alla mia esperienza corporea, ma noi siamo abituati ad essere presenti al nostro corpo? Mi chiedo quali opportunità ci offra questo passaggio storico e mi viene in mente una perfomance dell’artista serba Marina Abramovic (The artist is present - MoMA, NY, 2010) durante la quale lei ha trascorso tre mesi seduta quotidianamente durante l’intero orario di apertura del Museo MoMA guardando negli occhi quei visitatori che desideravano sedersi difronte a lei (vedi immagine accanto presa dal sito Wikipedia). Ecco, mi dico, abbiamo l’opportunità di educare lo sguardo, di imparare ad osservare i moti dell’animo umano tra le pieghe del corpo dell’Altro, dalla sua mimica, le sue posture, la dilatazione delle sue pupille, il colorito della sua pelle. In questo era bravissimo il grande Milton Erickson, un genio della psicoterapia.
Ma abbiamo anche l’opportunità di imparare a stare con noi stessi nella lentezza, ascoltando il nostro corpo, ed accogliendo ciò da cui siamo attraversati, emozioni, pensieri, ricordi. Il distanziamento forzato può quindi aiutarci a stare nella lentezza, talora a fermarci, e ad esplorare quelle esperienze di intimità con gli altri e con noi stessi che altrimenti potrebbero restarci precluse. Mi riferisco qui al distanziamento, appunto, e al desiderio di raggiungere e di accogliere in qualche modo l’Altro, imparando, attivando o affinando determinate competenze, e non certo all’isolamento, nel quale peraltro una serie di persone sono in questo periodo purtroppo precipitate.
Continuo a passeggiare mentre la luce piano piano scompare dal cielo e si accendono i lampioni. Rifletto ancora sulla pandemia come opportunità, e quello che mi appare evidente è la necessità di apprendere ad abbracciare le persone con le parole. Ti abbraccio, mi prendo cura di te e di me, parlando, dialogando.
Mentre penso a queste cose mi appare come grave e inaccettabile la totale assenza di un’educazione sentimentale a scuola, e spesso anche nei rapporti fra genitori e figli. Ho appena finito di leggere due libri che trattano temi affini. La scuola e l’arte di ascoltare di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli (Feltrinelli, 2014), e Diventare grandi, insieme. Fare i genitori con l’aiuto dei bambini di Silvana Quadrino. Nel primo libro si raccontano una serie di storie di mediazione dei conflitti a scuola, sia tra gli studenti che tra quest’ultimi e gli insegnanti, e di come tale mediazione si fondi (tra le altre cose) sulla capacità di ascolto attivo, sulla messa tra parentesi dei propri pregiudizi e sulla creatività nella co-costruzione di soluzioni. Nel secondo libro l’autrice definisce l’osservazione e la descrizione come gli strumenti più preziosi di cui dispongono i genitori nella relazione con il proprio bambino.
“Prova ad osservare tuo figlio – qualunque età abbia – alle prese con un momento impegnativo: un gioco, il tentativo di fare qualcosa da solo, un litigio con un altro bambino. Poi prova a raccontare quello che hai visto evitando accuratamente aggettivi o definizioni su “come è”: limitati a raccontare quello che vedi”. (Quadrino S., Edizioni Uppa, 2019)
Ecco, questa capacità di ascoltare/ascoltarsi, ma anche di osservare/osservarsi, sono dal mio punto di vista la base per poter sviluppare un lessico dei sentimenti e dei vissuti, e per poter individuare le giuste parole in grado di restituire a chi ci siede di fronte quella che è la nostra esperienza relazionale ed esistenziale. Tutto ciò può essere fatto nel distanziamento. Sedendo ad un bar o ad un parco, distanti tre metri e indossando le mascherine. Si tratta di colmare la distanza fisica con la costruzione di un’intimità fatta di ascolto, osservazione, consapevolezza, e di un dialogo che ha le parole giuste per parlare di ciò da cui siamo attraversati mentre entriamo in relazione.
Ormai calano le ombre della sera e affretto il passo. Mi viene in mente che è tanto tempo che non vado nella mia piccola casa in Umbria. Mi mancano i boschi di castagni, gli odori della terra, le upupe che improvvisamente sfrecciano nel cielo. Mi riprometto di non lasciar passare troppo tempo e di tornarci per abbracciare gli alberi e per tentare la fortuna di incontrare un riccio, uno scoiattolo o forse un picchio reale.
Poi però rallento il passo perchè si affaccia un pensiero che mi costringe ad allargare la visuale. La realtà è più complessa. Di fronte al virus non siamo tutti uguali e per molti quell’opportunità che forse è già di per se difficile cogliere, diventa una sorta di chimera.
Penso alle persone che già da tempo in Italia si trovavano in una condizione di povertà assoluta o relativa (rispettivamente 1.7 milioni e 3 milioni di famiglie – dato ISTAT del 2019) e che con la pandemia vedono ora aggravarsi le proprie condizioni di vita a causa dell’aumentata disoccupazione. A tal proposito i nuovi poveri sono invisibili. Ad esempio negli USA vanno alle mense “bank food” con l’automobile pulita e gli stessi vestiti con cui andavano a lavorare fino a pochi mesi prima (Riotta G., Huffingtonpost, 30 novembre 2020). Ma penso anche a chi ha figli piccoli o con handicap, e che non ha potuto ne può tuttora contare sul sostegno della scuola, dei servizi sociali, o più semplicemente dei nonni. In tutti questi casi può essere veramente proibitivo cogliere le opportunità di crescita personale a cui facevo cenno prima, e al contrario spesso crescono il risentimento, il conflitto e l’incomunicabilità.
Comincia a fare freddo, guardo le foglie gialle e rosse sui rami e quelle cadute a terra e di nuovo allungo il passo. Poi un pensiero, o meglio una domanda, come una nuvola, si affaccia nel cielo della mia mente. Come possiamo esprimere ciascuno il proprio potenziale, avere pari opportunità, essere in qualche modo se stessi, pur collaborando con gli altri, e comunque sempre dentro ai vincoli ecologici posti da Gaia?
Come possiamo costruire una società conviviale e sostenibile?
Si, come possiamo costruire una società conviviale e sostenibile?
Poi arrivano altre domande……
Come può la nostra specie esprimere la propria creatività, la propria generatività, pur mantenendosi dentro ad un percorso co-evolutivo con l’ambiente che sia orientato alla salute?
Affretto il passo. Ormai è buio e voglio tornare a casa. Respiro profondamente e penso “sono vivo!”. Percepisco la simmetria del mio corpo, lo scorrere ciclico del sangue e il battito del cuore, sono vivo, e come ogni sistema vivente anch’io sono uno dei punti di arrivo di milioni di anni di storia. Ecco perché dei sistemi viventi è meglio parlare con delle storie……si, è così, eppure le parole, i discorsi, non fanno che disconnetterci dal mondo, il quale non sarebbe abitato da neanche una parola se noi non ci fossimo.
Respiro e svuoto la mente.
Respiro camminando.
Sono vivo.