di Ersilia Bosco
Socia Ordinaria AIEMS, Roma
Psicologa clinica, Psicoterapeuta
Chiara Lorenzetti Kintsugi, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Aprile 2020: Quarantena
Una tiepida giornata primaverile. In fila per la spesa al supermercato. Si rispetta il distanziamento fisico e l’ordine d’arrivo. Tutti con la mascherina, alcuni anche con guanti e occhiali. Alla mia sinistra, oltre il muretto che delimita l’area del market, un giardinetto e al centro un albero in fioritura, un ciliegio credo, per i fiori bianchi e la corteccia lucida. Non ci avevo mai fatto caso prima. Sorrido a tanta inaspettata bellezza e cerco uno sguardo per condividere la gioia della scoperta. Trovo occhi fissi sul cellulare a scrivere o leggere, orecchie con le cuffie. Un uomo alto grosso sudaticcio, tuta col cappuccio e pantaloni cascanti che lasciano scoperta un pezzo di pancia, sbuffa nervoso e fissa l’entrata controllando il turno. Nessuna possibilità di contatto. Respiro a fondo e nel rivolgere lo sguardo al mio ciliegio intravedo un gatto, bianco con il muso nero, che volta leggermente il capo e per pochi secondi fissiamo insieme l’albero. Poi si allontana. Continuo la fila. Un sorriso dietro la mascherina.
L.A. è anestesista presso un ospedale pubblico del Lazio. Il nostro rapporto prosegue soprattutto via cellulare; ha poco tempo e preferisce sentire la mia voce, “mi commuove dottoressa”. Mi chiama regolarmente dalla sua auto durante il lungo percorso per andare al lavoro. Turni molto pesanti, paura di diventare un vettore d’infezione per il suo bambino, rabbia per la “sorveglianza sanitaria dinamica” che consente di lavorare ma non di uscire per la spesa, sofferenza per la sofferenza dei pazienti, inasprimento del rapporto con l’ex marito che l’accusa, tra l’altro, di essere incosciente. Il provvedimento improvvisato del dirigente (trasferire i pazienti meno gravi in un altro reparto per far posto nella rianimazione) fa esplodere la sua rabbia quando si accorge che non sono rispettate le misure di sicurezza: disobbedisce e minaccia di licenziarsi. Alza la voce fino a urlare, risponde duramente ai colleghi del reparto incriminato, piange. Per lei, donna ipercontrollata, estremamente rispettosa dell’autorità, poco fiduciosa nelle propria seppur eccellente e comprovata competenza professionale, è un evento sconvolgente. Racconta che da quel giorno i colleghi del reparto COVID l’accolgono “con morbidezza”. Al mio invito a cercare di creare momenti di confronto e scambio risponde che “da QUEL giorno lo facciamo…prima ci cambiavamo e basta, adesso è venuto spontaneo che prima o dopo il turno ci fermiamo insieme e ci raccontiamo quello che ci succede …una mia collega è isolata a casa ...i genitori che vivono con lei, le portano il pasto in camera “così mangi caldo”...see…peggio che gli untori altro che eroi…mi solleva molto questo...incredibile ma riusciamo anche a ridere e scherzare…l’infermiera l’altro giorno mi ha detto “…attenta dottorè [dottoressa] che pure a lei ci mettono un tappo in bocca eh!”
Rischio di perdermi in questo tempo fuori squadra, sommersa da una marea di notizie spesso dissonanti e contrastanti espresse con linguaggio guerresco di vittorie e nemici da sconfiggere, che cascano addosso come acqua sporca e si contano con stupore i caduti come se la sorella morte non facesse parte della nostra vita. Un allarme costante che provoca una distorsione cognitiva con lo spazio che si restringe e il tempo si dilata. Mi difendo come posso: metto in ordine la libreria riuscendo faticosamente a eliminare alcuni vecchi libri; restauro il tavolo di ferro del terrazzo, pulisco con cura, cucino cose buone, ascolto, dialogo anche a distanza, disegno, scrivo, leggo, pratico il Taiji. Cucinare mi è sempre piaciuto e trovo gusto nel condividere gli gnocchi e la torta di mele con l’anziana signora del terzo piano. Sogno molto di più del solito e antichi fantasmi ritornano. La relazione con l’altro, con le cose, la natura, le persone e con il mondo intimo di Ersilia, emerge in tutta la sua maestosa necessità. Il sapore dolce amaro di una nota seppur sottaciuta verità: non siamo che relazione. Tale il bisogno, il desiderio di condivisione che si riesce a trovarla anche nei posti e nei momenti più improbabili durante la fila per la spesa, in un reparto di rianimazione. Gli eventi naturali, qual è la pandemia attuale seppur provocata dallo sfruttamento insano delle risorse, e gli altri animali (perché siamo animali seppur enormemente più insipienti e predatori) ribadiscono, attuando modalità proprie di contatto per noi insospettate e crudeli, che siamo sono piccola parte di un tutto. Il bisogno del contatto con l’altro è fondante e fondamentale: il bisogno costitutivo di cure tattili neonatali e in precedenza il travaglio, come prima forma di cura tattile in cui come nella vita si mescolano piacere e dolore, sensazioni termiche e di contatto. Ciò è tanto vero che non può sopravvivere alcun essere umano privo di tatto. E si cerca e si trova il contatto in mille modalità: impastando, scartavetrando, disegnando…. e anche fumando. Fumare non è un generico ritorno all’infanzia bensì (Desmond Morris, Intimate behaviour, Random House, New York 1971) un segnale della neotenia umana, della sua effettiva permanenza, una potente forma d’intimità simbolica con cui si compensa in qualche modo la mancanza d’intimità del mondo occidentale tattofobico (Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio, Editori Riuniti. Roma 2003). Un normodotato anche in periodo di quarantena può parzialmente compensare con la vista e l’udito la carenza di relazioni e di contatto imposta dal distanziamento che preferisco definire «fisico» piuttosto che «sociale» poiché restiamo sociali seppur distanti e si rischia di ipostatizzare una condizione eccezionale. Al contrario per un cieco non poter toccare rappresenta una limitazione congelante e un capovolgimento paradossale: da strumento prezioso di conoscenza e intimità il tatto diventa una pericolosa fonte di contagio. Per un sordo oralista non vedere le labbra dell’interlocutore e percepire una voce distorta dalla mascherina ostacola ulteriormente l’integrazione sensoriale e la conseguente comprensione del messaggio verbale e anche per un sordo segnante mantenere il distanziamento fisico e non percepire distintamente le espressioni facciali rende ardua la condivisione. Contattandoci, la pandemia rivela le stridenti diseguaglianze, non solo economiche e sociali.
Ottobre 2020: Contatto & Contagio
Il respiro del bambino che viene al mondo è un primo atto di fiducia, dice padre Enzo Bianchi, un grido e anche la speranza che valga la pena, che ci sia ad accoglierlo il contatto morbido e odoroso col corpo della madre. Respiro e contatto, due dimensioni essenziali per la vita, sono diventate in epoca Covid pericolose fonti di possibile contagio mentre continuano a essere indispensabili per vivere e conoscere sé stessi e l’altro: il respiro che si fa corto mi segnala la faticosità del cammino, mi toglie il fiato l’incontro con l’amato, respiro a fondo per assorbire la bellezza dello scintillare del mare dopo la pioggia; starti vicino è vero che fa sentire anche l’alito cattivo ma solo così percepisco la piega amara all’angolo della bocca proprio mentre dici quella parola e avverto il ripetuto sfregare del pollice sull’indice di quando sei nervosa; ti sto vicino e capisco che mi stai davvero ascoltando che muovi leggermente la testa a sinistra per porgermi l’orecchio migliore.
GB, sordocieco, se non tocca non conosce e se non lo tocco non sente la mia presenza né posso parlare con lui. Limitato ulteriormente dai confini imposti dal tempo Covid ha migliorato di molto l’uso della tastiera Braille e scrive mail quotidiane e per restare in contatto parla di tutto e mi descrive cosa ha mangiato a pranzo e cosa mangerà a cena.
SB, sordocieco portatore di impianto cocleare bilaterale, di propria iniziativa ha cercato un nuovo accompagnatore: “Non è che la signora Rosa non fosse una brava persona ma troppo lamentosa e difficile per me starle vicino per il suo odore, mica posso dirglielo che puzza ... lei è volontaria e poi aveva paura di andare in giro con me sempre tutta rigida e troppe indicazioni attento qua metti il piede là…uno strazio”. Si è attivato per far tradurre in braille la copia in nero di Orizzonti della cecità. Piacere di esistere, confronto con il limite, integrazione scolastica (Mario Mazzeo, Edizioni Erickson, 2019) che gli ho regalato. La versione sonora del cd allegato non lo soddisfa “Ci sento bene con i miei impianti ma la voce che legge non mi piace … troppo fredda… io mi ricordo la voce di Mario e voglio leggerlo a modo mio e fermarmi e tornare indietro quando mi va…quando leggo in braille sono più libero di pensare".
VM è un’insegnante sorda di scuola secondaria, molto a disagio con la mascherina “mi sembra anche di vederci male se non respiro liberamente”. Coinvolge il preside che fa arrivare quelle trasparenti “certificate con marchio CE della Under Shield. Un grosso sollievo. Queste mascherine si appannano un po’ ma quello che vedo mi basta per capire, qualche volta faccio ripetere più di una volta. Un problema a cui non ci avevo pensato è quando loro parlano, i compagni sentono male, perché è sempre una barriera di plastica. Quindi quando devono fare lunghi interventi, li faccio venire sempre alla lavagna, come mi hai consigliato tu e la faccio abbassare” ed esprime una insospettata capacità di ironia “un alunno, pensando di approfittarne, faceva i rumori con i piedi e sotto banco, allora ho fatto la battuta «ci sento poco, ma un poco ci sento!» allora quell’alunno ha capito al volo e ha smesso subito di fare confusione”. Scopre con una certa meraviglia la capacità di adattarsi velocemente alle varie regole e anche la personale tranquillità in confronto con le colleghe che a volte esagerano con le prescrizioni o al contrario esprimono insofferenza: “Nei primi giorni di scuola ho visto colleghi terrorizzati e ansiosi per la ripresa delle lezioni con tutte le misure di distanziamento. A volte non volevano abbassare la mascherina per parlare con me, ma ora si sono un po’sciolti. In generale vedo che disinfettano tutto fino allo stremo e tanta ansia, paura, terrore, preoccupazione”.
In Campania la preside della Vanvitelli, Ida Francioni, con la collaborazione degli insegnanti di sostegno è riuscita ad aprire la scuola per i 49 allievi disabili, proprio per quelli che con la DAD (Didattica a Distanza) “resterebbero esclusi e privati dalla presenza dell’altro”.
Il confronto costante con il limite da parte di persone con disabilità sensoriale e di chi con competenza si prende cura di loro sembra in qualche modo agevolare nuove modalità adattive per lo meno da parte di coloro i quali non assumono il limite sensoriale come mortificante privazione e operano per potenziare compensativamente i sensi residui e valorizzare le diversificate possibilità individuali.
Non siamo che relazione fuori e dentro di noi. La relazione con l’altro, la vicinanza sociale, la partecipazione è fondamentale per tutti particolarmente per i soggetti in età evolutiva. Al tempo del coronavirus i giovani da promettenti rappresentanti del futuro, portatori di idee nuove da realizzare anche in maniera contrastante con il pensiero dominante, diventano esseri potenzialmente pericolosi non per le loro idee contestatrici ma perché possessori di un corpo vivace che se non controllato diviene veicolo di infezione.
Le parole contagio e contatto condividono anche la radice latina (contingere: «toccare, afferrare, essere in contatto») e mostrano una stretta parentela con connessione (cum nectere: «unire strettamente»). La narrazione del capitalismo globalizzato esalta le meraviglie di un mondo sempre più in splendente connessione; i confini vengono presentati come buoni muri protettivi per impedire invasioni di stranieri, negando la verità che siamo da sempre migranti o al contrario disinvoltamente ridotti ad antiquati ostacoli nazionalistici da cancellare per appropriarsi di terra e risorse dimenticando che la terra non ci appartiene e siamo solo ospiti e per di più come temporanei rappresentanti di una tra le tante diversificate forme di vita. In tale contesto essere connessi ha significato ciò che tuo è mio: sfruttare e depredare le terre fertili dei paesi arretrati a favore della bulimica ingordigia dei paesi avanzati, spargere sempre più il veleno di bisogni indotti e consumismo sfrenato. Contagio è anche quello che viene dal mondo della finanza poiché l’andamento delle borse tocca la nostra vita basti pensare alla sua influenza sull’andamento del mercato immobiliare e come possa bruciare la possibilità di accendere un’ipoteca per l’acquisto della tanto sospirata casa.
Altra forma di contagio può essere considerata la moda: le preferenze di tutti contagiano le mie rendono un oggetto più desiderabile perché molto caro e possedere l’ultimo costoso modello di hi-phone diventa necessario per non sentirsi dis-connessi, fuori gioco.
Il Covid agisce stravolgendo il paradigma ciò che tuo è mio in ciò che è mio è tuo (Marco Mazzeo, Ciò che mio è tuo. Magia e tecnica nell’epoca del contagio Sezione Sintomi della rivista on line «Machina» www.machina- deriveapprodi.com): contatti il mio corpo infetto e il mio virus diventa il tuo. Per evitare il contagio dobbiamo evitare il contatto e per evitarlo dobbiamo comportarci come se fosse sempre presente e assumere abitudini igieniche che facilmente si possono trasformare in riti ossessivi: “Da un lato il contagio è un concetto che non solo descrive ma genera il fatto di cui parla. Per evitare il contagio, bisogna assumere la sua incontrollata presenza. La grammatica del contagio trasforma il possibile in reale” (ivi, p. 27). Si può imparare a tollerare la mascherina e abituarsi a un lavaggio frequente delle mani e pigiare il tasto dell’ascensore coprendo le dita con un fazzoletto di carta e preferire di salire a piedi per evitare di condividere il respiro del condomino che sta pure antipatico. L'adattabilità dei bambini preoccupa, e stupisce che riescono a giocare con tutto, e mio nipote di 10 anni accompagna il rituale del lavaggio mani al ritmo della Macarena. Per persone delicate e fragili tali riti possono provocare turbamento in già improbabili equilibri di vita. La signora Maria ha ricoperto con vecchie lenzuola e asciugamani gli arredi di casa e con teli di plastica ha creato uno corridoio per passare dal bagno alla cucina che igienizza due volte al giorno; con un sorriso furbetto dice “ho messo la mascherina alla casa… hai visto mai… che qua nessuno sa come stanno le cose e io mi proteggo… non sono matta sono solo previdente che poi si scopre che appoggi la borsa della spesa sul tavolo e zacchete… è fatta”. Una pena le sue mani screpolate e quasi piagate per l’uso frenetico di liquidi e saponi disinfettanti.
Al mercato il signor Pietro gira tra i banchi senza mascherina e lui, solitamente gentile anche se un po' forastico, mi guarda e dice che lo faccio ridere “con gli occhiali e sta benda me pari ‘n gufo … ma di che c’hai paura? E credi a quello che dicono i così detti esperti? Io l’ammazzerebbe tutti a questi che ci prendono per il @@@@ prima ci tolgono l’ospedali e mi fanno pagare il ticket e mi riducono la pensione e poi si preoccupano di me che so’ vecchio e me ne dovrei sta a casa … a fa’ che? Aspettà de morì!”
Da ragazza scrivevo che preferivo riparare con cura un vaso rotto piuttosto che comprarne uno nuovo con i soldi di papà, personalissima e inconsapevole adesione alla pratica giapponese del Kintsugi che rende più belle le cicatrici trasformandole in oro. L’ottimismo della volontà fa scoprire le pagliuzze d’oro a disposizione. Non so se basteranno a sanare le ferite. Non so se sapremo fare tesoro di quanto sta accadendo e prenderci cura ognuno del proprio spazio e contatto.