di Sista Bramini
Socia Ordinaria AIEMS, Roma
Regista, performer teatrale, direttrice della compagnia O Thiasos TeatroNatura
Foto di Pexels da Pixabay
Aprile 2020: Il Corona Virus e le metafore del reale
Se uno non spera l’insperabile non lo troverà,
perché è introvabile e inaccessibile
Eraclito
Fin da subito ho provato inquietudine e irritazione per l’uso della metafora bellica connessa alla pandemia in atto. Mi sentivo in allarme, ma non capivo a fondo perché. Associavo le nostre strade vuote alle città russe durante le guerre di ritirata contro Napoleone e Hitler. Forse il paradosso di una guerra da vincere sottraendosi al nemico, poteva aiutarmi a comprendere la complessità della situazione? Invece chi usa questa metafora si riferisce proprio alla guerra d’aggressione, alla terribile consuetudine alimentata e sedimentata nella nostra coscienza in millenni di distruzione reciproca.
Il virus è spietato e non guarda in faccia a nessuno proprio come ogni guerra dove il “nemico” gioca in realtà solo un ruolo intercambiabile. Eppure la metafora della guerra santa è sempre pronta e il nemico esterno ancora unisce tutti sotto la stessa patria bandiera.
Ma io di trincee, non ne vedo. Vedo medici, infermiere e infermieri che con sforzi enormi e dedizione umana e professionale cercano di salvare persone fragili e gravemente ammalate che peggiorando finiranno per morire sole; vedo che spesso danno la loro vita per questo straordinario compito.
Non vedo insomma un mondo in guerra, ma un mondo gravemente ammalato, angosciato e stordito che ancora non trova la cura giusta.
La metafora bellica continua ad alimentare l’idea che il fine giustifichi i mezzi e, sfruttando la drammaticità della situazione, tende a legittimarsi nel nostro subconscio come soluzione non solo metaforica, ma concreta: il mondo infatti trabocca di guerre reali. Ma soprattutto m’inquieta perché vampirizza l’emergere di narrazioni che, più attente alla complessità della realtà in corso, saprebbero orientarci verso una trasformazione culturale ormai necessaria e intercettare forse un mondo nuovo. Il virus è la conseguenza sintomatica di una malattia culturale che possiamo chiamare “la mente patriarcale” che, sfruttatrice, guerrafondaia e convinta che il suo sia l’unico mondo possibile, ci sta distruggendo.
Nella clausura del mio piccolo appartamento, passo il tempo da sola, con qualche oscura ansietà ma senza paura per la mia vita o per quella dei miei cari che immagino al sicuro. Non conosco nessuno che si sia ammalato gravemente. Vivo momenti di angoscia pensando a una catastrofe economica che sembra inevitabile ma che non ho ancora messo fuoco, e provo grande pena di fronte ai reportage sugli ospedali che vedo in tv. Ma nella dimensione sospesa di un silenzioso limbo planetario sperimento però anche uno strano senso di avventura, attimi d’insperata serenità, un maggior senso di realtà e una maggior continuità della mia presenza nel “qui e ora”.
A parte qualche piccolo video in cui leggo una poesia o un breve racconto, anche il mio lavoro è in quarantena. Non so ancora come, ma sento che subirà una trasformazione. Non penso solo alla sorte del teatro in generale, ma proprio al senso e alla forma dei miei progetti teatrali.
Secondo il regista teatrale Eugenio Barba, stiamo vivendo “tempi artistici”. È proprio quello che avverto. È come se fossi finita in un film o in un romanzo in cui una drammatica, alterata quotidianità trasfigura poeticamente la realtà. Questa sensazione extra-ordinaria non mi allontana dalla concretezza dell’esperienza ma mi induce a viverla come una metafora trasformativa. Forse per questo il paragone con la guerra m’inquieta tanto, perché offusca la visione di una metamorfosi di cui vorrei avere maggior chiarezza.
Intanto in tutto il pianeta l’inquinamento si rarefà e il cielo splende più azzurro che mai. Arriva una magnifica primavera e nel silenzio gli animali finalmente respirano più fidi. Alcuni trovano spazio nelle città come se noi fossimo spariti. In questi giorni mi sento connessa soprattutto al silenzio e allo spazio. Forse anche l’animale dimenticato che respira in me esce cautamente un po’ allo scoperto e si guarda intorno…
No, nessun bombardamento, le case non crollano. Le file ai supermercati non sono perché il cibo manca ed è razionato. Nessuna guerra sta falciando con sanguinosa determinazione donne, bambini, civili innocenti. Almeno non ancora.
Edipo, il re, durante la peste di Tebe si aggira indignato per la città in cerca del colpevole. Chi è stato che, alterando l’equilibrio naturale delle cose, ha irritato gli dei e ha attirato la pestilenza? Incalzato, Tiresia l’indovino, gli risponde. “Edipo, non vorresti mai saperlo eppure quello che cerchi… sei tu”. Offeso, il re lo irride: “Vecchio ciarlatano non capisci che io sono il giusto che debellerà il nemico e salverà la città?” La parte più emozionante della tragedia è sempre lo svelamento della verità quando Edipo è finalmente costretto a fermarsi di fronte a un enigma più profondo e doloroso di quello che risolse in gioventù contro la Sfinge. Si scopre addirittura parricida e generatore di figli con sua madre e deve ammetterlo: “La stortura della natura sono io.” Per gli antichi l’inconsapevolezza del delitto è forse più grave della consapevolezza, è essa stessa il delitto. Non per punirsi dunque, ma per divenire metafora vivente, manifesto della sua stessa cecità, Edipo si acceca, si priva della vita che conduceva e si allontana verso una quarantena di sofferenza purificatrice ma anche foriera di percezioni nuove: chi guidava i destini di tutti ora è cieco e può muoversi solo appoggiandosi a una ragazzina, sua figlia Antigone, che qualche anno dopo, proprio opponendosi alle leggi della guerra difenderà con la vita il diritto alla
pietà fraterna. E d’improvviso immagino Donald Trump con gli occhi insanguinati e la mano sulla spalla di Greta Thumberg che s’inoltra per una quarantena in qualche bosco sottratto ai nativi americani... Che colpo di scena sarebbe!
Nella tragedia antica, al termine del suo doloroso esilio, Edipo diviene sacro. Conteso da Tebe e da Atene è ora un essere che “porta bene” dovunque arrivi. Ancora una volta, il mito antico mi viene incontro come enigma sulla contemporaneità da interrogare come un oracolo.
Non a caso a Epidauro l’ospedale e il teatro erano edifici limitrofi. Forse allora la percezione della complessità della relazione tra salute e malattia era più tangibile. Edipo non pensa neppure un momento che la peste sia colpa di un virus, sa che solo l’essere umano può alterare l’ordine naturale delle cose e perciò compiere azioni dannose. Ancora sa che la Natura, la Mente che tutto connette di cui parla G. Bateson, è sempre innocente e saggia e, benché in parte insondabile, va interrogata perché ci guarisca.
La metafora che da questa pandemia sorge in me mi dice che il virus siamo noi. Siamo fermi, perché infetti: allo stesso tempo untori e infettati.
Come cicatrizzare la cesura, la ferita che ci scollega dalla Natura e, sanati, fluire di nuovo nella la rete vivente di cui siamo parte?
In questi giorni di solitudine in cui il mio terrazzino sospeso all’ultimo piano è divenuto l’universo, una cornacchia ha sostato tranquilla per alcuni minuti a 40 centimetri da me che facevo colazione. Emozionata, dopo un po’ non ho resistito e sia pur con cautela ho preso il cellulare per una foto. Chiaramente la cornacchia è subito volata via lasciandomi di nuovo sola e con la mia incapacità a restare nell’emozione di quell’incontro ravvicinato: in quel momento ho sentito in me il “virus”.
Nel terrazzino ho anche passato alcune ore di benessere a detergere dalla cocciniglia, delicatamente foglia per foglia, il limone e l’edera, e per qualche istante mi sono identificata con quelle foglie malate. Da essere umano mi sono percepita in una categoria identitaria ancora superiore perché più inclusiva, in quella di vivente. Sono momenti e mi chiedo: come continuare a respirare i livelli più ampi di coscienza che questa crisi spaventosa ci offre? Non sto parlando delle “idee” che tutti condividiamo già da tempo, ma di un’esperienza reale di trasformazione che va oltre la nostra filosofia cosciente. Durante malattia, crisi, morte, si aprono passaggi verso nuova coscienza di sé e degli altri. Ho imparato che bisogna approfittarne perché questi passaggi poi si richiudono.
Novembre 2020: Ancora metafore tra dentro e fuori. Esperienze, immagini e riflessioni di un’estate e un autunno pandemici
Sembra che abbiamo la capacità di sbagliare in modi piuttosto creativi e tali da fare, di questo mondo che non riusciamo a capire, un mondo in cui non potremo vivere. Gregory Bateson e Mary Catherine Bateson, Verso un’epistemologia del sacro in “Dove gli angeli esitano” Adelphi
Riprendo i miei appunti dalla fine di maggio.
Sono quasi due mesi di totale clausura. Continuando a sentirmi in bilico, comincio ad avere manifestazioni emotive di ipersensibilità che non sono usuali nel mio carattere: piango facilmente e mi commuovo per un nonnulla. Forse questa prolungata interruzione della vita lavorativa abbassando il mio quotidiano tasso d’ansia lascia emergere in me una fragilità malinconica che generalmente tengo a bada?
E d’improvviso, vagando “tra color che son sospesi” vedo l’immagine del sospeso per eccellenza, il famigerato portatore del virus, il pipistrello. Di solito associato a esseri nefasti, vampiri e demoni notturni, almeno nella tradizione esoterica il pipistrello è annoverato tra i simboli della rinascita. Abita anfratti oscuri che ricordano il buio della tomba, ma riposa a testa in giù nella posizione che prende il bambino nel ventre materno prima di nascere. È l’unico mammifero capace di volare e emettendo ultrasuoni sa vedere nel buio più nero. Leggo che il suo spirito è invocato dagli sciamani durante i riti di iniziazione in cui la nuova guida spirituale impara a superare le barriere dell’illusione per accedere ad una conoscenza più reale. In molte tradizioni orientali e per i nativi americani è un animale sacro, portatore di prosperità, profondità interiore e sensibilità empatica.
Secondo il linguaggio metaforico spirituale che abbiamo dimenticato dunque, la prova a cui ci sottopone questa pandemia sarebbe il dono di un animale totemico, il pipistrello, che ci guida a riconoscere il vampiro che è in noi e accoglierlo perché si trasformi nella sacra opportunità di una nuova coscienza? Ma siamo ancora sensibili al potere trasformativo dei simboli sulla nostra psiche? Potremmo ancora integrare questa preziosa facoltà con i farmaci e le narrazioni scientifiche a cui spesso ci affidiamo come a una religione rinunciando alle nostre capacità inconsce di auto guarigione?
Mi stupisco nel registrare un inquietante coinvolgimento, un’inconsueta sensazione di familiarità mentre guardo un film di fantascienza in cui la sopravvivenza del pianeta è messa in pericolo da virus e catastrofi che alterano drasticamente il modo di vivere umano.
Dice Bateson che affidiamo la nostra stabilità alle due cose più relative che ci siano: la nostra cultura e il nostro carattere, e che con questi opinabili filtri ci illudiamo di conoscere oggettivamente la realtà. Naturalmente non abbiamo alternative se non forse attivare un processo di ricerca che ci svegli ad una interpretazione delle cose più complessa e incerta. In questi giorni di quarantena provo a osservarmi. La parte di me che partecipa della nostra cultura ammalata mi è ancora troppo opaca. Non parlo solo di comportamenti sociali consapevoli da mettere in atto e che sono fondamentali, ma di una radice inconscia della mia personalità, determinatasi nell’infanzia e durante l’educazione e che, stabilizzatasi nel mio carattere individuale, orienta inconsapevolmente parte delle mie azioni e relazioni. Sempre seguendo G. Bateson, se capisco bene, si tratterebbe del risultato dei processi di apprendimento 1 e 2 a cui sono saldate le mie nevrosi che non sono che aspetti particolari di una più vasta e pervasiva nevrosi culturale.
Ma c’è anche un’altra faccia del mio carattere, parzialmente svelata in anni di pratica cosciente, più umile e aperta ad una trasformazione personale e culturale (verso l’apprendimento 3?). Per ora ho capito solo che la prima faccia non può direttamente aiutare la seconda: la volontà dell’alcolista da sola non può aiutarlo a disintossicarsi perché la mente che crea il problema non può essere quella che lo risolve. E allora?
Avremmo bisogno di una terapia alternativa che, integrando psicologia, arte, scienza e spiritualità, riesca a sciogliere quegli aspetti (doppi vincoli?) che non avvertiamo consciamente ma che ci adattano allo status quo impedendoci di evolvere. Una pratica terapeutica trasformativa che ci renda in grado di prendere quelle decisioni che o non vediamo o siamo incapaci di attuare. La malattia del sistema culturale che ha condotto la nostra specie alla pandemia e che la candida a causa di una nuova estinzione di massa è stata diagnosticata più volte da poeti, filosofi e scienziati ma solo oggi, da congettura o metafora, penetra nell’esperienza quotidiana personale e collettiva. Anche se la paura della malattia, della povertà e l’urgenza di salvarci la vita monopolizzano la nostra attenzione distogliendoci in parte da analisi profonde e soluzioni a lungo termine, da questa terribile esperienza già emergono domande pressanti sulla qualità della nostra esistenza.
Come vedere la malattia della nostra normalità e imparare a curare anche in noi il pianeta stesso? Cosa può sostenerci nel salto di visione che comincia il suo viaggio dicendo “Il virus sono io”?
Inaspettatamente, mentre il mio terrazzino si colora del tramonto, mi tornano alla mente, quasi fossero un responso da decifrare, i celebri primi versi del secondo canto dell’Inferno dove la metafora bellica che ha aperto queste mie riflessioni torna, ma con un senso tutto capovolto.
Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno/ toglieva gli animai, che sono in terra, / dalle fatiche loro; ed io sol uno/m’apparecchiava a sostener la guerra/sì del cammino e sì della pietate/che ritrarrà la mente, che non erra. /O Muse o alto ingegno or m’aiutate…
Anche il viaggio di Dante è una sorta di quarantena. E la guerra che evoca nel brano citato è una guerra interiore. In oriente troviamo la figura del guerriero spirituale che combatte con il proprio carattere per svelarne i condizionamenti.
Ritirarsi in un isolamento, scelto o subito, per curarsi da malattie fisiche, psichiche e spirituali è una delle pratiche tradizionali di guarigione. Tra queste c’è, oggi meno praticato, il pellegrinaggio (ma ancora alcuni viaggi hanno questa funzione), in cui la persona partendo da sola si allontana dalle abitudini e le attività della sua vita ordinaria e, camminando concretamente verso una meta devozionale, si purifica fino ad aprire in sé una nuova vista e incontrare durante il cammino segni, indicazioni, intuizioni, illuminazioni sulla propria esistenza. In questo tempo fuori dal tempo il pellegrino si trasforma e, rinnovato, ritorna alla vita normale per fecondarla con ciò che ha incontrato e esperito nel cammino. Il ritorno è la fase più critica del pellegrinaggio perché il mondo da cui è partito tende a non riconoscere e addirittura a rigettare colui che torna cambiato. Ed è a questo punto che, secondo alcuni Maestri, ha inizio il vero viaggio, l’impresa estenuante dell’integrazione. Ma la nostra civiltà, con ansiolitici e psicofarmaci ormai probabilmente necessari, forse lenisce troppo il dolore e, anestetizzando le morse sempre più attanaglianti di un sistema ingiusto e folle, forse allontana da noi la possibilità di un possibile viaggio di guarigione esistenziale e culturale.
Il nostro linguaggio, le nostre parole sono le stesse di prima del Covid (la sovrastruttura diceva Marx cambia più lentamente della struttura) ma dentro quelle stesse parole germina già un senso più vicino a un cambiamento in atto che ancora non comprendiamo. Mettersi in ascolto di questo nuovo sentire e trovare un linguaggio che lo esprima è compito dell’arte.
Durante l’estate ho ripreso il mio lavoro di performer teatrale a contatto con i luoghi naturali e siti archeologici. La qualità vivente di uno spettacolo che avviene con il pubblico in presenza fa sì che le parole, i silenzi, i gesti, le azioni ogni volta vengano intesi, rivissuti e interrogati in ascolto di un sentire presente, proprio e del pubblico. Dopo due mesi di clausura mi sono sentita, improvvisamente tra gli alberi o tra le pietre di teatri antichi, come gettata nella tournée, allo scoperto, esposta al pubblico, quasi nuda, non pronta. Avevo paura. Eppure è il lavoro che faccio da più di trent’anni, mi dicevo, la memoria del mio corpo mi sosterrà. Non so perché, ma non ne ero affatto certa. E poi il pubblico sarebbe venuto o avrebbe anch’esso avuto timore di muoversi? Invece il pubblico veniva e con grande emozione mi comunicava, come rinnovato, lo speciale bisogno di contatto che fonda lo spettacolo dal vivo. Mentre mi muovevo e parlavo sul palco percepivo tutta la fame che io e il pubblico avevamo di quel contatto. Quest’emozione era anche accresciuta dall’atmosfera dei luoghi, dal bisogno di natura e di bellezza che tutti, più che mai, sentivamo. Ho compreso solo mentre recitavo il trauma che abbiamo subito in quei due mesi di mancanza di contatto in presenza. Una sofferenza non razionalmente consapevole, ma fisica, una sorta di livello emotivo percepito dalle mie cellule corporee. Questa necessità vitale di contatto l’ho avvertita soprattutto negli spettacoli a luglio, poi da agosto fino a settembre mi accorgevo che qualcosa era già cambiato, le persone arrivavano mosse soprattutto da una fame di senso. Il mistero del teatro, quando funziona, è che il pubblico mentre assiste ha la possibilità di sperimentarsi più intelligente, più sensibile, più intuitivo di quanto non sia nella vita ordinaria in cui spesso è costretto in scopi e funzionalità che tarpano la libertà e la profondità della sua coscienza. Per integrare nella coscienza l’esperienza del dolore, lo spavento e l’isolamento vissuti avevamo bisogno tutti di quella dimensione più ampia e libera.
Quest’estate ho narrato nei miei spettacoli diversi miti antichi: le traversie iniziatiche della giovane Psiche che impara a fondersi con Amore, tre miti da Ovidio legati a catastrofi e rinascite, e ho debuttato con Gaia Flegrea, uno spettacolo che racconta di quando la Madre Terra, dopo aver originato sé stessa e tutti i viventi, viene spodestata dai patriarcali Dei olimpici e, angosciata per le sorti del Mondo, lancia i suoi Giganti contro di loro. In quest’epoca di esperienza collettiva della fragilità umana, il mito sembra risuonare particolarmente perché convoca gli archetipi e getta sprazzi di senso sulla complessità di quanto ci sta accadendo.
Viviamo tempi in cui i luoghi, le parole, gli atti e le esperienze in presenza hanno perso, come diceva W. Benjamin, la loro aura. L’arte dal vivo è considerata come qualcosa di non necessario, superfluo. Forse andrebbe rifondata su nuove basi. In questa seconda ondata del virus la mia categoria lavorativa si è disperata alla chiusura di sale da concerto, cinema e teatri messi a norma con grandi sforzi perché, come altri settori, teme per la propria sopravvivenza economica, ma soprattutto perché realizza in modo ancor più crudele quanto poco riconosciuta sia la necessità della sua funzione culturale e spirituale.
Ho passato la metà del mese di ottobre di nuovo da sola, in preda a una virulenta influenza probabilmente da Covid da cui mi sto lentamente rimettendo. In questa autunnale, nuova presenza del virus ricominciamo a chiuderci in casa, ma non sento più l’energia della sorpresa, il senso di avventura della chiusura primaverile. In questi giorni avverto maggiormente la mia fragilità e quella del nostro mondo, lo stato d’animo è più angosciato e demotivato. Forse devo solo recuperare le forze, ma mi sento di fronte ad una notte strisciante e oscura. Percepisco qualche bagliore lontano, ma è troppo presto per riflettere e parlarne.