di Anna Cappelletti
Socia Ordinaria AIEMS, Foligno
Antropologa, Esperta di pratiche autobiografiche
Foto di Bernhard Schürmann da Pixabay
Aprile 2020: Pandemia 2020: verso una comunità di destino
Quella che stiamo vivendo è una situazione inedita e complessa. Nel tempo appare sempre più evidente che la progressione geometrica del numero dei contagi è legata alle condizioni ambientali causate in buona parte dalla specie umana e dall’indebolimento del suo sistema immunitario.
Ci sono state pandemie terribili e devastanti fin dai tempi antichi, nell’Impero Romano, nel medioevo, più volte nei secoli e anche negli ultimi decenni.
Le reminiscenze storiche, familiari e autobiografiche hanno sicuramente influito sulle considerazioni che hanno accompagnato l’evolversi di questa emergenza, considerazioni radicate nel senso comune, e talvolta supportate dagli scienziati.
Prima si è pensato che era un problema lontano geograficamente, poi che era poco più che una semplice influenza, poi che la scienza ci avrebbe comunque difeso, poi che i governi avrebbero preso le giuste misure, poi, con incredibile cinismo, che colpiva soprattutto persone anziane “con patologie pregresse” e alla fine che, chiudendoci in casa, comunque l’avremmo scampata, avremmo sconfitto il nemico, sarebbe andato tutto bene.
Una serie di considerazioni semplici, lineari, causa-effetto, che fanno riferimento a teorie conosciute, a paradigmi riduzionisti e facili, alle metafore della guerra, dei vincitori e dei vinti.
Alzi la mano chi non è stato “contagiato” almeno in parte e almeno da alcuni di questi pensieri.
Alla fine la soluzione è apparsa a tutti accettabile: chiuderci in casa, chiuderci nei confini.
Lockdown.
Rinuncia ad alcuni fondamentali diritti, alla ritualità, al movimento, ai parchi, alla convivialità.
Per il bene di tutti. Tutti abbiamo convenuto.
Credo che per me l’esperienza più sconvolgente relativa a questo periodo sia stata quella di rendermi conto di provare tanti sentimenti contrastanti, tante emozioni, consapevolezze, così diverse, intense, contraddittorie in poche settimane.
La chiusura mi ha fatto ritrovare improvvisamente con la possibilità di dedicare molto
tempo ad attività che amo, a passare molto tempo con due dei miei figli, (non con mio marito che è medico e ha continuato ad andare al lavoro), a cucinare con loro, a poter usufruire di moltissime offerte di attività on line.
Godere del silenzio (le finestre della mia camera si affacciano su un grande cortile circolare con diverse proprietà, e, in 28 anni che abito qui non c’è mai stata una primavera senza lavori di aggiustamento: rumore di trapano, tubi innocenti, betoniere…)
Trovare soluzioni inconsuete originali, divertenti, come andare a fare yoga sulla terrazza condominiale, in mezzo ai panni stesi.
Tutto ciò mi faceva provare un sentimento di benessere e di armonia.
Però strideva molto con quanto provavo ogni volta che, ascoltando il tg, sentivo le notizie della sofferenza e dei lutti. E strideva anche con la preoccupazione di sapere uno dei miei figli e la sua compagna confinati a Milano in un appartamento molto piccolo e senza il minimo spazio esterno. E con la paura che potessero essere contagiati soprattutto perché fino a poco prima del lockdown, per lavoro, erano entrati in contatto con un gran numero di persone.
E infatti mio figlio si è ammalato. E mentre si aggravava giorno dopo giorno, senza che un medico andasse a visitarlo - nonostante le molte telefonate e richieste ai numeri dedicati, cresceva in me il senso del limite, mio e del sistema sanitario. Solo quando è stato evidente, a chi ha raccolto la sua ennesima richiesta telefonica, che respirava con difficoltà, un’ambulanza è andata a prelevarlo, è stato portato in ospedale, verificato che aveva la covid-19 ed è stato ricoverato.
Non credo di aver mai provato in modo così forte la sensazione di totale impotenza: quella di non essere libera di muovermi, quella di non poter proteggere, di non poter essere vicina, quella di non poter toccare e abbracciare.
Mi sono sentita menomata, come essere umano e come madre.
Il soggiorno di Niccolò in ospedale ha reso chiaro a lui e a noi che questa malattia è veramente pericolosa, perché lui ha visto aggravarsi repentinamente persone che fino a poco prima sembravano stare bene; che i medici e tutto il personale è competente, accogliente, disponibile e capace di inventare ogni giorno soluzioni per ampliare i posti letto ricavandoli in ogni angolo dell’ospedale; che gli ospedali in Lombardia funzionano bene, mentre la medicina sul territorio è latitante (i tamponi di controllo della guarigione stanno tardando di settimane, costringendolo a rimanere a casa come un recluso).
L’esperienza della malattia di Niccolò mi ha fatto anche capitolare in meno di mezza giornata riguardo a whatsapp, che mi sono sempre rifiutata di installare, per quanto tirata per la giacchetta da amici e parenti.
Mi sono così trovata dentro una rete familiare, di ricerca, amicale - e a condividere con loro la quotidianità, scambiare con piacere informazioni, esperienze, emozioni: tutto quanto potesse farci sentire vicini. Ho notato che ciò che ci scambiamo ha soprattutto due funzioni: quella di informare e quella di farci star bene. A questo secondo gruppo appartengono molti materiali che coincidono con quanto è emerso nei laboratori autobiografici del LES quando abbiamo raccontato esperienze di salute: poesie, ricordi, musica, foto di gruppo, di momenti conviviali, opere d’arte, filmati divertenti, ambienti naturali e rapporto con gli animali.
Questo bisogno di connessione e armonia con la natura, con la terra, con gli esseri viventi sembra essere protagonista. Siamo in molti a notare che le poche settimane in cui “gli umani” hanno alleggerito la loro impronta sulla terra abbiano già prodotto, un’evidente ripulitura dell’aria e dell’acqua, e una ripresa del protagonismo degli animali.
Intorno a casa ho molte piante ed ho notato un intensificarsi del tempo e della varietà del canto degli uccelli. Negli ultimi giorni si assiste a una sorta di concerto che dura per ore, una meraviglia che allieta orecchie e cuore.
Nel giro di un tempo incredibilmente breve si è reso evidente in modo sconvolgente e tremendo che l’ambiente, gli esseri umani, i sistemi sociali ed economici sono caratterizzati da complessità e incertezza, e sono legati gli uni agli altri da un destino comune.
Che senso ha parlare di ritorno alla normalità? Questa espressione mi fa più paura della possibilità del contagio. A quale normalità vogliamo tornare?
Dicembre 2020: esperienze e riflessioni in evoluzione
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po'
(…)
L'anno vecchio è finito ormai
Ma qualcosa ancora qui non va.
(…)
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando
(…)
E se quest'anno poi passasse in un istante,
Vedi amico mio
Come diventa importante
Che in questo istante ci sia anch'io.
L'anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando è questa la novità
(Lucio Dalla)
Ho faticato molto a scrivere questo contributo, seppur breve, perché non riuscivo a trovare le parole per esprimere il crescendo di preoccupazione e indignazione che provo in questo periodo.
Poi mi sono ricordata di un piccolo libro da cui fui colpita – e attratta – qualche anno fa in una delle mie perlustrazioni in libreria, intitolato “Manifesto degli economisti sgomenti” (Minimum Fax, 2012). Era il 2012 ed eravamo in piena crisi economica.
Per quanto non fossi un’esperta di economia, mi sembrava impossibile che le ricette delle istituzioni dovessero essere così tragicamente semplici, tutte orientate a quell’austerità senza rete che fece deflagrare interi comparti manifatturieri, riducendo in povertà milioni di persone e spingendo al suicidio imprenditori e padri di famiglia, e che distrusse intere economie nazionali, come quella greca. Il libro metteva in evidenza quanto fossero riduzioniste le soluzioni che venivano proposte come inevitabili e faceva intravedere altre possibilità.
In realtà il titolo originale era Manifeste d’economistes atterrés, quindi atterriti, o spaventati o sconcertati.
Ognuno di questi aggettivi descrive il mio stato d’animo attuale, ma sgomento è il termine più adatto perché, oltre alla preoccupazione, contiene anche quel tanto di stupore che sicuramente contraddistingue i sentimenti che provo in questi ultimi mesi. Sgomento non tanto nei confronti della pandemia, ma di tutto quello che c’è intorno: le scelte politiche, la comunicazione, lo scientismo, le analisi, l’informazione, l’atteggiamento dei tecnici, le epistemologie, le strategie.
Penso che nessuno di noi quando ad aprile ha scritto sulla pandemia pensasse che un’eventuale seconda ondata ci potesse cogliere così impreparati.
Quindi, in primo luogo, mi sgomenta che gli analisti, i decisori politici e i tecnici abbiano parlato per mesi della possibilità di una seconda ondata senza programmare e intervenire per preparare risposte a questa recrudescenza.
Credo che ciò abbia a che fare con l’incapacità di mettere in relazione i diversi fenomeni, confondendo imprevisto e imprevedibile, cosicché si è radicata, nel nostro Paese, l’abitudine ad affrontare molti problemi come un’imprevedibile emergenza:
- è emergenza la frana, l’esondazione, l’incendio, quando invece si sa quali sono le zone in cui il dissesto idrogeologico è tale da favorire questi fenomeni (e infatti tali catastrofi si verificano e si ripresentano negli stessi luoghi);
- è emergenza l’arrivo dei migranti sulle nostre coste, seppure questo fenomeno si riproponga da decenni, negli stessi periodi e negli stessi luoghi, perché legato all’impoverimento, ai cambiamenti climatici e ai conflitti nel sud del mondo, quindi è un fenomeno guidato dall’istinto di sopravvivenza e come tale ineluttabile;
- è emergenza il terremoto, anche se vantiamo geologi, sismologi e centri di ricerca di grande livello, che hanno mappato le aree a rischio sismico: semplicemente non conosciamo il luogo e il tempo, ma sappiamo che siamo un territorio in cui è necessario costruire rispettando criteri e normative che possono prevenire non i terremoti, ma i crolli e i morti.
- è emergenza il femminicidio, sebbene sia ormai chiaro dove sarebbe necessario intervenire: sui modelli culturali che sostengono la violenza di genere e sulla rete
di protezione sociale, quando il problema è conclamato. Questi interventi invece sono sporadici e frammentari, poco finanziati e funzionano a singhiozzo: così finiamo per valutare come imprevedibile che una donna, puntualmente, ogni tre giorni, venga uccisa dalla violenza di un uomo.
In secondo luogo mi sgomenta molto che l’aumento della sofferenza e del dolore, della paura e del disagio mentale, l’acuirsi delle disuguaglianze sociali, l’impoverimento repentino e le preoccupazioni economiche di un gran numero di persone, oltre il moltiplicarsi degli episodi di violenza domestica, siano visti come danni collaterali inevitabili.
Le persone più fragili sono lasciate da sole: le donne in balia di uomini violenti, i bambini che vivono in ambienti di deprivazione e che non possono usufruire di servizi pomeridiani di sostegno; molte case di riposo hanno rigide regole di accesso e spesso nessun locale per l’accoglienza in sicurezza dei visitatori, cosicché molti anziani, da mesi, non possono ricevere neppure la visita dei parenti più stretti.
Con intollerabile cinismo questi effetti collaterali non sono ritenuti connessi al benessere collettivo e quindi non sono considerati e affrontati.
Se qualcuno avesse nutrito ancora dei dubbi sul fatto che la rete di protezione sociale sia smagliata in più punti e che il welfare vada ripensato, sicuramente adesso non ha più scuse per non vedere.
La solitudine è veramente diffusa e ho sentito uomini e donne che ricordano gli anni ‘40, sostenere che questa situazione sia più drammatica di quanto hanno vissuto durante la guerra, perché oggi la necessità del distanziamento impedisce quel contatto tra le persone così necessario e consolatorio nei momenti del dolore e della morte.
Ma la cosa che maggiormente mi sgomenta è l’espressione – l’aspirazione e la richiesta del – ritorno alla normalità.
“Che senso ha parlare di ritorno alla normalità?”, mi chiedevo al termine del mio racconto dello scorso aprile – “A quale normalità vogliamo tornare?”
Qual era, prima della comparsa del Coronavirus, la normalità a cui vogliamo tornare?
Questa pandemia ha causato in Italia più di 60.000 morti e ha mostrato quanta fragilità e insensatezza contraddistingua la nostra “normalità”. Pensare di tornare al “prima” senza una riflessione profonda sulle connessioni tra i diversi elementi dei fenomeni in corso, significa non riuscire ad apprendere neppure dagli eventi più perturbanti e, a mio parere, far torto ai morti. Lo stesso Papa Francesco ha esplicitamente messo in guardia tutto il pianeta riguardo a questa aspettativa, perché tornare alla normalità significa tornare a tutto ciò che ha generato l’emergenza: diseguaglianze, degrado ambientale, ingiustizia.
E’ questo il modello a cui vogliamo tornare?
Quando ho scritto ad aprile sulla pandemia, il mio disorientamento si accompagnava ad un sentimento di meraviglia e contemplazione per l’atmosfera silenziosa e riflessiva che pervadeva le città. Nonostante uno dei mei figli sia stato contagiato dal Covid-19, e che io e la mia famiglia abbiamo provato grande preoccupazione e paura, la sensazione era
quella di trovarsi dentro una situazione così nuova e drammatica, così dirompente e perturbante, che avrebbe inevitabilmente aperto possibilità di ripensare il nostro mondo e il nostro modello di sviluppo.
Questa aspettativa è stata ampiamente frustrata e nei sentimenti che provo oggi lo stupore inteso come meraviglia e possibilità si è trasformato in indignazione e sgomento.
Com’è potuto succedere che la politica e le istituzioni si siano fatte trovare così impreparate ad affrontare un nuovo aumento dei contagi?
Domenico Arcuri – il super-manager che governa l’emergenza sanitaria - ha dichiarato in proposito: “La realtà è che noi ci siamo preparati ad una recrudescenza del virus ma non ci aspettavamo che fosse così tumultuosa” (https://www.huffingtonpost.it/entry/ospedali-troppo-affollati-piu-test-e-cure-a-casa_it_5f996beac5b61d63241e3fd3)
Personalmente ho trovato questa dichiarazione a dir poco semplicistica, senza una minima consapevolezza della complessità in cui siamo immersi. Anche dopo una ricerca approfondita non ho trovato alcun riferimento, nei numerosi interventi che egli ha fatto, ad una visione sistemica o complessa.
Così nella programmazione della riapertura delle scuole, è potuto accadere che la preoccupazione di controllare al centimetro la distanza tra i banchi, non sia stata accompagnata dalla ri-organizzazione del trasporto scolastico. Una situazione davvero surreale e scoraggiante: come possiamo pensare che si vedano le connessioni tra i diversi elementi di un sistema, se non si riesce a vedere neppure quella tra scuola e trasporti?
Anche l’intera gestione della comunicazione istituzionale e dell’informazione giornalistica ha evidenziato la preferenza per i percorsi lineari e le spiegazioni causa-effetto. Si veda per esempio il grande credito accordato ai virologi, nuove star della situazione (qualcuno ha suggerito di farne un album di figurine) e dispensano nei talk-show certezze granitiche su come si comporterà il virus. A lungo sono stati invece assenti dai dibattiti i medici di sanità pubblica, gli epidemiologi, che hanno un approccio più indirizzato a cogliere le interdipendenze, a mettere in relazione, per esempio, le relazioni tra territorio, condizioni sociali, diffusione delle malattie.
Lungi dal cercare di mettere in relazione fenomeni, dati e contesti, sia i politici, che i giornalisti e i tecnici hanno puntato tutto sui numeri: si potrebbe dire che una delle loro attività principali è stata “dare i numeri”. Forse perché si pensa che i numeri possa rassicurare, e non perché portino sempre buone notizie, ma perché sembrano essere sinonimo di precisione, misurabilità e oggettività.
Ma anche i numeri, per raccontare qualcosa che abbia un senso, devono essere messi in relazione, tra loro e con altre variabili. Le cifre hanno bisogno di un contesto in cui possano essere letti.
Per mesi i telegiornali si sono aperti con i numeri, finché, recentemente, anche la strada della misurabilità ha mostrato tutta la sua inconsistenza.
Questo modo di procedere denota chiaramente una mancanza di visione sistemica e un’incapacità di riconoscere la complessità. Mi chiedo come possiamo pensare di uscire da un problema che affonda le radici nella complessità senza un approccio sistemico, senza la consapevolezza che ad ogni azione corrisponde una retroazione che ricolloca le variabili del fenomeno in una posizione diversa e che è necessario non solo e non tanto misurare, bensì mappare.
Se il mondo in cui viviamo è complesso e non lineare, e ci ostiniamo a comportarci come se ci fossero invece verità oggettive e certezze, se non accettiamo l’incertezza e l’imprevedibilità come parti costitutive del nostro mondo, pagheremo prezzi sempre più alti prima di imparare ad essere umili e riflessivi.
E se non si considerano i legami, le relazioni, l’interdipendenza, continuando a muoversi con interventi separati e frammentari (a livello geografico, disciplinare, politico, economico, ambientale), come faremo a capire che abbiamo un unico destino?
Appare evidente che abbiamo bisogno di cambiare paradigma. Ma se non si scorge l’interdipendenza tra il trasporto scolastico e la possibilità di riaprire le scuole in sicurezza, tra il potenziamento della medicina sul territorio e la possibilità di avere meno ricoveri e meno decessi, come si riuscirà a vedere la relazione tra il destino dei Paesi del nord e quelli del sud del mondo, tra gli interessi economici della grande industria agroalimentare, la deforestazione e lo sviluppo di visus sempre più potenti?
Come potremo capire il perché di un fenomeno inarrestabile come la migrazione se non in connessione con l’impoverimento del sud e il cambiamento climatico? Possibile che davvero pensiamo che non ci aspetti un destino planetario? Qualcuno pensa di salvarsi da solo? C’è forse qualcuno che ha già il biglietto per un altro pianeta?
“La crisi planetaria nata dal Coronavirus mette in risalto la comunità di destino di tutti gli uomini in un legame indissolubile con il destino bioecologico del pianeta Terra”, ci ricorda Morin nel suo contributo alla riflessione sulla pandemia (E. Morin, Cambiamo strada, Raffaello Cortina, 2020, pag. 38), evidenziando quanto sia necessario un approccio sistemico per un futuro che sia davvero sostenibile.
Nei giorni in cui chiudo questo contributo si ipotizza la costituzione di una task force - o cabina di regia o piramide - composta da 300 esperti, per gestire le risorse provenienti dal Recovery fund. Personalmente non credo che sia una buona idea, ma, se questa proposta dovesse andare in porto, sarei sbalordita (felicemente stupita) se anche solo 30 di loro avessero un approccio sistemico – volendo dare i numeri!
Che fare dunque in un panorama in cui la consapevolezza delle relazioni, delle connessioni, del destino che ci accomuna, dell’interdipendenza di fenomeni e accadimenti, è così poco diffusa?
La domanda di aprile - quale normalità - si è dunque trasformata in “cosa poter fare”.
Come possiamo intervenire, come comunità di sistemici e sistemiche perché il cambiamento in atto divenga occasione per “cambiare strada”? Quali strumenti trovare per lanciare un allarme che possa essere sentito, che esca dagli spazi, talvolta angusti, della riflessione intellettuale?
Potremmo scrivere un manifesto dei sistemici sgomenti?
E cosa posso fare io, nella quotidianità e nella pratica, per dare il mio contributo a costruire reti di protezione per le persone più fragili?
Più grande si fa in me lo sgomento e più sento l’urgenza di impegnarmi, di aiutare le persone a superare la paura, a trovare un senso, a rimanere collegate e connesse, attraverso la possibilità di costruire relazioni significative, ri-conoscendo e riassegnando senso alla propria vita e anche al dolore. Consapevole che la scrittura di sé può essere un buon antidoto contro la paura e la solitudine, ho cominciato a utilizzarla, in queste ultime settimane, per aiutare i vivi e per onorare i morti, attraverso la creazione di spazi virtuali o reali in cui sostengo, in modo amichevole ma competente, chi ha bisogno di dare parola alle proprie emozioni.
Così ho sperimentato che, nei momenti difficili, donando le nostre competenze, possiamo riuscire a fare squadra, a connetterci, a ri-tessere reti e trame:
Vedi amico mio,
Come diventa importante
Che in quest’istante ci sia anch’io.
Sento inoltre che è arrivato per me il tempo di operare un cambiamento e non ho intenzione di tornare alla normalità:
Io mi sto preparando, è questa la novità.