di Francesco Farina
Socio Ordinario AIEMS, Firenze
Pedagogista, Epistemologo, Consulente UNICEF
Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay
Aprile 2020: Raccontare questi giorni
Le ragioni di un racconto
Avevo già pensato di tener un diario di questi giorni, di raccontare come sto vivendo il silenzio che improvvisamente in essi si è fatto. Scrivere, non tanto per comunicare qualcosa a qualcuno, visto che il diario non avrebbe avuto destinatari, quanto per riempire in qualche modo giorni che mi appaiono vuoti di senso.
Per una giovane donna, un giovane uomo, un adulto, questi giorni silenziosi e vuoti potranno essere vissuti come tempo dell’attesa di un ricominciamento.
Per un ottuagenario come me, questi giorni di inerzia forzata non possono avere il senso dell’attesa. Non hanno un futuro a cui tendere. Sarà l’altrui futuro a poter dare un senso al suo oggi, ma non è detto che ne abbia l’opportunità, né a tutti è data la propensione ad aver cura del futuro altrui.
Ora il ricevere la proposta che Sergio Boria fa:” dare il proprio contributo a redigere una storia di questi giorni raccontata a più voci,” mi dà l’opportunità di dare senso alle mie riflessioni, di riempire questi giorni vuoti con il “piacere di poter fare, assieme ad altri, un qualcosa che da qualcuno è atteso”
Un racconto di ricordi
Vaga il pensiero verso reminiscenze di storie a cui il momento presente fa da richiamo.
Chiusi in casa per quasi volontaria quarantena, può accadere che in pomeriggi che non passano mai, tornino alla mente anni che son passati in fretta.
Torna il pensiero all’anno del colera a Castellammare di Stabia, settembre 1973, Violetta, la nostra prima figlia aveva nove mesi, o ancor più indietro, al 1958, l’asiatica, studente a Roma, al 1947, avevo 11 anni quando in Libia scoppiò un’epidemia di vaiolo.
Mi vien in mente una differenza tra quei momenti e questo.
Allora quelle epidemie rimanevano un fatto eminentemente sanitario; erano osservate come eventi distinti, separati, non erano inquadrate in una “visione sistemica” che avrebbe messo in evidenza interrelazioni, non sempre evidenti, tra epidemie e fenomeni di altri diversi ambiti.
Di certo non fu una visione sistemica ad ispirare i provvedimenti che vennero presi per contrastare le epidemie e apparentemente non ce ne fu neppure bisogno, anche perché non assunsero la forma di una pandemia.
Nel momento attuale non siamo tanto noi a proporci di inquadrare in una visione sistemica l’epidemia da coronavirus, quanto è il coronavirus a imporci la visione sistemica. Stravolgendo brutalmente ogni settore della nostra vita ci mette sotto gli occhi quanto tutto sia drammaticamente connesso e interrelato, ci costringe a tener conto nelle nostre decisioni che “siamo parte di un tutto più ampio che ci comprende”, che dobbiamo ricordare che i provvedimenti non fondati su questa consapevolezza “non sono in grado di correggere le più profonde cause delle difficoltà, e, peggio ancora, permettono di solito a quelle cause di rafforzarsi e di allearsi” (Bateson, Verso un’ecologia della mente, pag. 533).
Il carattere pandemico del coronavirus spinge a dare ai nostri principi etici, oltre il fondamento dell’amore per l’altro, che talvolta non è così saldo come si crede, l’ulteriore fondamento di un sano egoismo. Questo li rende più facilmente accettabili, anche per chi non trova ragioni per compiere atti di generosità disinteressata. È sano egoismo pensare: la mia salute dipende dalla salute di un altro che forse non conoscerò mai, perciò anche di quella devo prendermi cura.
Un racconto di pensieri
Può anche accadere che in questi giorni vuoti, sotto la suggestione del momento presente, riemergano vaghe reminiscenze di studi passati.
Sotto casa, nelle mie brevi passeggiate lungo il torrente Mugnone, mi torna alla mente che Boccaccio immaginò che qui in una villa posta sui declivi che salgono verso Fiesole, trovassero rifugio sette ragazze e tre giovani, per sfuggire ai rischi di contagio della terribile pestilenza che infuriò a Firenze nel 1348, e all'atmosfera di morte che regnava in città,
Qui, immaginò il Boccaccio, per meglio far trascorrere il tempo a disposizione i dieci decidono di raccontare delle novelle.
Anche allora, come ora “la mortifera pestilenza………alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata.”, ma il coronavirus non è la peste: vi sono molte differenze e qualche affinità.
La prima differenza, forse la più importante, è che a differenza di allora, il mondo scientifico e ospedaliero è mobilitato e ha strumenti per la ricerca di una cura efficace; il vaccino si troverà.
Ci accomuna la paura, ci differenzia la sua rappresentazione.
Allora il terrore di fronte ad un morbo sconosciuto, ad una invisibile mortale minaccia trovava espressione nell’immaginario del popolo e degli artisti: la furia della peste rappresentata dalla morte che galoppava nei cieli con una falce in mano su uno scheletrico cavallo sopra ad un mare di morti.
Oggi i nostri cieli sono vuoti, l’immaginario che dà espressione alla nostra paura riprende terrestri scenari della guerra tra gli uomini: anche se oggi sappiamo che “i virus meritano un posto nell’albero della vita”, che il virus, “causa” della pandemia, né ci odia, né ci vuole sconfiggere. Lo dovremo comprendere in una visione sistemica, ne dovremmo imparare a capire la logica che è una logica evoluzionistica.
La narrazione per un ricominciamento
Sento la narrazione corale parte di questi miei giorni.
Anche noi, come sempre è accaduto dopo una catastrofe che sia stata tale da separare il vissuto delle persone tra un prima ed un dopo, sentiamo il bisogno di ritrovarci, di parlarci, di raccontarci, loro in villa, noi sul web. Avrà la nostra narrazione carattere sistemico? È probabile, perché ogni narratore è parte delle vicende narrate e il racconto delle passioni vissute in questi giorni procede oltre l’analisi svolta “per idee distinte e separate”.
Si dice anche che ogni ricominciamento parta da una narrazione. I giovani del Decamerone prefigurarono l'uomo dell’umanesimo il quale grazie all'aiuto delle proprie forze e della propria intelligenza, è in grado di dare un ordine alle cose.
Vi sarà nelle nuove generazioni chi saprà prefigurare, con nuove narrazioni, ciò che vorranno o non vorranno essere, quel che vorranno che il loro futuro sia.
Ottobre 2020: immaginare un ricominciamento
Incontro di letture
In ossequio alle indicazioni dateci circa le modalità con cui proseguire il discorso iniziato: riprendere possibilmente gli episodi/problemi/dilemmi descritti ad aprile, partirò dalla domanda che posi alla fine del mio primo testo:
se il futuro non lo si può prevedere perché, anziché abbandonarsi all’angoscia, non iniziare a costruirlo immaginando un ricominciamento?
L’incontro di letture batesoniane organizzato dal Circolo Bateson di Toscana il 29 e 30 agosto scorso l’abbiamo pensato come evento che rappresentasse un tale inizio, almeno simbolicamente.
Probabilmente da molti dei partecipanti come tale è stato vissuto e per questo, l’incontrarsi di nuovo di persona fu interessante, oltre che come occasione di lettura dei testi proposti, come evento in sé.
Il ritrovarsi assieme dopo tanti mesi di isolamento, la vicinanza fisica, lo scambio diretto di opinioni, la vivacità che le parole, accompagnate dai gesti, dal movimento dei corpi, davano all’ espressione delle idee, suscitavano la sensazione che si stava ricominciando qualcosa assieme.
Questo nostro breve ricominciare ha avuto momenti interessanti di scambi di idee, momenti piacevoli di conversazioni amichevoli e di allegra convivialità, ma ho avuto la sensazione che non siamo riusciti a viverlo come un momento di liberazione.
La sfolgorante luce da cui ogni cosa nel parco di San Rossore era illuminata, abbacinava gli occhi, ma giungeva alla coscienza come appannata da un impalpabile velo di oscura apprensione.
L’inquietudine che serpeggiava tra noi, ripensandola in questi giorni di fine ottobre, in cui la pandemia dilaga nuovamente e i contagi riprendono a crescere, appare come un presentimento.
Il tempo del ricominciamento non sembra sia ancora venuto.
Il tempo della resistenza
Si potrebbe dire che è il momento della resistenza; da vivere come un tempo di ripensamento e di riflessione, necessari perché un ricominciamento non sapremo ancora come immaginarlo, né abbiamo una narrazione che gli dia forma ineluttabile per volontà di un dio, o per legge di natura, non sapremo neppure dargli un nome.
Non possiamo pensarlo prosecuzione del cammino intrapreso dall’umanità negli ultimi secoli, perché indirizzato da una pura razionalità finalizzata che si è rivelata “patogena e distruttrice di vita”. Dovremmo imprimergli un radicale cambio di rotta. Avvertiamo lo stato di obsolescenza dei presupposti del pensiero più comuni e consolidati, delle nostre ideologie di progresso, di sviluppo, ma non abbiamo certezze per tracciare un nuovo cammino.
È come se fossimo in attesa di nuove idee per dar forma a un ricominciamento, di linguaggi inediti ancora da inventare per narrarlo.
Forse è per questo che il malessere, le inquietudini causate dalla pandemia, le ingiustizie e le disuguaglianze sociali che la pandemia accresce non sfociano in conflitti sociali. Vi sono azioni di violenta protesta, ma non vediamo movimenti sociali, politici volti a superare il malessere profondo, diffuso che stiamo vivendo, a cui aderire, né iniziative di trasformazione a cui partecipare.
Sembra che sia perfino difficile individuare chi potrebbero esserne i soggetti.
Come pensare il ricominciamento
Per immaginare un nuovo cominciamento dovremmo tenere in considerazione idee che a volte hanno radici lontane, provengono da altri tempi, da altre culture e che oggi potrebbero evolversi anche in modi nuovi ed imprevisti, dovremmo porre attenzione al nascere di idee che potrebbero essere del tutto inedite, che forse si potrebbero manifestare in modo confuso ed incerto, ma potrebbero aprire nuove vie per il ricominciamento che stiamo attendendo.
Con questo spirito proponiamo, come circolo Bateson di Toscana, un secondo incontro di letture batesoniane, che dovrebbe tenersi nei primi giorni di dicembre.
Leggeremo “Il tempo è fuori squadra”, comunicazione che Gregory Bateson inviò ai Regents dell’Università della California nel 1978, come monito ed invito a prendere coscienza dell’‟inattualità” e della inadeguatezza di modalità conoscitive che hanno guidato lo sviluppo moderno,
Il momento che stiamo vivendo rende “contemporaneo” il monito che G. Bateson rivolgeva ai professori dell’Università della California 40 anni fa circa “l’inattualità” delle modalità conoscitive lineari e deterministiche adottate negli ultimi secoli dall’Homo sapiens: “… i presupposti o premesse su cui si
basa tutto il nostro insegnamento sono inadeguati e, a mio parere, obsoleti”.
Le domande che nasceranno dalla lettura del documento guideranno la scelta di altre letture tratte da Verso un’ecologia della mente.
Rigenerazione potrebbe essere il nome
Rigenerazione potrebbe essere il nome di questo ricominciamento: una rigenerazione delle idee e dei valori che abbiamo ereditato dal passato, dei nostri stili di vita, del nostro modo di pensare alle relazioni che ci legano tra di noi, che ci legano con la “Creatura”, con il mondo degli esseri viventi.
Come si debba intendere e definire rigenerazione ce lo insegna Edgard Morin nel suo libretto edito in questi mesi: le 15 lezioni del coronavirus - cambiamo strada, scritto a 99 anni con il vigore di un trentenne che abbia davanti a sé tutta una vita.
E. Morin parla del principio di rigenerazione come di uno dei principi- speranza che possono rafforzare la nostra propensione a sperare, in un momento in cui ” la constatazione di quante trasformazioni economiche, sociali, personali, etiche sarebbero necessarie per cambiare strada, mentre sembra che tutto regredisca, potrebbe portare alla disperazione”.
Parla di un umanesimo rigenerato che rifiuta l’umanesimo della quasi divinizzazione dell’uomo, teso alla conquista e al dominio della natura, che ammette la complessità umana fatta di contraddizioni. L’uomo è allo stesso tempo Homo sapiens e demens, faber e mytologicus, oeconomicus e ludens: è Homo complexus.
L’umanesimo rigenerato riconosce la nostra animalità e il nostro legame ombelicale con la natura, ma riconosce anche la nostra specificità spirituale e culturale. Riconosce la nostra fragilità, la nostra instabilità, i nostri deliri, l’ignominia delle uccisioni, delle torture, dello schiavismo, le lucidità e gli accecamenti del pensiero, la sublimità dei capolavori di tutte le arti, le opere prodigiose della tecnica e le distruzioni operate dai mezzi di questa stessa tecnica.
una Rigenerazione senza miti, senza narrazioni?
Quale narrazione potrebbe aggregare le persone per un progetto di rigenerazione inteso nel senso descritto da E. Morin?
Ad un altro ricominciamento, quello vissuto dal popolo italiano nel secondo dopoguerra, fu dato il nome di ricostruzione.
Ricostruzione fu l’idea che raccolse il popolo italiano nello sforzo di far rinascere un Paese distrutto. Lo poté unificare perché fu compresa nella narrazione di “magnifiche sorti e progressive” che aveva dominato il pensiero occidentale negli ultimi secoli.
La fiducia nella ricostruzione, realizzata come il proseguimento di uno sviluppo sociale, culturale ed economico interrotto dalla guerra, venne accordata perché manteneva finalità e obiettivi largamente condivisi dalla stragrande maggioranza degli italiani, e perché trovava i suoi fondamenti nelle narrazioni di finalità che allora le ideologie sapevano indicare e nelle certezze che la scienza e la tecnica sembravano dare.
Oggi tutto è molto più difficile.
Non si tratta di continuare un cammino condiviso, ma di cambiare strada, e non vi è una narrazione, non vi sono “miti” convincenti per spingere le persone a operare un cambiamento degli stili di vita, delle idee di progresso che ormai da qualche secolo si sono affermati nella nostra società, e che sono ancora profondamente radicati nella nostra mente.
Non vi sono all’orizzonte luci che preludano all’avvento di “cieli nuovi e di terre nuove”, non vi sono certezze offerte da scienza e tecnologia su cui poter assolutamente contare per dar fondamento alle nostre decisioni.
Alla ricerca di una nuova narrazione
La pandemia da Coronavirus che sta sconvolgendo le nostre vite ci fa scoprire che la fede in un progresso senza limiti, che ci ha fatto sentire forti e sicuri delle nostre conquiste personali e sociali, non ha salde fondamenta: Homo sapiens è fragile.
Riflettendo su questa fragilità di cui ci eravamo dimenticati torna alla mente ciò che scriveva quattrocento anni fa Blaise Pascal:
“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo.”
È l’incipit di uno dei più celebri “pensées”. Citatissime le prime righe, meno citate le ultime, sulle quali vorrei ora soffermarmi perché mi sembrano di straordinaria attualità.
“Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale.”
Siamo tutti profondamente convinti della bontà di queste esortazioni, mi sembra si sia meno sicuri che si sappia tradurle in termini attuali, appropriati alla crisi che viviamo.
Tutta la nostra civiltà ci ha proposto l’obiettivo di elevarci nello spazio e nella durata; "Citius!, Altius!, Fortius!" è il motto olimpico, volentieri assunto a indicare il nostro stile di vita predominante, le finalità dei nostri progetti.
Ma in sostituzione di questo, quale altro obiettivo sappiamo porci? Quale altro stile di vita? Che significa per noi il ben pensare?
Al suono tonante di questo motto, sigla della massima manifestazione sportiva mondiale, a tratti solenne quasi come una liturgia, si oppose con flebile voce il motto “lentius, profundius, suavius” coniato da Alexander Langer il “viaggiatore leggero”, profeta di una “conversione ecologica”,
Mentre "Citius!, Altius!, Fortius!" è segno iconico della narrazione dell’onnipotenza del uomo moderno dominatore del pianeta Terra che negli ultimi secoli ha unito i popoli occidentali ed ha attratto gli altri popoli, “lentius, profundius, suavius” non si è radicato in una narrazione alternativa che sappia aggregare le persone. Resta ancora, dopo 30 anni, espressione di un’esigua minoranza senza potere e senza seguito.
Resta tuttavia un monito che andrà tenuto presente quando, passati questi giorni terribili, torneremo alla normalità, si dovrà necessariamente pensare ad un radicale cambio di vita e di paradigma produttivo in una direzione più sostenibile.
Certamente si tornerà ad una normalità; come ogni sistema vivente tende ad un equilibrio che poi propende a mantenere, così anche il nostro sistema tenderà verso un equilibrio, che chiameremo “normalità”.
Non è chiaro però che cosa sarà definito normale.
Si potrà pensare ad una normalità che, pur con qualche aggiustamento, garantirà a chi lo potrà il ritorno ai vecchi stili di vita.
Si potrà dare un’altra idea di normalità, una idea che si basa sulla cura della struttura che ci connette a tutti gli organismi del pianeta TERRA. Sarà un’idea atta a spiegare e abitare i circuiti del mondo come se costituissero una struttura che si forma in una danza di parti che interagiscono tra di loro; sarà un’idea che metterà in campo nuove modalità di relazione connotate da sfumature di umiltà, incertezza e esitazione, temperate “dalla dignità e dalla gioia di far parte di qualcosa di più grande”, che non sempre ci è dato “afferrare” (Verso un’Ecologia della Mente, pag. 502, Gregory Bateson/ Manghi).
Potrebbe essere questa l’interpretazione attuale del “ben pensare”, di cui parla Pascal, per fondare il principio morale.
Alla narrazione che convincerà gli uomini della necessità di conformarsi a questo principio morale si arriverà attraverso un lungo cammino.
Lo farebbe pensare la lettura di 21 lezioni per il XXI secolo di Yuval Noah Harari. Per 20 lezioni Harari critica le narrazioni, le religioni, le ideologie che finora hanno dominato il mondo e unito le genti. Nella 21a lezione non vi è, come ci si aspetterebbe, la proposta di una nuova narrazione, c’è la proposta di una via da percorrere per esplorare la mente umana che concepisce le narrazioni: “la meditazione”.
Meditazione non nel senso di speciali esperienze di benedizione e di estasi, ma come introspezione per: “capire con quali lenti colorate vediamo la realtà”, “capire i nostri sistemi mentali”, il “flusso delle nostre esperienze soggettive”, come le narrazioni di cui abbiamo vissuto siano state preconfezionate e per giungere forse ad una nuova narrazione che ancora nessuno sa scrivere.
La meditazione non è la sola via, scrive Harari: altre vie potrebbero essere la psicoterapia, l’arte, lo sport.
Le nostre letture potrebbero assumere, se non proprio il carattere di una meditazione, quello di una riflessione su una rigenerazione delle parole di verso un’ecologia della mente per scoprirne l’attualità.