di Patrizia Garista
Socia Ordinaria AIEMS, Terni
Pedagogista, Ricercatrice INDIRE
I.C. B.Brin- Il Giardino Insegna, Bando Cares Comune di Terni, 2019-2020
Aprile 2020: Diario di bordo di una (spett-)attrice della pandemia
L’ultima settimana di febbraio ho iniziato il mio lavoro di ricercatrice in smart working. In realtà era una modalità già sperimentata per qualche giorno al mese in passato. E per chi è abituato a percorrere lunghe distanze per raggiungere il posto di lavoro questo può essere un vantaggio per una buona qualità di vita. Il tempo del viaggiare sulle distanze spaziali ha lasciato il posto a un tempo per viaggiare sull’ermeneutica di altre distanze. Vous êtes emberqué, dice Pascal, in una tempesta a cui non ci si può sottrarre. Sono state chiuse le scuole, bisognava abituarsi alle regole e a questa nuova espressione: “distanziamento sociale”. Le parole contano nella promozione della salute. Il distanziamento fisico è cosa ben diversa dal distanziamento sociale. Persino Google lo sa bene, la sua piattaforma meet (incontrarsi), offre luoghi in cui vedersi, allestendo il setting per mostrarsi agli altri nel virtuale, raccontarsi le pietanze cucinate e magari farsi descrivere i profumi. La quarantena è un mix di tempi ritrovati, di spazi bianchi, di capacità negativa. Il microsistema che ruota intorno alla mia casa ne ha tratto grande giovamento: si cucina insieme, si cura il giardino, si mette in ordine (o forse in disordine per fare spazio alle grandi idee di trasformazione e cambiamento che si attivano quando si osservano le stesse cose con più attenzione).
Alla pienezza della vita quotidiana si è affiancato però un disorientamento del pensiero professionale. Quale senso dare a quanto si studia rispetto all’emergenza in corso?
Epidemia, pandemia, epidemiologia, salute, malattia, cura, sanità pubblica, emergenza, rischio, resilienza, disuguaglianze, guadagno formativo. Sono tutte parole che descrivono le discussioni ai tempi del nuovo coronavirus. Ma sono anche lemmi che fanno parte del mio percorso di ricerca nell’ambito dell’educazione alla salute. Ascoltare e leggere tali termini nei notiziari e nei discorsi comuni dovrebbe trovarmi quindi “preparata”. Invece il lessico della pandemia mi disorienta, mi presenta caos, incertezze, paure, distanze, rivoluzioni, la necessità d trovare un senso ai molti progetti in corso.
Mi conforta il ricordo di un libro generatore di una metafora potente (lo potrei eleggere come fattore mentoring per la mia resilienza in questo periodo). Si tratta di “Naufragio con spettatore” di Hans Blumenberg. Il processo di resilienza si nutre di metafore, le quali con la loro polisemia creano piccole cliniche per la cura di sé, sono un po’ cicatrizzanti proprio perché permettono di rappresentare la molteplicità delle relazioni possibili.
Due immagini potenti di questa pandemia mi hanno catapultato nella metafora di
Blumenberg. L’immagine dei carri militari che portano via le bare dei morti, da soli, lontani dalle loro famiglie, a Bergamo, dove non riescono più a gestire le sepolture e il racconto di una dirigente scolastica, la quale spiega la sua difficoltà anche solo a pensare alla didattica a distanza quando si deve preoccupare di alunni con genitori in ospedale in gravi condizioni o addirittura deceduti. Con Blumenberg mi approprio di una nuova distanza, quella della sicurezza emotiva, la giusta distanza tra opposti: chi sta naufragando e chi si ritrova a essere spettatore.
L’emergenza Covid sembra un mare in tempesta in cui cercare un ordine labile, in cui ci si può trovare a correre il rischio di naufragare o in cui il caso ci porta ad essere spettatori del naufragio, di quello spettacolo di vita e di morte che la natura mette in scena ciclicamente. La metafora nautica (del navigare a vista, del naufragio, del siamo tutti sulla stessa barca, del diario di bordo), e in particolare quella del naufragio con spettatore, riflette molte delle mie riflessioni su come immaginare una bussola resiliente in questo scenario. Questa metafora ha una lunga storia. La sua interpretazione riflette le trasformazioni culturali e sociali dell’agire umano di fronte all’evoluzione della natura e alla possibilità di controllarla.
Il suo successo risiede nel saper tenere insieme polarità di significati come rischio e sicurezza; immobilità e movimento, attore e spettatore, teoria e prassi, accoglie gli opposti presentando ruoli che potrebbero scambiarsi in un attimo. Il desiderio che muove verso tali polarità attraversa il vissuto dell’emergenza. Si vorrebbe sicurezza ma si guardano i tanti in prima linea e ci si chiede come dare il proprio contributo (oltre a restare a casa). Si vorrebbe custodire il proprio luogo di cura familiare ma ci si vorrebbe gettare nel mare in tempesta, essere all’altezza della situazione. Pascal ci invita a riconoscere la nostra precarietà, non ci sono spettatori, tutti dobbiamo rischiare il naufragio. Ma non siamo tutti a bordo con le stesse provviste. C’è chi deve lavorare in condizioni insicure, chi si può permettere di ordinare la spesa online e coltivarsi le verdure nell’orto e chi invece non riesce nemmeno a fare la spesa. C’è chi può stare a casa in compagnia di chi ama e chi rischia maltrattamenti forse anche più dolorosi di una possibile infezione da coronavirus. La nostra storia di navigazione incrocia quella del mondo, della sua natura evolutiva, e reagisce elaborando storie rasserenanti. E se il viaggio durerà a lungo si dovrà imparare a riparare la barca in mare, si dovrà imparare dalle esperienze, dagli errori, cercare le risorse possibili come i relitti dei naufragi precedenti.
Nella polisemia di questa metafora ho trovato un messaggio nella bottiglia, che potrebbe trovare il naufrago ma anche lo spettatore inerme sulla spiaggia. É un messaggio che invita a fare una lista, come quelle liste elencate da Safran Foer in “Ogni cosa è illuminata”. É una lista che invita a immaginare cosa e chi caricare in una ipotetica arca di Noè con cui affrontare il diluvio o il naufragio. Devono essere elementi per salvare noi stessi, la qualità della nostra vita ma anche per salvare il mondo. Forse non ci sarà un’altra tempesta o forse ce ne sarà una dopo l’altra. Ognuno scriverà una sua lista. Forse ci saranno scialuppe per salvarsi, sarà possibile approdare, ci sarà un faro a illuminare la via. La storia consolatrice che mi voglio raccontare è che immaginando l’arca sceglieremo un modo nuovo di prenderci cura di ciò che amiamo.
Ottobre 2020: Imparare a navigare in un Giardino
La metafora nautica continua a comparire in molti discorsi di questi mesi sulla vita ai tempi del Covid-19. Tale notorietà mi compiace, ho pensato anche di aver scelto un titolo di successo, in grado di tracciare legami e connessioni avvertiti da più persone. La metafora seguita a nutrire esperienze e riflessioni anche ora, a sei mesi di distanza, offrendosi a ulteriori meditazioni attraverso la lettura di un nuovo libro, “Sulla stessa barca” di Mauro Ceruti con la prefazione di Edgar Morin, invitandomi all’azione in un progetto in cui “non si potevano alzare le vele”. La metafora si è ora tramutata in materia in cui diventa impossibile non sviluppare azioni, scelte, pensieri e il progetto dell’arca per curare ciò che amiamo inizia a prendere una forma fino a fantasticare l’approdo in un giardino.
Una delle questioni più dibattute dall’inizio della pandemia ha riguardato il diritto all’istruzione e la necessità di tenere aperta la scuola. Proprio in questo dibattito trovo uno spazio, ma soprattutto un senso, una bussola, per non limitarmi più solo a guardare il naufragio in corso. L’occasione sembra una coincidenza, ma in realtà comprendo che si avvicina più alla trama di un pensiero che cuce ritagli di un’unica storia. Un progetto pre-pandemia, rimandato a causa della pandemia e infine attuato con tutti i limiti della seconda ondata della pandemia, mi attribuisce il ruolo di “attrice” e crea le condizioni per connettere “pensiero e azione”, mutuando questa espressione da Anna Harendt, una pensatrice che ha dovuto comprendere e interpretare il male delle discriminazioni, dell’emigrazione, di una tragica persecuzione. Il progetto si intitola “Il giardino insegna. La valorizzazione degli spazi didattici esterni come laboratori innovativi per la scuola del futuro”, e si propone di portare la didattica Montessori di una scuola secondaria inferiore all’aperto, in un eco-spazio, in una “radura” in cui vivere l’avventura educativa. La bellezza di questo progetto connette molti elementi: la ricerca didattica nel mio Istituto, gli interessi per la promozione della salute e della resilienza, una recente riflessione sulla scuola, la resilienza e l’educazione ambientale pubblicata proprio su Riflessioni Sistemiche, l’esperienza dell’“apprendere passeggiando” per i giardini e ammirando la natura insieme alla mia famiglia che mi ha insegnato il LES (laboratorio di ecologia della salute).
Tale progetto, finanziato con il Bando Cares dal Comune di Terni, riconosce il valore sociale dell’educazione e della progettazione architettonica come significativi e incisivi per un territorio, e guarda al metodo Montessori nella scuola pubblica come un’opportunità̀ per tutti e per ciascuno, come manifestazione di un’agenzia educativa attenta alla partecipazione sociale e comunitaria, in linea con il mandato costituzionale di una scuola democratica e sostenibile. Nel programma inizialmente si proponeva soprattutto di rinforzare lo sviluppo di un curriculum verticale Montessori con una proposta per la secondaria inferiore al fine di contrastare la dispersione scolastica, promuovere il benessere degli studenti e delle loro famiglie, bloccare la povertà̀ educativa, sviluppare una didattica attenta alle urgenze ecologiche e di sostenibilità̀ del territorio. Con la pandemia in corso si è rivelato opportunità importantissima per ripensare la didattica in riferimento alle nuove norme per contrastare l’epidemia, riformulando le proposte di allestimento degli spazi in linea con le raccomandazioni per la sicurezza.
Alla base del progetto vi era l’idea che gli alunni della scuola secondaria inferiore attraversano una fase di crescita e sviluppo personale determinante per l’affermarsi di quelle competenze fondamentali per proseguire gli studi, inserirsi nel mondo del lavoro ed elaborare stili di vita sostenibili. A tal fine la didattica laboratoriale, lavorando per integrare le varie discipline in un contesto a contatto con la natura, può̀ favorire quei processi di insegnamento/apprendimento fondati sui significati, connettendo i saperi con le persone e i loro stili di vita, infine con l’ambiente naturale e sociale. Prepararsi ad affrontare il naufragio significa dunque creare quei campi di esperienza in cui percepirsi “sulla stessa barca”, come ci suggeriscono Ceruti e Morin.
Il modello pedagogico alla base del progetto “Il Giardino insegna” incontra le istanze innovatrici di molti progetti dedicati agli spazi scolastici e all’uso dello spazio didattico naturale come dimensione formativa e innovatrice.
I.C. B.Brin- Il Giardino Insegna, Bando Cares Comune di Terni, 2019-2020
L’organizzazione e il riuso degli spazi all’aperto della scuola si connette con molti temi definiti dall’Agenda 2030, ad esempio la possibilità di fare un’educazione di qualità in un contesto in cui si possa lavorare in modo sostenibile, sicuro, seguendo la raccomandazione di stare il più possibile all’aperto. In Giardino ci potrà essere uno spazio per il gruppo (ad esempio per l’“apprendimento cooperativo”, per le lezioni all’aperto, per fare didattica di qualità in sicurezza) che può essere anche spazio dell’Agorà (per sviluppare pensiero critico e riflessivo) e ancora uno spazio individuale (ad esempio per favorire la lettura), uno spazio dell’esplorazione da ripensare (per la didattica con le STEAM, le scoperte e le osservazioni scientifiche e tecnologiche). Si potranno poi via via aggiungere spazi ed elementi che possano contribuire agli apprendimenti disciplinari integrati come ad esempio la costruzione di una cupola geodetica, un orto officinale per la realizzazione di un erbario multilingue, fino ad essere integrati in futuro con ulteriori proposte progettuali come ad esempio l’inserimento nel cortile di un palco teatrale.
La distanza temporale associa le memorie e in questo progetto intuisco la forte influenza del Laboratorio di ecologia della salute dell’AIEMS, nell’aver alimentato una sensibilità al pensiero sistemico ed ecologico. I brevi viaggi all’aperto tracceranno nuove rotte, connettendo gli obiettivi disciplinari di apprendimento con una visione ecologica e sostenibile della vita sociale e comunitaria nella scuola. La pandemia ci ha fatto ripensare gli arredi, i tavoli da picnic sono stati sostituiti da tavolini singoli che però risultano più flessibili a essere rimodulati, uniti e ricollocati. Ma oltre alla pandemia c’è un altro imprevisto: non possiamo alzare le vele, quelle che dovevano offrire riparo, aumentare il tempo per usufruire dello spazio esterno nelle giornate calde. È un imprevisto burocratico, riguarda l’organizzazione di un ufficio tecnico, di ciò che considera le priorità ai tempi del Covid-19, segnati da altre mille priorità di verifica di quell’equilibrio tra rischio e sicurezza che la nostra scuola e la nostra burocrazia deve ancora imparare a fronteggiare. Navigare senza vele sembra arduo ma è possibile, richiede resilienza, capacità negativa, trovare il modo di farcela comunque. Così il giardino è diventato spazio educante, non solo per le discipline di un curriculum ma anche rispetto all’apprendimento di quel pensiero ecologico che ci presenta Ceruti “Sulla stessa barca”, che riguarda le nostre vite, la nostra civiltà, le nostre scelte e le nostre azioni, e ancora un modo di stare nell’incertezza, di usarla come bussola.