di Simona Gasparetti
Socia Ordinaria AIEMS, Roma
Filosofa, Università Roma Tre
Foto di PayPal.me/FelixMittermeier da Pixabay
Aprile 2020 - Al tempo del morbo ignoto: in ascolto di ostacoli e apprendimenti
Lo strologare del gatto Bullo
L’interesse del mio gatto divenne bruciante via via che le immagini dei variopinti e chiassosissimi pappagalli scorrevano. Era saltato in piedi, abbandonando la tenera prigionia del mio grembo, per sedersi su un tavolino proprio di fronte allo schermo. Aveva poi cercato di avvicinarsi alla fonte delle sensazioni visive e uditive, con buffi scivolamenti in avanti, a scatti, della parte inferiore del corpo, quella aderente al tavolo… La consueta gentilezza dei suoi movimenti si esibiva in evoluzioni rotatorie della testa, oscillazioni laterali sincopate, non dissimili da quelle dei pappagalli che scrutava, orecchie aguzze orientate nelle direzioni dei suoni, muso proteso ad annusare. Si voltava verso di me a intervalli brevi, emettendo un affettuoso gorgoglio interrogativo, come quando segnalava un’anomalia o chiedeva una conferma. – Chi sono costoro, inafferrabili e privi di odore? Come posso raggiungerli? L’atteggiamento non era aggressivo, di caccia, sembrava piuttosto sbalordito – al cospetto di un’esplosione dell’ordine conosciuto del mondo – e ingegnoso davanti allo strano modo in cui si presentava l’ignoto.
Io non gli prestavo grande attenzione, ero infatti rapita da una commozione intensa osservando i rituali sociali e la curiosità delicata di certi parrocchetti monaci, svelati dal documentario nei loro bisogni cognitivi, sensoriali, emotivi, sociali. Il pensiero riandava ai miei parrocchetti australiani, i primi animali che nell’infanzia mi fu concesso di ospitare e che avrebbero colonizzato per sempre il mio cuore. I miei parrocchetti dormiglioni, permalosi, impiccioni, bisognosi di libertà e di compagnia, loro che erano entrati nel mirino dei capricci dell’occidente e, pur snaturati e deportati, si preservavano aperti a una intensa affettività, all’intimità possibile anche nella comunicazione interspecifica.
Mentre ero persa nelle mie nostalgie, il gatto Bullo avviò un lungo protocollo di industriosa esplorazione: lo schermo fu percorso, con sensi vigili, nelle sue dimensioni visibili, invisibili, immaginarie. Fu osservato da molte angolature, annusato scrupolosamente, ascoltate le sue emissione sonore con applicazione meticolosa, accarezzato e sfiorato con le zampe, quasi a voler toccare le figure, con un anelito tenace e una perdurante e delusa meraviglia. Si concentrò poi sullo spazio attorno allo schermo, come se le figure potessero uscirne, ripetendo daccapo il rituale. Infine si sistemò su un ripiano al di sopra dello schermo stesso, in posizione di attesa: – Se escono, da qui non mi scappano...! Le zampe continuavano, dall’alto, a spalmarsi sul video, in lungo e in largo, a picchiettarlo con rapidi tocchi come per un richiamo o per destare un’intesa: – Ehi, di casa! Buona gente!
Il primato dell’occhio
In questi tempi di radicale deprivazione sensoriale mi sono ritrovata talora nei panni del gatto Bullo. In altri tempi l’uso sapiente di semplici strumenti telematici aggiungeva qualcosa alla comunicazione tradizionale a distanza, era un ‘di più’ che sorprendeva ogni volta e destava entusiasmo. Il fatto di vedersi su uno schermo, mentre ci si parlava come si fosse al telefono, sembrava consentire un accesso più immediato alla familiarità, alla confidenza. Accorciava drasticamente le distanze. Nelle pieghe di solitudini amate e di silenzi vivi e pieni, la videochiamata mi dava la sensazione di essere a un passo dal potermi accostare al mio interlocutore, dal poterlo sfiorare, afferrare.
– Beh, mi sono detta, dovendo ‘mantenere le distanze’, sarà agevole, con questi strumenti, riorganizzare l’offerta formativa del mio Master e gli incontri individuali di consulenza filosofica. Ci si dovrà rimodulare muovendo da nuove condizioni di possibilità della relazione, soprattutto da nuovi sguardi, visto che mi era chiaro il primato dello sguardo in questo contesto. Ebbene, nei fatti, è andata proprio così, sebbene proprio queste modalità di comunicazione a distanza abbiano disvelato alcune mie profonde ambivalenze del sentire, ambivalenze epistemologiche ed emotive, che hanno messo a nudo nuove opportunità di apprendimento, ma anche disagi e imbarazzi talora inattesi. Non si trattava infatti di aggiungere qualcosa ai modi convenzionali della comunicazione accademica e interpersonale, qui era in ballo una radicale sostituzione.
La mia esperienza ancora molto approssimativa con le piattaforme più in uso mi ha dato l’impressione che nella formazione con gruppi numerosi le relazioni spaziali vengano quasi del tutto sacrificate: piccoli e identici visi/francobollo, immobili nello spazio ma parlanti, chiamano in luce un impianto cartografico della visione, schiacciato sulla superficie piatta dello schermo e segnato da una sorta di presbiopia che non consente di esaltare le singole, e personali, tessere del mosaico, troppo piccole e troppo vicine a chi osserva. Ne è derivata da parte mia la caduta in uno sguardo di sorvolo che mi ha fatto sentire inadeguata e manchevole. A questa carenza visiva se ne è aggiunta anche un’altra, una visione monoculare, che mi rendeva incapace di percepire la profondità. I contesti casalinghi che intravedevo dietro i visi mi sembravano ‘setacciati’ da un sorta di vaglio necessario, che deprivava di valore tutto ciò che esulava dai parlanti, appiattiti sullo schermo, e dal loro parlato. – Occorre esercizio! È evidente.
Questa sorta di mutilazione mi commuoveva ogni volta e mi faceva sentire una chiara nostalgia della presenza.
Ma a dispetto di queste mancanze emergeva contemporaneamente anche un ‘effetto collaterale’ virtuoso che mitigava il primato del doppio sguardo carente: la premura con cui tutti ci prendevamo cura dell’opportunità che ciascuno potesse prendere la parola
quando lo desiderava. Non c’è stato bisogno di un facilitatore, ciascuno si sentiva responsabile per tutti. Ne è emerso un esercizio spirituale che univa ascolto intento, partecipazione, spirito di comunità, ed evocava l’antico esercizio della prosochè.
Altra cosa è stata per me l’esperienza degli incontri individuali. Il mutamento del setting mi è parsa una grande opportunità di praticare alcuni assunti teorici della consulenza filosofica, anzitutto la simmetricità della relazione. Il fatto che ciascun dialogante si mostri nel proprio contesto privato conferisce una maggiore spontaneità all’incontro, e sprigiona una sorta di alleanza tra uguali che nutre molto lo scambio.
Anche il mio senso di impudicizia nell’entrare nello spazio domestico dell’altro viene mitigato dal fatto che anch’io espongo il mio personale ordine domestico, i miei animali, il campanello che suona proditoriamente. Insomma superare il limite del privato, ritenuto per convenzione invalicabile, non può che nutrire la relazione.
Novembre 2020: Sulle spalle dei giganti
«C’era una volta un Giardino, il quale conteneva molte centinaia di specie (era forse nella zona subtropicale) che vivevano in grande fecondità ed equilibrio, con abbondanza di humus, e così via. In quel giardino c’erano due antropoidi, più intelligenti degli altri animali.
Su uno degli alberi c’era un frutto, molto in alto, che le due scimmie non erano capaci di raggiungere. Esse cominciarono allora a pensare. Questo fu lo sbaglio: cominciarono a pensare per raggiungere un fine.
Dopo un po’ la scimmia maschio, che si chiamava Adamo, andò a prendere una cassa vuota, che mise sotto l’albero; vi montò sopra, ma ancora non riusciva a raggiungere il frutto. Allora andò a prendere un’altra cassa e la mise sopra la prima; si arrampicò sopra le due casse e finalmente raggiunse la mela.
Adamo ed Eva erano ebbri d’eccitazione. Così si doveva fare: si escogita un piano ABC, e si ottiene D.
Cominciarono allora a esercitarsi a fare le cose secondo un piano. Di fatto essi estromisero dal Giardino il concetto della sua natura sistemica globale e della loro stessa natura sistemica globale.
Dopo aver estromesso Dio dal Giardino, essi si misero a lavorare seriamente in questo modo finalizzato, e ben presto l’humus scomparve; in seguito a ciò parecchie specie di piante divennero ‘malerbe’ e alcuni animali divennero ‘flagelli’; e Adamo si accorse che il giardinaggio era un lavoro molto più duro. Dovette guadagnarsi il pane col sudore della fronte, e disse: «È un Dio vendicativo; non avrei mai dovuto mangiare quella mela». […]
L’uomo, in fin dei conti, ha agito secondo quanto pensava fosse sensato, e ora si trova nei guai: non si rende sufficientemente conto di ciò che lo ha cacciato nei guai, e sente che ciò che gli è accaduto è in qualche modo ingiusto. Non riesce ancora a vedersi come parte del sistema in cui accadono i guai, e allora dà la colpa al resto del sistema o a se stesso. Nella mia parabola Adamo combina due tipi di assurdità: la nozione ‘io ho peccato’ con la nozione ‘Dio è vendicativo’.
Se si considerano quelle situazioni reali del nostro mondo, ove la natura sistemica del mondo sia stata ignorata a favore della finalità e del buon senso, di trova una reazione abbastanza simile. […]
E l’aspetto terribile di tali situazioni è che inevitabilmente esse abbreviano il tempo che si ha a disposizione per fare qualunque piano. Le situazioni di emergenza sono già qui o sono dietro la porta, e quindi la saggezza dei tempi lunghi deve essere sacrificata agli espedienti, anche se c’è l’oscura consapevolezza che questi non forniranno mai una soluzione a lungo termine. […]
Nel periodo della rivoluzione industriale il disastro più grande fu forse l’enorme aumento dell’arroganza scientifica. Si era scoperto come costruire treni e altre macchine; si sapeva come mettere le casse una sull’altra per raggiungere la mela, e l’uomo occidentale si vedeva come un autocrate dotato di potere assoluto su un universo fatto di fisica e chimica; e i fenomeni biologici alla fin fine si dovevano poter controllare come i processi sperimentali in una provetta. L’evoluzione era la storia di come gli organismi apprendevano stratagemmi sempre più numerosi per controllare l’ambiente, e gli stratagemmi dell’uomo erano migliori di quelli qualsiasi altra creatura.
Ma quell’arrogante filosofia scientifica è ora fuori moda, ed è stata sostituita dalla scoperta che l’uomo è solo una parte di più vasti sistemi e che la parte non può in alcun modo controllare il tutto.
Goebbels pensava di poter controllare l’opinione pubblica tedesca con un vasto sistema di comunicazioni, e forse i nostri addetti alle pubbliche relazioni si abbandonano a illusioni analoghe. In effetti l’ipotetico controllore deve sempre avere in azione spie che gli riferiscano che cosa dice la gente della sua propaganda. Egli pertanto si trova nella posizione di reagire a ciò che la gente dice; quindi non può esercitare un semplice controllo unidirezionale. Non viviamo in un tipo di universo ove il semplice controllo unidirezionale sia possibile. La vita non è fatta così. […]
Perfino all’interno dell’individuo umano il controllo è limitato. Ci possiamo in certa misura impegnare ad apprendere anche certi caratteri astratti come l’arroganza o l’umiltà, ma non siamo in alcun modo i capitani della nostra anima.
È tuttavia possibile che il rimedio per i mali della finalità cosciente si trovi nell’individuo. C’è quella che Freud chiamava la strada maestra verso l’inconscio; egli si riferiva ai sogni, ma io ritengo che si dovrebbero mettere insieme e i sogni e la creatività dell’arte, o la percezione dell’arte, e la poesia e le cose di questo genere. E insieme ci metterei anche il meglio della religione. Sono, tutte queste, attività in cui l’individuo
intero è impegnato. L’artista può avere lo scopo conscio di vendere il suo quadro, e fors’anche lo scopo conscio di dipingerlo; ma nel dipingerlo egli deve per forza allentare quell’arroganza a favore di un’esperienza creativa in cui la sua mente cosciente ha solo una piccola parte.
Si potrebbe dire che nella creazione artistica l’uomo deve sentire se stesso – tutto il suo io – come un modello cibernetico». (Tratto dalla conferenza di Gregory Bateson alla London Conference on the Dialectics of Liberation, 1968, ristampata in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, pp. 474 - 478).