Socia Ordinaria AIEMS, Milano Consulente Pedagogica e Insegnante Metodo Feldenkrais Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione e Comunicazione, Università di Milano Bicocca
Ogni pomeriggio mi sdraio a terra e rimango ferma con la schiena a contatto sul pavimento. Qui è il peso del mio corpo a raccontarmi la gravità della situazione. Sento che parte della mia schiena, soprattutto quella superiore vicina alle scapole, è sollevata. Inspiro ed espiro e c’è qualcosa che cede. Inspiro ed espiro senza fare nulla e la tensione alle scapole si allenta. Inspiro ed espiro e avverto il peso della mia testa. Inspiro ed espiro e percepisco l’ampiezza della mia schiena. Inspiro ed espiro e sento cedermi alla forza di gravità. Ora è il pavimento che mi sostiene e questa sensazione genera in me conforto. È una sensazione sottile, difficile da mettere in parola perché è legata al corpo. È proprio a partire dall’ascolto delle sensazioni corporee che ho preso, giorno dopo giorno, consapevolezza della gravità e della complessità del momento storico che stiamo tutti attraversando. Dedicare un tempo quotidiano per darmi la possibilità di ascoltare il respiro, di cedere alla forza di gravità e sentirmi così, finalmente, sostenuta dal pavimento, è il modo che ho trovato per rendere vivibile l’angoscia di ritrovarmi improvvisamente in una pandemia. Lì, sdraiata a terra, sono un organismo vivo e questa sensazione mi permette di avere accesso all’esperienza meravigliosa, perché mai banale e data per scontata, di sentire che, nonostante tutto, continuo a essere una creatura viva e in salute.
Viva e in salute a Milano, in un quartiere posto nella periferia occidentale della città, dove da fine febbraio la mia vita è cambiata profondamente. Sono stata costretta prima a ridurre tutti i miei spostamenti, poi a rimanere in casa. In queste giornate inaspettatamente immobili, scandite dal contrasto tra il suono delle ambulanze e il cinguettio primaverile degli uccelli, ho ascoltato crescere silenziosamente dentro di me, da una parte il senso d’oppressione dato dal non sapere come saremmo riusciti ad affrontare l’impensato, e dall’altra la consapevolezza che questo presente esigeva da me tutta la sensibilità di cui potevo rendermi capace. Una sensibilità in grado di farmi toccare da vicino l’inalienabile fragilità e incertezza delle nostre vite e, soprattutto, dotata di uno spazio sufficientemente ampio per accogliere anche l’emergere dei miei demoni. Imparare a sentire la sofferenza nel corpo e nel cuore per le malattie, le morti e i disastri sociali, ambientali e economici che sembrano aspettarci. Accettare tutti i miei limiti, soprattutto quelli più scomodi, come il pianto improvviso e i moti d’ira maldestri è la postura corporea e etica nella quale sono impegnata. Una postura che non mi ripiega su me stessa, ma che mi spinge a trovare modi diversi per aver cura, anche in un momento di distanziamento e di relativo isolamento sociale, delle relazioni interpersonali e delle connessioni con l’ambiente naturale.
Al centro delle mie riflessioni si trovano proprio le nostre relazioni con la natura. In questi giorni con il mio compagno abbiamo iniziato a lasciare briciole di pane e di biscotti fuori dalla finestra e così, ho assistito con stupore al trasformarsi, in breve tempo, del nostro davanzale in una sorta di mangiatoia. In questo piccolo spazio, si sono creati legami sottili tra noi e i merli che più volte al giorno vengono a farci visita. La nostra esperienza non è isolata, conversando on line con una coppia di amici, che pur vivendo qui vicino non possiamo più incontrare di persona, abbiamo scoperto che anche loro avevano iniziato a fare la stessa cosa. Nei social network stanno diventando virali fotografie e video (anche falsi) che testimoniano l’avvistamento di animali nella città, tanto da diffondere una narrazione della natura che riprende i suoi spazi e torna a respirare mentre noi umani restiamo a casa. Ma gli esperti ci parlano da anni del fenomeno dell’inurbamento animale per descrivere come molte specie, grazie alla plasticità ecologica, vivono nei centri urbani senza che noi ce ne rendessimo conto in modo così evidente come oggi. Io stessa, dal mio osservatorio di periferia, mi sono ritrovata a gioire per l’incontro ravvicinato con galline, pavoni, mucche, cavalli, asini, cani, gatti, piccioni, cornacchie, gazze, scoiattoli, anatre, picchi, farfalle, api, scarafaggi, pappagalli verdi, tartarughe d’acqua, silvilaghi e aironi, incontrati nelle settimane scorse quando era ancora consentito camminare all’aperto nei prati, nei campi, nei parchi e negli orti ai margini del quartiere.
La salute umana dipende da quella del Pianeta e, da quando è iniziata l’emergenza Covid-19, le immagini satellitari mostrano un calo significativo dell’inquinamento atmosferico che qui al Nord aveva raggiunto un livello tra i più alti in Europa. Ho l’impressione che nei mesi scorsi ci eravamo abituate/i a sentir parlare di malattie correlate all’inquinamento e che saremo presto chiamate/i ad abituarci alle stime dei decessi prematuri causati dall’esposizione a lungo termine a gas e polveri sottili. Ciò che mi rende veramente triste (e a tratti disperata) è pensare che presto l’azzurro del cielo di questa primavera tornerà a essere pieno di fumo. E questo effetto di rimbalzo dell’inquinamento non è che uno degli enormi problemi che dobbiamo affrontare. Infatti, rimanendo solo nell’ambito animale, gli scienziati stanno ipotizzando connessioni inquietanti tra l’allevamento intensivo (e la produzione industriale di alimenti) e l’origine delle epidemie scoppiate negli ultimi anni nel mondo. La gravità delle devastazioni ambientali che investono le nostre vite mi è sempre più evidente in questo tempo dove la normalità, data dalle mie abitudini di pensiero e azione, è stata sospesa.
Affinare la sensibilità ecologica per riconoscere le connessioni tra me, gli altri e l’ambiente è la via etica che sto provando a seguire. So di non essere sola, sento tra le persone intorno a me il desiderio di partire da sé per “non tornare alla normalità”. Sto
cercando d’intravvedere nella pandemia un varco da attraversare dentro di me per tornare a camminare con leggerezza all’aperto appena sarà possibile. Pronta a immaginare un altro mondo e a partecipare attivamente a realizzarlo.
Ottobre 2020 - Dare voce al corpo
Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.
Mariangela Gualtieri
Siamo dentro la seconda ondata di coronavirus. Qui, a Milano, da almeno una settimana la sirena delle ambulanze è tornata a fare parte del mio paesaggio sonoro quotidiano e, da due giorni, alla sera c’è il coprifuoco. Io però non sono pronta a tornare a tremare di paura. Tremare di paura per le morti che la nostra impreparazione provocherà e per le condizioni insostenibili di vita a cui in tante e tanti saremo di nuovo costrette/i. Penso, in particolare, alle operatrici e agli operatori socio-sanitari, al personale medico e a tutte le cittadine e i cittadini che vivono a vario titolo in situazioni di vulnerabilità economica (lavorativa, abitativa, ecc.) e/o sociale (familiare, educativa, psicologica, ecc.). Mentre digito le lettere sulla tastiera ho in mente le storie di vita che ho ascoltato, durante i mesi della prima ondata, tramite il centralino dello sportello psicologico gratuito di ascolto e intervento per l’emergenza Covid-19 rivolto al personale sanitario e alla cittadinanza promosso dal laboratorio He.Co.Psy (Health Conflict Psychology) del Dipartimento di Scienza Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e da Medicina Democratica. All’interno dello sportello - in presenza online - mi sono occupata, insieme ad un team di volontarie e volontari, del primo contatto (via mail o via Skype) di chi è rivolto al servizio attivo 24h/24 e ho anche partecipato con grande curiosità alle riunioni d’equipe da remoto del servizio. Questi incontri, che avvenivano generalmente il sabato mattina - giorno che aspettavo con desiderio di conoscere -, hanno rappresentato per me una finestra sulla pandemia perché mi hanno offerto la possibilità di superare il confinamento fisico della mia casa per accedere alla vite di altre persone dalle quali mi sono sentita toccata. Infatti, nelle riunioni le/gli operatrici/operatori - tutte e tutti volontari - che accompagnavano per un breve ciclo d’incontri online o telefonici il personale sanitario e la cittadinanza, a turno condividevano la propria esperienza chiedendo feedback all’equipe multidisciplinare composta non sono da psicologhe/psicologi e psicoterapeute/psicoterapeuti di differenti indirizzi teorici, ma anche da assistenti sociali, counselor e da pedagogiste, tra le quali c’ero anch’io. Alcuni di questi frammenti di storie
di vita sono stati raccolti e, la settimana scorsa, hanno fatto parte del palpitante testo del reading teatrale “Voci e storie dal centralino” realizzato in chiusura a una giornata di studio - “Le politiche del Covid. Cura, resilienza e resistenza durante e oltre la pandemia”, Milano Ri-Make 18 ottobre 2020 - dedicata all’analisi e alla riflessione critica delle politiche della salute e della salute mentale durante la pandemia tra mondo della ricerca, realtà territoriali di mutualismo e cittadinanza. In quell’occasione, con mia grande emozione, le loro storie si sono mescolate con le mie parole: chi tra noi si è occupato di creare i testi sulla base di una ricostruzione dell’esperienza dei terapeuti ha anche deciso, infatti, d’includere un estratto dal paragrafo precedente “Sentire la gravità” da me scritto nel mese di aprile.
Le mie parole e voce di altre/i hanno risuonato in me “visto che siamo tutti mammiferi, a qualunque gioco di parole giochiamo, parliamo di relazioni” (Bateson & Bateson, 1987, p.57). Ovvero: le storie hanno la capacità di (ri)metterci in contatto con l’esperienza, anche se in forma mediata. Così l’impossibilità di Marta (nome di fantasia) a uscire di casa a causa di ricorrenti attacchi di panico, hanno risuonato con il ricordo della sensazione di sentirmi mancare l’aria perché costretta a casa. Un’esperienza probabilmente opposta, ma allo stesso tempo anche simile per l’assenza del respiro, che mi aveva portato, come ho raccontato nel paragrafo precedente, alla scelta di dedicare uno spazio della mia giornata alla pratica di ascolto del respiro tratta dalla mia esperienza di praticante (allieva e oggi insegnante) del Metodo Feldenkrais® (Feldenkrais, 1991; Della Pergola, 2017). Dare voce a frammenti di storie dà forma a un’esperienza estetica, che è per l’ascoltatore un’esperienza innanzitutto corporea. In effetti, ho sentito la pelle d’oca quando le parole di Sofia (nome di fantasia) hanno generato un eco nella palestra dove era allestito il reading teatrale. A lei la quarantena ha fatto del male perché diceva averle tolto i sogni. In quel momento, grazie al sollevarsi dei peli delle mie braccia, l’aumento del battito cardiaco e della frequenza del respiro data dalla forte emozione, hanno preso una forma corporea che mi permesso di connettermi con l’evoluzione umana fino a sentire che sono un mammifero e che, tanto tempo fa, la mia pelle era ricoperta da uno strato di pelliccia. Sentire di essere un mammifero adulto, significa per me avere la consapevolezza di essere un’animale sociale la cui sopravvivenza dipende dalla salute degli altri esseri umani e non umani, ovvero dalla presenza di biodiversità.
Lo scenario indotto dall’emergenza coronavirus, non ha tolto solo i sogni a Sofia, ma sappiamo sta generando situazioni di profonda indigenza e ingiustizia sociale in un paese dove gli equilibri naturali, climatici e sociali sono sempre più in bilico. Ritengo, dunque, che la perdita dell’immaginazione raccontata da Sofia sia il rischio più grande che collettivamente stiamo correndo in un tempo dove la pandemia si è rivelata, la cartina di tornasole per vedere come l’individualismo e il neoliberismo hanno prodotto, negli scorsi anni, forme sfaccettate, e spesso invisibili, di disuguaglianze nei differenti ambiti nei quali è articolata la nostra società. In particolare, la pelle d’oca parla del mio desiderio di tornare a sognare insieme per ridare senso alla convivenza sociale, alla partecipazione a partire dal contatto corporeo. Infatti, il periodo di confinamento dei mesi scorsi mi ha portato a fare i conti con il fastidio e l’irritazione per un modello di sviluppo, nel quale sono cresciuta, basato sul fare, sull’idea di successo, sull’impossibilità di fermarsi per ascoltare il corpo dove velocità, accelerazione e alienazione mi tengono per mano.
L’opera di narrazione delle storie ha intrecciato memoria e immaginazione, trascinandomi a vedere la scena attraverso le reazioni del mio corpo che, contemporaneamente, aggiungeva dettagli significativi. Una realtà di finzione, anche se su base biografica dove sperimentare l’interdipendenza dei partecipanti (autore, attore, audience).
Con questo mio scritto non sto cercando di mettere me stessa al centro della scena, ma di andare oltre il mio ombelico. Infatti, la mia visione di narrazione non può prescindere dalla mia formazione sistemica nel campo della ricerca educativa per la quale l’azione del raccontare non è mai fine a se stessa (Formenti, 2018). In questa direzione, la narrazione supera la particolarità della vita singola per accompagnare autore e lettore a riconoscersi parte del paesaggio tratteggiato dalle parole. Un paesaggio che non è esaustivo, ma evocativo di altre possibilità e che propone di lasciare uno spazio vuoto. Le storie di vita, infatti, ci accompagnano al riconoscimento che nel percorso di vita di ciascuna/o ci sono possibilità non ancora esplorate, all’interno di narrazioni dominanti che vedono il corpo fiaccato e isolato per la pandemia. Desidero sottolineare che quella che stiamo vivendo è un’esperienza primariamente corporea che lascia tracce più o meno evidenti nel corpo di ciascuna/o, ma che ci dà anche la possibilità di sentirci connesse/i. Evidenti sono i segni lasciati sul volto dalle mascherine e dal cosiddetto scafandro che il personale sanitario indossa per proteggersi dal rischio di contagio, nascoste e senza voce sono le sensazioni attraversate dai malati di Covid-19 ricoverati negli ospedali o rinchiusi a casa. Intangibile il turbamento per il lento abituarci quotidiano alla prova della temperatura con il termometro digitale puntato sulla fronte, spaesante l’esperienza di guardare un film e di pensare che le persone siano troppo vicine tra loro e, infine, inquietante sentire che i discorsi intorno a te quando esci di casa, ormai da mesi, ruotano tutti intorno al Covid.
Facciamo parte del mondo e siamo inevitabilmente fatti per interagire con esso attraverso i sensi. A partire da questa consapevolezza, i mesi di confinamento mi hanno fatto avvertire sempre più forte di desiderio di diventare con l’età una donna saggia. Per Gregory Bateson, il pensatore eco-sistemico a me più caro, la saggezza è la sensibilità al pattern che connette tutte/i noi le/gli une/i agli altre/i, alla storia e all’ambiente. La saggezza per me è legata al corpo (Feldenkrais, 2011), radicata nell’ascolto del mio respiro e di come mi muovo nei diversi contesti di vita che attraverso. La saggezza sistemica ed ecologica, mi porta dunque – questo è il mio punto di vista - a lasciami toccare nel corpo dalle storie degli altre/i per riconoscere ciò che ci unisce e ciò che ci distingue. Provo a sentire, non solo a pensare con la testa, che se all’ambiente e tante/i vengono sottratte le risorse per vivere, questo ha a che fare anche me perché siamo collegate/i…
Mentre scrivo le mie orecchie sono attratte dai suoni della radio nell’altra stanza: le agenzie stampa riportano la notizia che da domani saremo in “semi-lockdown” per un mese. La mia prima reazione è un sospiro profondo, al quale segue la ricerca di una postura un po’ più comoda sulla sedia, nella quale mi sento come incastrata. Rimango per un po’ ferma, decisamente frastornata, poi il bacino scivola avanti fino ad appoggiarsi sul bordo anteriore della sedia. In questa posizione le ginocchia sono in linea con le caviglie
e, quasi senza pensarci, ritorno alla mia pratica (Metodo Feldenkrais®). Qui solo inspiro ed espiro. Il respiro mi muove seppur rimango ferma e, grazie al movimento del respiro, posso sentire come sono appoggiata sul lato destro della sedia. Inspiro ed espiro, ancora un po’ di volte, e ascolto anche come sono appoggiata sul lato sinistro del bacino. Ancora una volta mi conosco attraverso il movimento (Feldenkrais, 1978). Inspiro ed espiro e sento gli ischi, ovvero la parte bassa e posteriore del bacino a contatto con la sedia. Respiro lentamente; poco alla volta, la sensazione di costrizione si trasforma nella percezione del sentirmi con i piedi per terra, infatti, i piedi sono radicati nel pavimento e il bacino affonda nella sedia. Nonostante tutto…mi sento, ci sono. Sono pronta a tremare e scende una lacrima.