di Claudia Massa
Laboratorio di Ecologia della Salute AIEMS, Roma
Consulente aziendale per lo sviluppo del business, dell’organizzazione e delle persone
Aprile 2020 - Riflessioni al tempo del coronavirus
La casa come spazio interiore
Abito al decimo piano di un palazzo nel quartiere S. Giovanni a Roma, un quartiere molto popoloso e popolare per la facilità con cui si intrecciano relazioni e legami profondi di buon vicinato.
La vista che ho dalla mia casa è a perdita d’occhio da una parte, e per la restante parte, vedo terrazzi condominiali, i tetti vuoti ed inanimati dei palazzi di fronte e le montagne in lontananza. Dunque, non ho nessuno di fronte ed intorno. Una casa aperta che sembra quasi toccare il cielo, luminosa e con un bel terrazzo pieno di piante che ricordano un giardino.
Vivo da sola in questo spazio che per me è da sempre uno spazio interiore oltre che uno spazio fisico. In questa casa ritrovo i miei “pensieri lenti”, nel silenzio, nella luce dell’alba e del tramonto o nel buio della notte quando contemplo la luna e le stelle. Un luogo dove pormi al di sopra del trambusto e della frenesia della città, dove isolarmi per guardare la realtà in modo distanziato e cercare di capire se c’è un modo diverso di guardare le cose, di pensare e di agire.
Fatta questa premessa importante, la mia riflessione parte da un primo episodio divertente che segna in qualche modo l’inizio di questo periodo, nonostante la sua drammaticità dal punto di vista umano, sociale ed economico.
Il rapporto con l’esterno
Ero concentrata a scrivere sul mio computer e sento come una presenza in quell’eremo metropolitano, che come ho descritto sopra, è la mia casa. Alzo lo sguardo, e vedo una signora che cammina sul tetto, badate bene non nel terrazzo condominiale, ma sul tetto di un palazzo di fronte.
Mi sento per la prima volta osservata nella mia casa, violata nella mia sfera privata, che fino ad allora era rimasta custodita. Dapprima disturbata ed un po’ infastidita, accolgo quasi subito lo stimolo e da osservata divento a mia volta osservatrice di quanto accade sui tetti e nei terrazzi condominiali ai tempi del Coronavirus.
Terrazzi spesso lasciati abbandonati e disabitati, in questo periodo hanno ripreso vita. Una vita vivace, allegra, vicine che stendono panni insieme, ragazzi che anche loro non si accontentano di abitare il terrazzo condominiale ma si arrampicano per arrivare al tetto e poter toccare il cielo. Li vedo scrutare, con sguardo meditativo un orizzonte sconosciuto, dall’alto aprirsi a nuove prospettive più ampie.
Poi ci sono i flash mob di ragazzi, adulti ed anziani che ancora oggi alle 18 si ritrovano a cantare e a comunicare attraverso i balconi. Anche i cortili si rianimano, diventano piazze reali.
L’orgoglio di essere italiani e la riconoscenza al personale sanitario
In queste piazze dove si diventa amici non solo virtualmente, si manifesta un orgoglioso senso di patria e di appartenenza. Quello che non siamo riusciti a costruire, anche per ragioni storiche, è riuscito a farlo per il momento il Covid-19, cioè eliminare le distanze culturali tra nord e sud, sentirsi uno anche nei confronti di una Europa che ha faticato a riconoscere la nostra difficoltà e a dare il suo sostegno. La solidarietà che si è attivata nel nostro paese e che cresce di giorno in giorno attraverso l’impegno ed il cuore di singole persone o di gruppi organizzati ed auto organizzati.
Mi dà particolare gioia vedere la riconoscenza dei cittadini e delle istituzioni a tutto il personale sanitario ed alla sanità pubblica in generale. Abbiamo un patrimonio di competenze e di professionisti che da sempre lavorano con dedizione e grandi capacità, nonostante i tanti tagli alla sanità compiuti negli anni, le difficoltà, lo stress e la fatica che questi tagli hanno comportato su tutto il personale che vi opera quotidianamente. Ha ragione quel medico che in un articolo chiede di non definire oggi eroi i medici, perché eroi loro lo sono sempre stati, viste le condizioni in cui li abbiamo fatti lavorare.
Non mi preoccupo se questo orgoglio nazionale sopravviverà al virus che lo ha generato. Preferisco restare nel presente e godermi gli aspetti positivi che sta generando. So che dipenderà da noi consolidare questi risultati.
La tecnologia diventa umana
In questo tempo ho potuto apprezzare la metamorfosi della tecnologia verso una dimensione più umana. L’impossibilità di incontrarci, e di avere dei contatti fisici reali ha portato noi esseri umani ad utilizzarla come mezzo al servizio dell’uomo e dei propri bisogni. Quasi mai ho fatto video chiamate con familiari od amici, il sentire la loro voce fino ad oggi mi bastava. Oggi no, c’è il desiderio di vedersi pienamente, in qualunque modo, affacciandosi ad una finestra, con il telefonino od il computer.
La tecnologia ancora di più è stata un’opportunità, perché mi ha consentito di poter continuare a lavorare anche da casa, cosa che già facevo ma non in modo così totalizzante. Questo aspetto, però, è sfuggito di mano sia a me che a coloro – aziende e singoli clienti – con i quali collaboro. Il vantaggio di non dover effettuare spostamenti in una città come Roma, si è trasformato subito in una tirannia da video conferenza, dalla quale siamo stati fagocitati, forse per poter inconsciamente attenuare le conseguenze lavorative di questo periodo, di cui ancora non sappiamo prevedere bene gli scenari futuri.
Il mio ritmo in sincronia con il ritmo del mondo
Dal primo giorno di blocco la sensazione intima che ho avuto è stata come quando si passa dall’ascoltare musica ad alto volume allo spegnerla di botto. E’ come se la città ed il quartiere in cui vivo, solitamente molto rumorosi e trafficati, fossero stati catapultati in quelle giornate di pieno agosto in cui la città si svuota ed i suoi abitanti respirano all’unisono in un ritmo festivo lento, ma senza alcuna ricorrenza da celebrare.
Nel bene e nel male è come se la città nello spegnere di colpo i propri motori, avesse liberato un silenzio altrettanto assordante a cui non siamo abituati.
La natura ha ritrovato i suoi ritmi e gli spazi che noi esseri umani le avevamo nel tempo sottratto.
A livello collettivo è come se avessimo sincronizzato i nostri orologi biologici ed interiori. Percepisco questo tempo come un diapason che offre una nota sulla quale poter accordare, se vogliamo, nuovi stili di vita collettivi più rispettosi verso noi stessi e dell’ambiente nel quale viviamo.
Ottobre 2020 - sguardo privato e comportamenti sociali
Uscita dal lockdown: il primo abbraccio. Skin hunger, letteralmente “fame di pelle”, il concetto riporta ad uno dei bisogni primari dell’uomo quello del contatto fisico. Analizzato nei suoi effetti psicologici e fisici sia sui bambini che sugli adulti già alla fine degli anni ’50 da autorevoli studiosi quali lo psicologo statunitense Harry Harlow dell’Università del Wisconsin, successivamente Levine ed i suoi collaboratori nel 1962, Denemberg nel 1990 e Shamberg nel 1995, solo per citare quelli più noti, questo tema è tornato prepotentemente attuale durante questo periodo di pandemia. Dagli studi precedenti abbiamo appreso che “il tocco è implicato in numerose esperienze di base, non è solo una stimolazione, ma un modo di aiuto al funzionamento complessivo dell’organismo” (Rizzi, Rizzi, Casetta, 2011), che è un potente antistress, in quanto abbassa il livello di cortisolo, ed ha un forte impatto sull’umore, sull’insonnia e sulla depressione. In questo periodo soprattutto il distanziamento sociale obbligatorio ha contribuito a garantire noi, i nostri familiari e la comunità tutta da un ulteriore amplificarsi dei contagi. D’altro canto, abbiamo necessariamente dovuto rinunciare ad una fonte preziosa di benessere emotivo data dalle carezze, dagli abbracci, dal tenerci per mano, o dal camminare sotto braccio a persone a noi care e più in generale da un modo di relazionarci senza filtri quali mascherine, tecnologie, ecc. che davamo troppo per scontato. Nel momento in cui il paradigma di una “società liquida” e quello di “relazioni liquide” sono diventati obbligatori, abbiamo percepito l’importanza di vivere pienamente, e più da vicino, non soltanto in senso fisico, il legame con l’altro. Il distanziamento sociale ci ha portato a ricercare il contatto fisico ed emotivo con le persone, a maggior ragione e con più desiderio con quelle a cui siamo legate e che spesso sono inserite in una routine frettolosa. Forte ed intenso è stato anche per me il desiderio di rivedere fisicamente e di abbracciare mia mamma dopo due mesi nei quali, per sua tutela, ci siamo volutamente astenute dal vederci. Il timore nei primi incontri di avvicinarmi troppo a lei, la sua voce che mi chiede «ma quando mi abbraccerai di nuovo?», detto da una mamma che tutto è fuorché una persona che ama indugiare in effusioni, ancora mi commuove. Ci siamo riabbracciate come mai avevamo fatto prima. La comunicazione ed il rispetto delle regole “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche” (Jean-Paul Sartre).
Dalla mia esperienza sul tema della comunicazione e parafrasando la frase di Jean-Paul Sartre, direi che non solo ogni parola ha conseguenze ma anche la scelta e la modalità di combinare le parole, i toni e molto altro hanno conseguenze importanti, ma soprattutto determinano l’efficacia o meno del messaggio. In questi mesi un po’ per mancanza di tempo, un po’ per un sentimento di noia che avverto quando ascolto qualunque telegiornale, tendenzialmente ho evitato “come la peste”, tanto per rimanere in tema di epidemie, qualunque notiziario. Li trovo sempre più superficiali, tutti uguali, orientati a dare quasi esclusivamente notizie catastrofiche perché più impattanti sull’audience, che a valorizzare quanto di buono si sta facendo o seminando in questo paese e nel mondo. Per questo motivo la mia analisi sulla comunicazione delle istituzioni e dei media sul tema della pandemia, sulle informazioni fornite, sulle regole da rispettare ed i comportamenti da adottare è basata sull’ascolto spot di qualche telegiornale, sulla lettura di articoli online di autorevoli testate e di qualche post su Facebook di persone che ritengo accreditate per poter parlare di questo argomento, che hanno condiviso a loro volta articoli ritenuti interessanti ed approfonditi o loro valutazioni sul fenomeno, e non da ultimo il confronto diretto con alcuni esperti. Ho osservato cosa ha prodotto nel tempo questa comunicazione, che è stata strutturata in un contenuto ed in una forma tendenzialmente omogenei, anche se proveniente da canali diversi. Vedo due risultati uguali e contrari, ma pur sempre deleteri per il raggiungimento di un obiettivo comune. Immagini di bare, medici ed infermieri stremati e segnati in tutti i sensi da un impegno straordinario ed eccezionale, bollettini ufficiali quotidiani con i dati sui morti ed i contagiati, comunicazioni istituzionali severe ed ammonitrici, hanno portato le persone su due schieramenti opposti, da una parte “gli scienziati”, quelli che appunto si affidano alla scienza, che leggono i numeri, che hanno come riferimento il virologo famoso di turno. E poi ci sono quelli definiti dai primi “i negazionisti”, che ritengono la pandemia creata ad hoc da poteri forti ed occulti, o più semplicemente persone che hanno verso la salute un approccio diverso, olistico come viene definito e che seguono la cosiddetta medicina alternativa, ed anche loro con i propri virologi di fama come riferimento. Tutto da manuale, come i ricercatori della City University di Londra e della University College London hanno dimostrato riguardo al “pregiudizio di conferma”, secondo il quale tendiamo a ricercare e a dare fiducia solamente a quelle informazioni che confermano le nostre convinzioni. Come si sono, dunque, tradotte nei comportamenti queste due visioni contrapposte? In osservanza stretta delle regole i primi, in atteggiamenti più rilassati, quando non trasgressivi, i secondi. In entrambi gli schieramenti, perché di questo si tratta, un giudizio sprezzante e supponente degli uni verso gli altri, che sicuramente non aiuta nell’affrontare efficacemente il problema. Vista la recrudescenza del virus, peraltro già prevista nei mesi precedenti, e l’allarme lanciato recentemente dall’OMS sulle conseguenze psicologiche causate da questa pandemia, la domanda che in primis le istituzioni e poi i media si dovrebbero porre è: attraverso la comunicazione si sarebbe potuto fare qualcosa di meglio o diverso per ottenere comportamenti più rispettosi nei confronti del bene comune “salute” ed al contempo avere conseguenze meno pesanti sul disagio mentale delle persone? Che ci sia stata una comunicazione disorientante è un fatto certo, se anche l’OMS di questi tempi si è ritrovata ad over sottolineare più volte il pericolo dell’infodemia, termine che indica una quantità eccessiva di informazioni spesso contraddittorie tra di loro, e che, in questo caso, ha avuto come effetto quello di aver amplificato l’ansia e lo stress, a maggior ragione quando le indicazioni sono state fornite da autorevoli scienziati spesso in disaccordo tra di loro. Penso, ad esempio, all’uso della mascherina prima non obbligatoria, poi obbligatoria solo nei luoghi chiusi, e poi obbligatoria sempre. Direttive di questo genere hanno determinato comportamenti contradditori anche nei gestori di esercizi pubblici oltre che nei singoli. Condivido quanto mi è accaduto proprio questa estate al mare. Da sempre amo andare in spiaggia al mattino presto, quando non c’è nessuno, per godere del rumore delle onde, della fresca brezza marina, dei profumi che solo in quel momento della giornata si sentono più intensamente. Vado in uno stabilimento famoso per la bellezza del luogo che lo ospita e per le onde molto amate dai tanti surfisti che lo frequentano, solo da qualche anno diventato anche luogo di ritrovo nell’ora dell’aperitivo al tramonto per giovani e meno giovani. Come se ci fosse un cambio della guardia tra me e la folla, quando questa inizia ad arrivare per me è il momento di andare via. Proprio in questo momento di passaggio, dall’inizio dell’estate e fino ai primi giorni di agosto, quando i casi di Covid hanno iniziato anche lì a sollecitare una maggiore cautela, ho assistito a fiumane di ragazzi prendere d’assalto questo luogo nell’ora dell’aperitivo, due/trecento ragazzi più spesso senza mascherina, ammassati in gruppi come se niente fosse, ai quali in ingresso veniva presa diligentemente la temperatura e fatto compilare il foglio indicante i riferimenti (nome, cognome, codice fiscale, numero di cellulare).Una mattina presto nello stesso stabilimento arrivo io, oltre me solo qualche bagnino in lontananza a fare le normali manutenzioni ed a sanificare sedie a sdraio e lettini, e mi chiedono di indossare la mascherina per fare un breve tragitto che, all’aperto, mi porta dall’ingresso al bar, sempre all’aperto, dove normalmente vado per la colazione. Esempi di atteggiamenti paradossali e contraddittori di questo periodo. Quando ho affrontato con qualcuno il tema della comunicazione nel periodo del Covid, spesso mi sono sentita dire che se gli italiani non vengono spaventati, non rispettano le regole. Può essere, ma nelle comunicazioni ufficiali abbiamo mai fatto uno sforzo per rendere più chiari i messaggi? A porre maggiore attenzione nel formulare messaggi che portino le persone ad una maggiore responsabilità anziché colpevolizzarle con una comunicazione manipolatoria?
La cadenza quotidiana in modalità terrorizzante di questo bollettino “di guerra” sulle cifre dei morti e dei contagiati, mi hanno rimandato alla memoria la celebre frase: «fratello ricordati che devi morire», citata nel noto film “Non ci resta che piangere” con Massimo Troisi e Roberto Benigni. In questo periodo, tra gli altri, ho parlato anche con un mio amico, preparato, scrupoloso e sensibile medico di base, il quale mi sottolineava come anche l’orario in cui questi bollettini venivano dati non fosse quello migliore, perché troppo vicino alla sera, e che questo non consentiva, soprattutto alle persone più anziane e a quelle più apprensive, di smaltire l’ansia che questi causavano a molti di essi insieme all’insonnia. A suo avviso, gli stessi bollettini dati al mattino avrebbero reso l’impatto meno pesante dal punto di vista psicologico, poiché le stesse persone avrebbero avuto una giornata intera per gestire ed anche un po’ assorbire lo stress causato da questi aggiornamenti. Altri paesi hanno deciso di diffondere i bollettini una volta la settimana. In Inghilterra, ad esempio, hanno tenuto conto delle possibili conseguenze psicologiche che il lockdown avrebbe avuto sulle persone che vivono sole, così hanno previsto che potessero vedere con regolarità una persona considerata come un congiunto anche se non familiare ed anche se le stesse persone non si trovavano in stato di difficoltà a muoversi autonomamente. Piccoli accorgimenti che possono fare la differenza nel favorire la cooperazione dei cittadini con le istituzioni, nel ridurre le divisioni tra membri di una stessa nazione in virtù di uno sforzo comune su come affrontare la situazione generata da questo virus, ma soprattutto nel non generare impatti negativi più ampi sulla popolazione come quelli psicologici, di cui ancora non sappiamo vedere e prevedere la portata. Equilibri economici, sociali ed individuali. L’orizzonte oscuro sulla durata e l’evolvere di questa pandemia, la percezione da parte della gente che le istituzioni, in modo frammentato e diviso, stiano arginando l’emergenza più che risolvere questo problema, portano giustamente a percepire il futuro incerto, pieno di rischi e difficilmente programmabile. Nella prima chiusura, nonostante la difficoltà del momento, la maggior parte delle persone era più fiduciosa e compatta sul fatto che tale sforzo le avrebbe a breve ricompensate con la riduzione drastica dei contagi, e confidente sul fatto che l’imminente uscita del vaccino anti-Covid avrebbe debellato con successo ed in tempi relativamente brevi il virus. Lo scenario attuale risulta più problematico ed incerto rispetto ai primi mesi dell’anno e dal periodo del lockdown, questo genera maggiore stress e preoccupazione a livello individuale e sociale, come le recenti manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia hanno dimostrato.
La prospettiva di questa crisi come opportunità per ripensare nuove alternative di vita, più “ecologiche” e sostenibili, va sbiadendosi in persone che non possono più permettersi i tempi di questa riflessione, preoccupati di come andare avanti domani. Le istituzioni stanno cercando di mediare tra interessi contrapposti: quello dello Stato che dovrebbe contenere l’epidemia e quelli del mondo della produzione - imprese e professionisti - e delle singole persone dall’altro, che a diversi livelli risultano sempre più spaventate da questo mancato ritorno alla normalità e da una recrudescenza dei contagi. Senza dubbio un’impresa non facile per le istituzioni di questo paese, ma anche per quelle europee e di tutto il mondo, garantire la salute - fisica e mentale - e cercare di mantenere gli equilibri economici e sociali. Penso che chi ha avuto la fortuna in questo periodo di rimanere indenne sia fisicamente che economicamente da questa pandemia, debba dare il proprio contributo allo Stato ma anche supporto alla propria comunità di riferimento nei modi che ritiene più opportuni e confacenti alle proprie possibilità. Il salto vero in termini di qualità ed efficacia, però, sarà possibile solo quando ciascuno sforzo statale, di comunità ed individuale sarà portato a sistema.