di Rosanna Pizzo
Socia Ordinaria AIEMS, Catania
Dottoressa in Scienza della Formazione
Counselor ad indirizzo sistemico-relazionale
Paul Klee, Angelus Novus
Aprile 2020 - Covid-19: diario di un incontro con il cigno nero
Abbiamo impoverito da tempo la nostra appartenenza
non a un'identità ma un immenso tessuto vivente che
riguarda tutti, umani e non umani, animali e piante,
elementi vegetali e animali
Gianluca Solla
Ringrazio Sergio Boria per questa opportunità di raccontare i miei vissuti sul Covid-19 e i cambiamenti nella vita di ciascuno di noi. L’atto del narrare è già pharmakos, nella sua opzione semantica di “medicamento”, rammentando che ogni storia è plurale, personale e relazionale, in quanto un sé racconta sempre ad altri potenziali lector in fabula, in un processo circolare di partecipazione reciproca e di crescita. D’altro canto “è perché possiamo raccontare storie che l’esistenza vale ancora la pena di essere vissuta” (George Steiner).
Ecco il mio racconto: dopo un salmagundi pantagruelico, un guazzabuglio di informazioni mediatiche, il 9 marzo ha inaugurato il lockdown, o chiusura totale, che ci ha recluso entro le mura domestiche, considerata l’importanza del distanziamento sociale come terapia difensiva dalle aggressioni teratogene del virus. Siamo di fronte a un cambiamento radicale, che ha trasformato il 'tempo vissuto' di ciascuno di noi in tempo proustianamente 'perduto', da reinventare e trasformare in 'tempo ritrovato', con l’augurio che non sia tragico, come quello proustiano. Veniamo a conoscenza, attraverso i mass media, di statistiche, decessi, disposizioni normative, prescrizioni comportamentali attinenti una prossemica interamente stravolta, che non possono non mettere in crisi la stabilità della nostra identità, di quell’io che Nietzsche, definiva “un'espressione grammaticale.”
Mi sono sentita, protagonista, alternativamente, di quel magico Bildungsroman che è “La montagna incantata” di Thomas Mann, quindi reclusa nel sanatorio Berghof di Davos, o straniata abitante di un mondo percepito di colpo come una grande istituzione totale, in cui la mia casa è diventata una claustrofobica “cella” (Erving Goffman - Asylums). Preclusi, cinema, teatro, amici, passeggiate, sortite al coloratissimo mercato della mia città. A questo si è aggiunta la preoccupazione per mio figlio che vive in Lombardia, la regione più infettata d’Italia! Solo le letture, la curiosità di conoscere e di comprendere cosa accade nel mondo che abito, mi stanno aiutando a fare del mio carattere saturnino una risorsa. D’altro canto, l’indimenticabile oraziano “sapere aude” (abbi il coraggio di conoscere) potrebbe essere una lezione diretta a un cambiamento work in progress.
Su questa cifra oraziana, ho pensato al cigno nero che, fino a poco tempo fa, per me aveva la fascinazione evocativa di un’alterità fuori dal mio orizzonte esistenziale, legata solo alla storiografia, alla letteratura, da Tucidide a Boccaccio, fino a Manzoni. Ma perché il cigno nero? Il cigno nero è un uccello bello ed elegante, rarissimo, scoperto in Australia verso la fine del Seicento, da cui è stata mutuata una metafora, un tropo che allude ad avvenimenti rari, traumatici, quindi imprevedibili. Come il Covid-19, realtà eterotopica e perturbante. Perché? Perché le eterotopie
“spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi. (M. Foucault - Le parole e le cose)
Il Covid-19 infatti, ha inaridito in questo momento i nostri discorsi; ha bloccato le parole su se stesse. A molte, anzi a troppe persone le ha addirittura tolte, per sempre. Inoltre ha devastato la “sintassi”, quella che “fa tenere insieme le parole e le cose”, vista la difficoltà, da parte degli stessi addetti ai lavori, di catalogare sia in senso clinico che epidemiologico, questa impalpabile, microscopica pallina proteica, le cui precondizioni di esistenza sono state predisposte dall’homo demens, non più sapiens, con esiti letali. Rara e inaspettata come un cigno nero, di cui porta il colore dell’epifania luttuosa e mortifera del virus.
Come è arrivato a noi? Attraverso l’uomo, che ha alterato il sistema Natura che abita e a cui appartiene ontologicamente, dimenticando di essere egli stesso “parte danzante di una danza di parti interagenti”. (G. Bateson). Stiamo rischiando di trasformare le megalopoli dell’universo globalizzato in cui viviamo in desolate necropoli. Nel 2012 lo scrittore David Quammen, nel saggio “Spillover”, profetizzò - inascoltata Cassandra – l’arrivo di questa pandemia, causata da un virus zoonotico, perché trasmesso da un animale selvatico (forse un pipistrello) all’uomo, come è accaduto in un mercato cinese, da cui ha tratto origine.
Ecco il contesto scellerato e irresponsabile che ha permesso una diffusione rapida di questa infezione. Il virus, altrimenti, sarebbe stato innocuo: non aveva certo l’intenzione di infettarci, non era programmato per questo. Se così pensassimo, cadremmo nelle famose “spiegazioni soporifere” e anti-sistemiche del tipo “l’oppio fa dormire, perché possiede vis dormitiva”, delle quali ci aveva già avvertito da G. Bateson, circa cinquant’anni fa. In realtà, un approccio alla complessità, suggerisce che la patogenesi del virus è il risultato della commistione tra uomini e animali selvatici, che i cinesi allevano nelle loro abitazioni. I loro mercati, tenuti in condizioni igieniche precarie, sono pieni di animali vivi, che vendono e mangiano, compresi i pipistrelli, consuetudine che farebbe inorridire di disgusto noi occidentali. Infine, la pervasività infettiva del virus è stata amplificata da un contesto che ricorsivamente ne potenzia la carica patogena. Basti pensare ai livelli di inquinamento atmosferico, tipici delle società industrializzate, per comprendere come il virus possa trovare il suo habitat ideale (la pianura padana, pare, sia la più inquinata d’Europa) negli esseri umani. Concludendo, trovo fuorviante il linguaggio bellico (fronte, guerra, lotta) usato dai mass media rispetto a questo virus, decontestualizzato da una lettura complessa, sistemica, per la quale l’unità di sopravvivenza è costituita dalla relazione ricorsiva tra l’uomo più l’ambiente. Per questo, la retorica della guerra, condotta da una semantica linguistica inappropriata, opera una traslazione distorta sul Covid-19, connotandolo come nemico, contro cui intraprendere un’improbabile battaglia, anziché concentrarsi sulle patologie comportamentali sottese dai nostri stili di vita. Il virus è un vincolo: diventerà una risorsa, se, recitando il mea culpa, comprenderemo che “Lui è noi” e che di esso ci possiamo liberare; se cooperazione e condivisione diverranno la cifra con cui abiteremo il pianeta, che ci appartiene e a cui apparteniamo, come la nostra identità destinale terrestre ci impone, rammentando, come ha detto Papa Francesco, che non ci si salva da soli.
Ottobre 2020: Narrare il Covid tra rammemorazione e redenzione. Un’utopia per una diversa epifania di senso?
In tempi antichi tutte le strade portavano in qualche modo a Dio e al suo Nome.
Noi non siam devoti. Restiamo nel profano
E dov’era Dio ora c’è Malinconia
Gershom Scholem
Riprendo quel diario, che ha costituito la prima parte di questo lavoro, attivando uno sguardo semiotico per questa seconda parte, che si declinerà attraverso un approccio rizomatico finalizzato a rendere più fluidi concetti complessi, per le varie stratificazioni di significato, cui essi rinviano. Le mie connessioni saranno erratiche, metaforiche, in una parola, quello che in letteratura si chiama intertestualità. Narrerò “il mio Covid”, in una forma più che altro trasversale, indiretta, quindi come la sento esteticamente, attraverso quella conoscenza per sensibilità tanto cara a Bateson.
Inizio con il dire che la locuzione “Rammemorazione”, facente parte del titolo che ho dato a questo lavoro, è parola chiave, una struttura che connette, il luogo, verosimilmente utopistico di un desiderio, che è solo mio, alla ricerca di un’altra epifania di senso, con cui guardare a questo Covid, nostra creatura con cui abbiamo pervaso il mondo, ormai distopico che abitiamo.
Rammemorare è un verbo, legato a una sorta di memoir teoretico del filosofo e letterato Walter Benjamin (1892 - 1940) dal titolo Tesi di filosofia della storia, scritto tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940, mentre la bufera nazista aveva sconvolto non solo lui, ebreo-tedesco, ma anche tutto il resto del mondo.
Walter Benjamin è stato uno scrittore, un filosofo, in una parola un intellettuale geniale, visionario, non sistematico, la cui prosa a tratti poetica, presenta un andamento paratattico, che si manifesta tra interruzioni, digressioni, apparenti salti logici, lungo il declinarsi del suo pensiero, rendendolo ancor più affascinante. Rammemorare, verbo che troviamo nella IX Tesi, non fa parte della lingua d’uso, bensì appartiene a un registro estetico letterario, in cui il prefisso Ra- inaugura un volgere magico della memoria al passato, ben diverso dal più mnemonico ricordare. Si riferisce, infatti, a un processo dialettico di ricostruzione, a volte anche di invenzione, di rielaborazione del passato in una forma estetica, emozionale, diversa. Per inciso, la rammemorazione, non è forse il contesto attraverso cui si declina il setting analitico? Benjamin, da antistoricista qual’era, non vedeva nella Storia uno “sgomitolamento lineare” proiettato verso l’avvenire e il progresso, quindi miglioramento della condizione umana, viceversa lo vedeva come una katabasis, cioè un dialogo con il passato, con l’umanità che ci aveva preceduto, testualmente:
“Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? … Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra”.
Benjamin, in altri termini, definito pensatore della “costellazione”, vedeva il passato ricorsivamente connesso al presente, anzi derivante e prodotto da esso. Diceva “in questa prospettiva il nostro compito è quello di voltarci indietro per raccogliere, rammemorare, ciò che è rimasto irrisolto nella Storia di chi ci ha preceduto e dargli voce” Questa voce, Benjamin la vedrà incarnata in un acquarello del pittore Paul Klee (1879 - 1940) dal titolo Angelus Novus, che nel 1921 acquistò a Monaco, e che rappresentò per lui un momento topico, una sorta di illuminazione, che gli suggerì di rinominarlo L’angelo della Storia, l’angelo custode, anche, di una struggente evocazione di molteplici sue vicende personali.
Eccolo, come appare nella sua descrizione l’angelo della storia
“C’è un quadro di Klee, che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi: destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera”.
Quest’angelo della storia viene travolto dalla bufera del progresso che spira dal paradiso, il mitico Eden dell’origine, il perduto paradiso terrestre, invano, retrocede verso quel futuro “a cui egli volge le spalle”, a quell’infausto progresso legato ad un malinteso concetto mitico dell’origine a cui l’homo demens, non più sapiens, vuole a tutti i costi approdare.
Un incontro magico tra un filosofo e un pittore che trascende i confini disciplinari specialistici, in cui i saperi possono essere trasversalmente accomunati da emozioni, sentimenti che connettono, come in questo caso, l’arte figurativa di Paul Klee e le riflessioni, appassionate, oracolari, di quel vate solitario che era Benjamin, “coscienza infelice” del Novecento.
Diceva Goethe che l’immagine racchiude la verità dei fenomeni, la loro essenza originante e originaria che si intuisce, si avverte come in un cristallo. Dall’esame dei Diari di Klee è facile operare un parallelismo tra la sua visione della Storia e quella che emerge nelle Tesi di Benjamin, verosimilmente accomunati anche dal fatto di aver vissuto gli anni tragici del nazismo, Entrambi ne furono travolti, il primo costretto a dimettersi dall’insegnamento, nel 1933, perché il regime nazista considerava la sua arte "degenerata”, il secondo suicida per sfuggire, lui ebreo tedesco, alle persecuzioni naziste, nel 1940, anno in cui morì anche Klee.
Il Covid ci ha restituito un’immagine di noi perturbante, tragica, forse perché la Storia si ripete, inchiodandoci alle nostre responsabilità: nessuna rammemorazione riguardo alle guerre, all’Olocausto, agli anni di piombo, accadimenti non molto lontani, visto che lo scenario è quello del secolo appena trascorso. Continuando questo cahiers de doléances non possiamo non vedere tante devastazioni ambientali: dalla scomparsa di diverse specie animali, agli allevamenti intensivi, dalla deforestazione all’inquinamento fino al bracconaggio e al cambiamento climatico che le riassume tutte.
Il cambiamento climatico nel rendere la vita sulla Terra invivibile sarà il canto del cigno che decreterà la discesa irreversibile dell’uomo nell’Ade: la fine di Atlantide, per quanto leggendaria, dovrebbe servire da monito. Di questo non si parla, né tanto meno si rammemora! Solo la desolazione di un lessico rappresentato da metafore tipiche della prasseologia bellica, (i militari li abbiamo visti durante il lockdown presenti in tutta l’Italia) quali: lotta, guerra, trincea, nemico, molecola killer, task force, pare ben sei. Esse sono costituite da decine e decine di esperti consulenti, chiamati a fornire indicazioni alla Politica, quindi Governo e Parlamento, per meglio dire al Presidente del Consiglio, in ordine alle scelte per contrastare il dilagare del Covid. Paul Ricouer ci ha avvertito sul pericolo delle metafore usate per descrivere una nuova realtà, che si apre al nostro sguardo, per il fatto che esse finiscono per crearne una nuova, ancor più pericolosa. In altri termini, pensare il covid, che è una nostra creatura, come un nemico da combattere, utilizzando metafore belliche, è solo un errore di ordine logico.
Ma qual è la percezione che abbiamo del Covid? A mio avviso, ne abbiamo una rappresentazione soggettiva, secondo il nostro background e il momento della vita che attraversiamo, diversamente ovviamente, da chi ne è stato colpito. Però, non posso non sottolineare la rappresentazione perversa che ne danno i mass media, in primis, la televisione che dà voce ai tanti rappresentanti esperti, almeno connotati tali, compresa l’OMS, “l’un contro l’un contro l’altro armato”, mai d’accordo, anzi spesso in disaccordo, nessun lavoro di squadra. Queste scissioni tra gli esperti non possono che creare nei non addetti ai lavori che li ascoltano, panico, terrore, confusione, distorsione. La televisione sempre più cattiva maestra, ha avocato a sé, purtroppo, in una forma seduttiva e in una maniera sempre più inquietante, la figura dell’eremita di massa (Gunter Anders) che ascolta e ingurgita in solitudine quello che gli viene propinato, senza alcun diritto di replica, ovviamente, verità che sono solo contestuali, quindi spesso manipolate per fini altri! Cosa ascolta l’eremita di massa? Solo, tanti numeri, curve, morti, quarantene, numero di guariti, numero di asintomatici, potenzialmente contagiosi (?). Impazza l’approccio diagnostico tramite tamponi, da più parti, considerati inaffidabili, rispetto a un virus di cui si conoscono solo alcune parti. Che dire della app Immuni, tra l’altro, credo, recepita solo dal 15 per cento degli italiani. Pubblicizzata con finalità di tutela della nostra salute, ma a mio avviso, potenzialmente pericolosa per il fatto che suggerisce di vedere nell’alterità il fantasma potenziale di un untore, come ci rammenta l’esito tragico narrato nella Storia della colonna infame da A. Manzoni. Così il Covid ha trovato l’humus perfetto per invadere il mondo della vita, il nostro mondo “la nostra Lebenswelt quotidiana”, (Husserl) di cui, viceversa, dovremmo riappropriarci, mettendo in epochè il mondo della scienza, perché dietro la scienza “pullula il mondo della vita”. (Husserl). Credo, che dal nostro “Mondo della vita”, ci hanno espunto, perché noi ci siamo lasciati espungere, non perché io neghi la presenza del virus, in questione, bensì, perché trovo l’approccio scelto, degno, solo, di un dispotismo statalista. È chiaro, che quando viene minacciata la salute, ritengo si perdano i qualificatori di realtà e si finisca per accettare qualunque compromesso diretto a limitare la libertà, persino un cronico stato di eccezione, sancito dai DPCM, al limite della legge! Qualcuno dirà che lo Stato terapeutico, in cui siamo stati gettati, lo fa per tutelare la nostra salute-salvezza, al punto che ci controlla ossessivamente, per timore di non essere abbastanza attenti, come si fa con i bambini piccoli, ma, solo, per un eccesso di amore!
Ma noi sappiamo, formati da una bildung che ci ha dato gli strumenti per una corretta autocritica, che gli eccessi di amore sono dionisiacamente mortiferi. Ce lo ha detto W. Goethe, in chiave letteraria, quando ci ha narrato il destino di morte che ha travolto i protagonisti del suo romanzo, Le affinità elettive. Ce lo ha detto, anche, J. Lacan, in chiave psicologica, quando ci ha descritto l’attaccamento morboso delle madri coccodrillo, che divorano i loro figli per eccesso di amore. Certo, a ben rifletterci, chi si occupa di Politica, con al seguito ben sei task-force di esperti, credo si trovi in una situazione per cui “il suo cervello, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato” (Giusti).
Scene desolanti, che mi evocano un’altra scena, quella in cui Amleto dice “il mondo è fuori dai cardini; ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto”. Amleto era un intellettuale con la mania della parresia, cioè del desiderio di esercitare il diritto-dovere di dire la verità, un intellettuale che aveva studiato nell’Università di Wittenberg, centro della riforma protestante, del razionalismo, delle discipline umanistiche, quella di Martin Lutero e del Dottor Faust di Marlowe, una di quelle “università tedesche, maestre di occulti giochi della mente…” (Manganelli) Ma, esse erano, anche fondate su una filosofia che apre le porte alla malinconia e al sentimento del lutto: un binomio, come dice qualcuno, in cui coesistono “ genialità e malinconia”, che sembra la cifra esistenziale che segna Amleto fino all’autodistruzione finale. Ma forse, Amleto è anche un giovane vocato al “rovello del dubbio” come dirà Strindberg? Non vedo nessun parresiaste nell’attuale contesto politico, con esperti al seguito, ma tanti Odisseo astuti e manipolatori, modellati perfettamente sull’eroe omerico. D’altro canto, praticare la parresia è troppo rischioso! Ci tentò Pier Paolo Pasolini, con l’esito che sappiamo e qualcun altro, ma, purtroppo dai tempi di quel ragazzaccio di Socrate, morto per questa strana anomala compulsione del diritto dovere di dire la verità, a tutti i costi, non è cambiato nulla.
Credo, tranne qualche rara eccezione di intellettuale con il rovello del dubbio e con la mania della parresia, di vedere una landa desolata, rinviata dal mondo distopico che abitiamo, evocativa di alcuni brani che costituiscono, a mio avviso, momenti topici dell’Amleto (W. Shakespeare), ma anche nostri, scanditi dalle parole di Marcello, guardia del Re, quando rivolto ad Orazio amico di Amleto dice “c’è del marcio in Danimarca”. A questa riflessione, fa, quasi, da buio contrappunto, la voce desolata di Amleto che vede nella Danimarca e nel mondo intero, solo “un giardino incolto, pieno tutto di malefiche piante”. Proprio così, caro Amleto, tormentato intellettuale di tutti i tempi. Alle tue parole non può che fare da eco il disincantamento del mondo, di cui aveva parlato Max Weber, come d’altro canto, la malinconia di G. Scholem, esito fatale di quell’intelligenza del mondo, che fin dal secolo scorso ha perso la fede in Dio. Credo, oggi, non ci sia alcun spazio per la rammemorazione-redenzione, invocata dalla dolente rappresentazione dell’Angelo della Storia di W. Benjamin, ma anche per la mia: forse solo un’utopia?