di Erica Rizziato
Socia Ordinaria AIEMS, Roma
Responsabile della Ricerca Ircres-CNR
Sviluppo organizzativo locale e multidisciplinarietà
Foto di Mohamed Hassan da Pixabay
Aprile 2020 - Quarantena da Covid 19: dalla microecologia della caverna alla macroecologia sociale
Giorni di stranezza esistenziale, di reclusione meditante, come ho letto da qualche parte...tutti mistici nostro malgrado. Inondazioni di pensieri di amici, parenti e sui social riguardo le opportunità di questa situazione per ripensare il come viviamo e, inoltre, molti problemi da risolvere per riadattarsi alla novità: genitori anziani lontani, figli all’estero. Tutto via telefono o web. Alla fine risolto.
E finalmente io che posso pensare alle mie cose. Ma dove è questa opportunità? Devo organizzare nuovi ritmi, modalità di prendermi cura del lavoro, di me. Comincio a vedere angoli della casa finora sconosciuti, come il mobiletto del bagno, terra di nessuno, soggetto a enorme entropia, che “chiede” di essere sistemato. La realtà che abbiamo creato ci chiede continuamente di prenderci cura di lei per essere mantenuta nello stato in cui è stata da noi predisposta, un monitoraggio continuo che presuppone la nostra “vista”. C’è quasi da essere grati a queste “cose” apparentemente banali che sollecitano riflessioni sulla vita, mi dico. Sembra ovvio, elementare, ma non appartiene alla esperienza quotidiana.
Le due esperienze che sento significative in questo periodo:
1 - uscire bardati e tornare a casa da “disinfettare”: vestizioni, spogliazioni, disinfezioni; il fuori come rischio, il dentro (disinfettato), come sicurezza, come “fortezza”, il rifugio, la “caverna”;
2 - trovare nuove coordinate nello spazio di casa (o al massimo terrazzo): una nuova organizzazione, una nuova percezione di come i miei pensieri, sentimenti e azioni sono connessi alle intenzioni, in un mini spazio (anche prima lo osservavo, ma in un contesto ampio).
Andiamo per ordine.
1 - Uscire è diventata una operazione necessaria, rischiosa per cui ti devi “bardare”: vestiti e scarpe apposite, anzi i famosi stivaletti rossi di gomma che non ho mai amato indossare, perché proteggono meglio dal virus, che potrebbe saltellare tra la polvere della strada. Poi li lavi con il disinfettante ed è fatta. I guanti di gomma, la mascherina e capelli raccolti (una meraviglia!). Poi al ritorno tutto finisce al sole a disinfettarsi e ogni elemento della spesa viene sterilizzato come anche le maniglie delle porte che si sono aperte verso il “fuori“e poi verso “il dentro”. Insomma la percezione è netta: il tuo spazio protetto è qui e qui devi stare, la tua tana, la tua caverna che protegge dagli attacchi di un mondo pieno di rischi. Questo confine così netto non faceva parte della mia esperienza. Prima, uscire e rientrare erano passaggi quasi indifferenti, lievi soglie senza particolare incidenza nella percezione, se non di un raccoglimento gradevole in entrata, specie in inverno. Ora invece la casa è una fortezza difensiva, cosa che in me ha determinato un maggior livello di raccoglimento interiore.
2 - E una volta dentro la fortezza, che prima era semplicemente una casa da cui entrare e uscire senza troppo pensare, si pone il problema di ripensare lo spazio e il tempo. Lavoro con le organizzazioni e ricerco come aiutarle nello sviluppo. Sono abituata ad osservare come le percezioni entrano in me, diventano pensieri e fluiscono in azioni e altrettanto faccio nel lavoro, ispirandomi alla visione di Luhman ed altri sui sistemi sociali, agli studi di Goethe e Steiner su percezione e concetto, al costruttivismo nelle sue varie articolazioni. Un lavoro che vede la persona al centro della lettura di un contesto che ha una finalità, possiamo dire una identità: servire la società con un prodotto e un servizio. Ma il modo in cui leggiamo le criticità organizzative è legato a come le percepiamo e a che concetti vi colleghiamo, determinando poi le nostre azioni. In tutto ciò ho ricercato a lungo il ruolo della intenzione. Ho sperimentato che se riusciamo a guardare dall’alto tutto questo e ad osservarci come “oggetto” di noi stessi, in relazione alla identità organizzativa possiamo orientare e generare anche la nostra identità sociale. Passo dopo passo, possiamo prendere coscienza di quel “daimon” come lo definisce Platone, che ci spinge verso quella che definiamo “autorealizzazione”, il fine di quel “tendere” che possiamo sentire come permanente, nel tempo, dentro di noi, attraverso varie esperienze.
Ora in questo spazio e tempo ridotti, contratti, nella casa diventata caverna, riparo, questo processo ha subito una accelerazione e fisionomia nuove. Sia lavorando con i clienti, che nel mio quotidiano, ho potuto osservare molto meglio quanto i pensieri hanno vita propria e quanto la mia libertà consista nel diventarne consapevole e cercare di dirigerli invece di farmi dirigere da loro. Ho potuto inoltre sperimentare più del solito quanto ciò che si fa, al di là delle intenzioni (mi alzerò alle 7 e pranzerò alle 13!) sia assoggettato alla fisiologia (a causa di un corpo costretto a nuovi ritmi) sfuggendo ai programmi definiti il giorno prima. Ho imparato molto su quanto ci illudiamo di essere liberi. Se non vedo bene il mio “sistema personale” ne sono vittima, ma posso anche diventarne libera se, osservandolo, provo a ri-orientarlo. E in questi giorni l’ho osservato come non mai. Una divertente danza tra lui e la mia intenzione che ha misurato le sue forze in un campo ristretto e quindi molto evidente, cercando di difendere ambiti di libera scelta. Una esperienza di libertà e creatività (quando ha funzionato!). Una microecologia della caverna. Ho sperimentato che questa possibilità di libertà e creatività è legata ad un misto tra azione e resilienza, ricordandomi la bella immagine evocata da Nietzsche:
“La calma nell’azione. Come una cascata diventa nella caduta più lenta e sospesa, così il grande uomo d’azione suole agire con più calma di quanto il suo impetuoso desiderio facesse prevedere prima dell’azione.”
Poi il pensiero è passato alla macroecologia del nostro sistema sociale. Ho riflettuto sul fatto che, inaspettatamente, molte organizzazioni con forte impulso sociale spesso sono piene di conflitti, perché le persone si connettono solo a livello ideale. Nell’agire ci si disturba, ci si irrita, i nostri sistemi percettivi della realtà sono diversi, non ci capiamo ed entriamo in conflitto perché non lavoriamo alla nostra libertà personale e quindi non comprendiamo quella potenziale degli altri. A mio avviso il “mondo nuovo” che dovremo costruire passa per questo punto, in una autopoiesi al contempo personale e sociale.
Novembre 2020 – Generare l’identità sociale
Il periodo post lock down è stato interessante: uscire dalla “caverna-tana” ha rappresentato il ritrovamento di una “normalità” che non era più la stessa, almeno per me. L’ “introspezione” forzata e accelerata di tre mesi ha messo in atto un nuovo modo di relazionarsi alla realtà, con focus sempre maggiore sulle mie connessioni tra percezione e concettualizzazione.
Osservare il pensiero pensato, che diventa costrutto, che diventa filtro percettivo e soggettiva visione del mondo, che diventa motore delle nostre azioni spesso a nostra insaputa, si rivela pratica feconda. Una via di cambiamento, un allenamento continuo che, prendendo sul serio quello che, semplificando, possiamo definire “il nostro mondo interiore”, permette davvero il cambiamento generativo. Sì, perché trasformando e prendendo la responsabilità dei miei pensieri posso essere attore e generatore di nuove realtà. Percorso non facile e impegnativo, ma di certo rivitalizzante…come andare in palestra: è questione di allenamento. Questo metalivello ha a che fare con una dimensione morale: se osservo i costrutti con i quali leggo la realtà e mi vedo come attore tra altri, divento responsabile dei pensieri che ospito e che legittimo dentro di me, anche dei giudizi che esprimo.
Molti studi neuroscientifici da tempo hanno dimostrato come l’intenzione influenza il nostro contesto personale in termini di interconnessioni tra percezione, azione, emozione e cognizione nella conoscenza/interazione con il mondo fino ad arrivare addirittura al fisico come dimostrano gli studi sulla neuroplasticità. Questa intenzione ha a che fare con un elemento di libertà, ossia chi vogliamo essere come individui con una libera coscienza, libera nel senso che nel momento in cui diviene cosciente di sé può scegliere e aprire nuove vie di autorealizzazione. Insomma possiamo scegliere chi vogliamo essere e divenire. Quindi decidere se ospitare e dare spazio a delle emozioni o meno, osservare da quali percezioni e rappresentazioni concettuali derivano, cercando di dare loro una prospettiva evolutiva.
Su queste basi molto è stato elaborato a livello pedagogico, ma molto poco per la vita lavorativa. Negli ultimi anni si possono osservare pratiche yoga, Tai Chi o di meditazione nei contesti aziendali, che pur avendo indubbia utilità a livello personale, non sono focalizzate sull’aspetto, assai critico, della interattività e delle connessioni con gli altri, specie in un contesto organizzativo.
Occupandomi da anni di generatività tra sviluppo organizzativo e personale con approcci sistemici ho potuto osservare la necessità di ricercare le connessioni virtuose tra i due livelli.
Il periodo covid post lock down ha aperto nuove domande: non arrivano i soldi alle aziende in crisi perché ci son troppi inciampi burocratici, non arrivano i materiali utili in tempo negli ospedali perché chi gestisce il processo non tiene conto delle urgenze, ma di parametri decisi prima della pandemia, obsoleti rispetto alla realtà contingente; il piano pandemico non è stato aggiornato dal 2006, facendo trovare tutti impreparati in Italia, quando in Germania il suo aggiornamento sistematico ha permesso di far fronte alla situazione riducendo, in percentuale rispetto all’Italia, in modo estremamente significativo, il numero dei decessi. È un fallimento a livello di sistema e va pensata una soluzione a livello di sistema, ma da dove partire? Servono non solo nuove visioni ma anche e soprattutto nuove prassi.
È evidente quanto sia oggi urgente promuovere una cultura del lavoro con una visione vivente e dinamica, in cui ognuno è chiamato personalmente ad attivarsi come individuo superando gli automatismi degli organigrammi e delle job description, oltre che la visione burocratico-ammnistrativa. Essa rappresenta lo “scheletro” delle organizzazioni, non la parte viva, che non può che essere quella che le persone incarnano, se chiamate a farlo, in una prospettiva di co-generazione e di senso. La loro intenzionalità condivisa, la cui attivazione è responsabilità dei dirigenti, appare ormai imprescindibile elemento per un rinnovamento organizzativo, ma anche del nostro sistema sociale, visto come interconnessione sistemica tra organizzazioni pubbliche e private focalizzate al bene comune.
Siamo chiamati a far “risorgere” l’umano nel mondo organizzativo, liberandolo da quella “razionalità” formale e dalla “gabbia d’acciaio” di cui già Weber profetizzava l’aspetto distruttivo.
Serve un “umanesimo organizzativo” e una prospettiva multidisciplinare che coniughi una dimensione analitica, formale, quantitativa ad una descrittiva, fenomenologica, qualitativa. Serve aiutare le persone nelle organizzazioni a focalizzare in quali processi prendono senso e corpo le loro singole attività e a focalizzarsi quindi sulla finalità, che è data dal processo del beneficiario/cliente. Occorre quindi promuovere una cultura organizzativa vissuta nella pratica stimolando le persone a fondarsi sulla percezione e senso dei processi organizzativi e sulla loro relazione con l’identità sociale, parte di un più ampio “organismo sociale”.
La necessità di questo tipo di cultura emerge con chiarezza nell’osservare i processi disfunzionali emersi durante la pandemia e le mancate connessioni sistemiche. Servono interventi veloci ma sostanziali, non solo correttivi. Interventi nei quali si possa fondare una nuova cultura organizzativa. Si tratta di chiedere a ognuno di vivificare lo “scheletro” delle organizzazioni con la parte vivente, avviando le connessioni sistemiche e di senso che nessuna burocrazia e/o tecnologia può mettere in atto. Si apre così il tema di nuove forme organizzative e nuove competenze che hanno fatto parte del mio percorso professionale per molto tempo e che ho definito in una proposta metodologica (Verso un umanesimo organizzativo: generare sviluppo nella complessità con la leadership orizzontale, Francoangeli 2020).
Elemento ispiratore è stato per me la classificazione di Boulding (che collaborò alla definizione della teoria dei sistemi di Von Bertalaffny) rispetto ai livelli di complessità dei sistemi. Schematizzandolo in 9 livelli, a partire dai sistemi più semplici, quali quelli degli organigrammi e delle mappe geografiche, passando per i sistemi viventi dai più semplici ai più complessi, fino ad arrivare all’essere umano (livello 7) come un sistema in sé, che esprime la possibilità della autocoscienza, Boulding identifica poi il livello organizzativo (l’ottavo) come sistema creato dall’essere umano e infine il livello dei sistemi trascendenti (quali la filosofia, i sistemi spirituali e gli archetipi).
Riflettendo sull’ottavo livello, quello dei sistemi socio organizzativi creati dall’essere umano, possiamo chiederci se esso possa raggiungere lo stadio “adulto” tipico degli altri sistemi viventi precedenti. Possiamo osservare che l’oggetto biologico si sviluppa dalla forma globale più semplice fino a una meta finale precostituita, la forma adulta della specie, che è presente come informazione fin dall’inizio. Lo stesso non è scontato per le organizzazioni. L’organizzazione sociale può essere considerata al pari di un organismo naturale biologico, a patto che si sia consapevoli della grossa differenza, cioè che i membri delle organizzazioni sociali sono individui autonomi, dotati di libera coscienza e non cellule di un organismo biologico nelle quali è scritto il “progetto finale”.
Mentre nell’oggetto biologico la meta dell’evoluzione è la forma adulta della specie, nell’organizzazione sociale la forma di organizzazione “adulta” è presupposto e mezzo per raggiungere un obiettivo fuori dal sistema, ossia il prodotto o servizio offerto alla società, che la pervade nel corso delle sue varie fasi di vita. Il raggiungimento di questa meta sarà possibile solo se essa verrà percepita e perseguita consapevolmente da persone, che in quell’organismo sociale possano essere portatori di iniziative che sappiano attivare i colleghi in quella direzione, stimolandone la partecipazione attiva in una prospettiva di senso. Sarà così possibile far convergere giudizi e punti di vista personali, affrontando sempre più consapevolmente le criticità.
Una forma “adulta” di organizzazione sociale all’ottavo livello di Boulding è quindi quella in grado di realizzare ciò che è nuovo, speciale di questo livello: generare un sistema condiviso di valori e diventare “pienamente umani” nel perseguire uno scopo comune. I due obiettivi saranno possibili in connessione con lo sviluppo di ciò che è peculiare del 7° livello, ossia la coscienza umana.
Mentre si parla di crescita e maturazione per i vari sistemi biologici, per l’essere umano, caratterizzato rispetto agli altri dalla coscienza di sé e per i sistemi sociali da lui creati, termini più adeguati sono quindi cambiamento e sviluppo. Sviluppo della identità umana come tensione alla autorealizzazione e sviluppo della identità organizzativa come contributo alla società, in termini di prodotti/servizi vanno viste quindi come due realtà fortemente interconnesse. È la versione organizzativa di quanto sottolineato da Luhman, Parson per i sistemi sociali, che si differenziano dai sistemi biologici in quanto sono costituiti e organizzati sulla base del senso e sono tenuti insieme da processi simbolici, capaci di fornire indicazioni decisionali e criteri di orientamento reciproco nella consapevolezza che “tutto ciò che è detto è detto da un osservatore”. Essendo quelli organizzativi contesti ad alta complessità, per rendere concreto lo sviluppo vanno evitate metodologie astratte che scompongono la realtà della persona al lavoro e quella dell’organizzazione che contiene il suo lavoro smarrendo così il “lavoro vivente”. Sarà invece fondamentale attivare le persone adottando un approccio di tipo esplorativo e sperimentale. Partecipando alla sperimentazione le persone vivono il doppio ruolo di parti funzionali e controllabili del sistema e di sperimentatori di questo. Del resto le initiative di Action Learning hanno provato che “acting, reflecting and learning are inseparable”, che l’innovazione è “learning by doing in interaction”. Nelle organizzazioni è quindi necessario attivare e coinvolgere il personale per esplorare e sperimentare possibili soluzioni e avviare un percorso di conoscenza e sviluppo individuale.
Dopo molti anni di ricerca azione su questo punto è emerso che lavorare sulla interconnessione tra il nostro “sistema personale” e quello organizzativo permette la fase “adulta” di quest’ultimo, considerata come una fase nella quale tutti gli elementi del sistema (in tal caso le persone) convergono liberamente verso un fine comune, ma permette anche una fase “adulta” della persona, in quanto la peculiarità del livello umano è lo sviluppo di una libera coscienza che solo può avvenire realizzando una propria identità sociale.
Il “sistema personale” lo possiamo osservare come determinato dalle connessioni tra i nostri pensieri, emozioni e l’effetto delle nostre azioni, rintracciando in esse parti di noi sconosciute a noi stessi.
In tal senso per me da tempo la frase di Wittgenstein, che rappresenta il fondamento epistemologico della ricerca azione, è fonte di ispirazione e stimolo di sperimentazione e, come non mai, lo è stato in questa fase post lock down:
“È ciò che facciamo che ci spiega la nozione di identità e non viceversa. Il pensiero cerca di leggere sé stesso nelle azioni che necessariamente lo hanno preceduto: le azioni precedono la consapevolezza”.
Osservando l’effetto delle nostre azioni possiamo scoprire i nostri pensieri (o principi) ispiratori, i nostri costrutti, che muovo azioni spesso ripetitive malgrado le criticità a cui ci conducono. Solo attivando un meta pensiero, ossia rintracciando i principi ispiratori alla base delle nostre azioni possiamo pensare ad un cambiamento e sviluppo personale, agendo da uno spazio di libertà. La direzione di questo sviluppo è l’autorealizzazione personale. Essa nel contesto lavorativo è fortemente legata alla percezione dell’utilità sociale del proprio lavoro e alla possibilità di dare un contributo personale al cambiamento.
Si tratta di allenare nuove competenze che riescano a portare al superamento dello spontaneismo comportamentale nel mondo organizzativo e portino a delle metacompenze, tra cui ritengo particolarmente rilevanti un nuovo modo di pensare. Si parla oggi spesso di pensare sistemico, che porta a mettere insieme vari elementi di una realtà complessa, come auspicato da molti autori interessati allo sviluppo delle organizzazioni. Dalla mia esperienza questo non basta, serve avere anche una visione evolutiva oltre che sistemica, quindi c’è bisogno di pensare in modo sistemico- evolutivo, considerando il sistema umano in co-evoluzione con quello organizzativo.
Si tratta di essere in grado di rivitalizzare la propria attività di pensiero. Consiste nell’essere agili nel riflettere su “come si pensa” e su come il proprio mondo interiore si specchia su quello esterno e viceversa, considerando i diversi fattori di una situazione. Si inizia a vedere in modo sistematico quanto si è sedimentato in concetti come “oggetto” del proprio soggettivo pensare, potendo così iniziare a liberarsi da schemi mentali poco produttivi, provenienti dalle esperienze passate. Si tratta quindi di sperimentare il processo stesso del pensare come un pensare “vivente”, che ha caratteristiche molto diverse dall’usuale pensiero spontaneistico, muovendolo con una intenzionalità legata al bene comune. Si potranno così distinguere i fatti dalle interpretazioni, cosa che permette di osservare la realtà stessa evitando di appiattirla con soggettive modalità reattive e renderà possibile osservarla attraverso gli occhiali della “domanda” di sviluppo implicita nella situazione.
Si genera di conseguenza una crescente consapevolezza e responsabilità dei propri pensieri e intenzioni e della loro influenza sulla realtà, diventando cauti nella espressione del giudizio.
Attraverso questa modalità di pensiero si può lavorare sistemicamente prospettando scenari, lavorando in modo immaginativo e raccogliendo nuove ispirazioni, prima impensate, che permettono di intuire quali passi è opportuno intraprendere. Possiamo quindi dire che il pensiero sistemico evolutivo si caratterizza per tre elementi: immaginazione, ispirazione e intuizione.
Avviare una fase di umanesimo della vita organizzativa significa compensare l’illusione razionalistica che lo sviluppo avvenga solo con la tecnologia, l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata, compensando questa tendenza, di cui non si discute l’utilità, con una “intelligenza umana aumentata” che porti a valore il potenziale evolutivo delle persone, che spesso si trova proprio in una rivitalizzazione delle forze del pensiero, tali che possano avviare una fase di autosviluppo personale su vari piani.
L’epoca covid, se così possiamo chiamarla, chiede con urgenza questo passaggio culturale, per evitare di dare risposte semplici a problemi complessi.