di Antonia Chiara Scardicchio
Socia Ordinaria AIEMS, Foggia
Ricercatrice in Pedagogia Sperimentale Università di Foggia
Aprile 2020: Interstizi tra pensieri e preghiera
All’inizio avevo solo paura.
Paura di perdere tutto.
Da subito ho visto moltiplicarsi preghiere, alcune persino scritture eleganti di preghiere:
per chiedere a Dio che ci risparmi.
Ma io non la so fare una preghiera che chieda di scamparmi.
Mentirebbe Dio, se mi dicesse che “andrà tutto bene”.
Il Dio che conosco è Signore sistemico: non ha mai risposte univoche, spalmabili senza attenzione al particolare, non ragiona mai per polarizzazioni. Il Bene sì, è cosa sua, ma quel “tutto” proprio no. L’ecologia che è cosa sua riguarda un tutto che è molteplice, screziato, decoincidente: il Tutto suo mai è senza interstizi.
Allora ho smesso di pregare e ho osservato. E ho visto.
Ho visto la tentazione di venderci l’anima per la sicurezza e quella di pregarlo come se fosse un mago, un venditore di soluzioni, incantesimi, abracadabra.
E ho trovato.
Ho trovato molto, molto di più: una voragine. Strepitosa, vertiginosa voragine che va giù nell’ abisso a rendere visibile la trascendenza: e sì che è una parola che non si usa più. E ci appare così straniante connettere trascendenza a giorni, eternità a morte.
Ma quelli, solo in apparenza opposti, come amanti si danno appuntamento presso gli interstizi e lì si incrociano. E così ieri quando ho aperto la finestra per stendere il bucato (per me le faccende domestiche sono sempre un fatto assai mistico, la convocazione impegnativa in cui sento forte la congiunzione tra infinitamente piccolo e infinitamente grande), all'istante sono stata invasa: dal sole e da un profumo di inaspettata lasagna.
La lasagna, adesso, mentre tutti anche attaccando le mollette stiamo disputando con l'angoscia: oh, che schiaffo/carezza epistemicamente interessante.
La lasagna, adesso:
"oh, come tu resisti Vita", direbbe e ha meravigliosamente scritto Mariapia Veladiano.
Ed io, che non sono brava a cucinare, oggi ho pensato che il mio contributo a rendere sacro questo tempo, il mio infinitamente piccolo allacciato all'infinitamente grande, poteva essere riprendere ad ascoltare musica, mentre l'anima trema e l'istinto vorrebbe invece dare spazio a una voce sola, quella che quando ha paura non concepisce musica e lasagna, perchè sanno di celebrazione. E mio figlio deve proprio aver intuito che le questioni cosmiche stanno radicate negli interstizi: perchè stamane mi ha invitato a un picnic sul balcone. Ne abbiamo uno minuscolo, ora ci sembra il nostro attico sul mondo.
Allora guardo le nostre tazze sul nostro tavolo cosmicomico e penso che aveva ragione la volpe di Saint Exupery: abbiamo bisogno di riti, di connessione tra minuscolo e gigantesco, per trasformare il reale in sacro.
Dal mio balcone minuscolo, con un bambino felice come se lo avessi portato fuori, provo a pregare:
Signore, no, non mi scampare, scampaci tutti insieme, e scampaci dalla tentazione di impazzire per la paura di perdere tutto.
Signore, abbiamo già perso, aprici cuore e testa come voragine:
e facci cercare l’eternità, adesso, tra una coraggiosa lasagna che profuma incurante della paura e il coraggio, che a me sa di cosa mistica, del lavarci e vestirci, restare vivi e vegli, non in pigiama.
Sia questa perdita la nostra occasione di ri-misura,
il nostro pic nic, interiore e universale,
con ciò che resta, quando ci si perde.
Che a volte anche una lasagna può indirizzare una questione filosofica: per esempio può dire, mentre stendi il bucato, che la paura conosce solo o niente o tutto, mentre la logica sistemica – che ha da esser per forza Tua, perché a noi istintivamente riescono le comprensioni binarie, non complesse - intuisce l’interdipendenza tra grande e piccolo, tra conosciuto e sconosciuto, tra qui/adesso e eternità intuibile e dunque… che la regola del cosmo è la stessa della quarantena: vita tua, vita mea.
Vita tua, vita mea:
non mi scampare, Signore, da questa evidenza, da questa epifania che solo la morte, paradossalmente, mi poteva reincarnare.
Sicchè adesso non ho più paura soltanto:
quella me la tengo, ma sono io ad abitarla, non è lei ad abitare me.
Mi tengo la paura, e pure la grazia. La grazia di poter, dall’abisso, intuire ciò che lo trapassa:
non è tutto, è soltanto parte.
Come me.
Come me che, adesso che ho perso l’agenda, il futuro e assai certezza,
finalmente pienamente ci sono.
Eccomi.
Mi vedi?
Stendo il bucato e annuso, gratuitamente, una lasagna.
Ottobre 2020: Interstizi tra bestemmia e canto
Sento bestemmie: al bar, stamattina, i commenti erano quelli attorcigliati da mesi: col cappuccino e il cornetto, una logica binaria cerca colpevoli.
Sento bestemmie: nel cortile davanti alla scuola, in fila al supermercato, in coda alla posta, le parole sono frecce appuntite: autoassoluzioni, eterocondanne senza scampo.
C’è un Papa che torna alle origini e ricorda il destino comune: ma un giovane di famiglia per bene ammazza un uomo e una donna senza altra motivazione fuorchè la sua infelicità.
Più del virus, da mesi temevo il ritorno della ferocia dei “giochi” al Colosseo: il popolo arrabbiato sembra avere necessità fisiologica del dolore dell’altro, sembra darsi pace – passeggera, bisognosa di sangue sempre vivo - nella forma sadica che trasferisce il proprio male di vivere sull’altro da sé.
Altro che Fratelli-Tutti.
L’oscillazione più comune sembra quella tra tristezza e rabbia: fuga o attacco, le due forme della risposta binaria che ci appartiene come creature animali.
Insieme a quella che è soltanto umana: l’arroganza. Tutti dio: tutti dio come nella forma ancestrale: puniscono o premiano totaliristicamente. Lanciatori di fulmini o adoratori/follower: ognuno è idolo, ognuno è servo.
Sento nella carne le riflessioni di Franco Cassano a proposito del dialogo tra Cristo e il Grande Inquisitore, nel suo splendido – e doloroso! – “L’umiltà del male”.
E adesso? Tutti contro tutti. I media raccontano con scene e lessico da guerra civile. Il gioco dell’odio trova e rinnova capri espiatori sui quali versare tutto il veleno che la bile ha necessità di scaricare.
Qualcuno che porta la mascherina ha voglia ancestrale di azzannare chi non la porta. E viceversa.
Questo è il racconto, questa la narrazione: la paura ha preso Tutto.
Ma la realtà è, invero, screziata.
Ognuno sta al cospetto di una scelta che riguarda a quale narrazione credere: credere che “andrà tutto bene” è consolatorio ma è anche esposizione feroce a cadere nel suo opposto. Ogni visione “totale” ci illude di fornirci sicurezza mentre, proprio così facendo, ce la sfila completamente. Esiste una via terza, oltre l’oscillazione tra “tutto bene”/”tutto male”: è lo sguardo di Bateson che ritrovo in quello splendido testo, “Mondo, ti devo lodare”, di Marcoaldi: zoom out, come mi ha insegnato il mio fraterno amico Christian.
E in questo allargare la cornice che tenta di stringerci, vedo un paesaggio che consola occhi, orecchie, ragione e fegato e polmoni: la paura è ancora parte.
Visibile, poderosa, rumorosa, agghiacciante, ma ancora parte, non tutto: stamattina ho chiamato la referente Covid della scuola di mio figlio, per chiederle alcune informazioni circa la quarantena fiduciaria. Sapevo che centinaia di genitori la chiamano tutti i giorni, e a tutte le ore, sicché mi aspettavo una voce trascinata, irritata o quantomeno..assai stanca.
Lei era inspiegabilmente… gentile. Parlava piano, e ascoltava.
Inspiegabilmente: ecco, anche la mia logica è binaria, quando non la veglio.
Compito interiore/esteriore, intimo e politico: cercare persone che non siano prese: hanno paura, sì, ma insieme all’incerto tengono saldo il desiderio di non perdere sé.
Non perdere se stessi: vegliarsi.
Dalla quarantena vegliare è il mio verbo preferito.
Su noi stessi: sulle parole, sui pensieri, sulla tentazione alla presa totale di rabbia e tristezza.
Non sappiamo quel che verrà. Tutto può succedere: nella classe di mio figlio la madre positiva ha ricevuto sostegno e accoglienza; in un’altra scuola la caccia all’untore ha generato assai male.
La pandemia come epifania ci rivela. A noi stessi innanzitutto: di me so che non possiedo molto, soprattutto non possiedo il futuro, mentre il presente sembra sfuggire in mille pezzi (come i coriandoli quando irrompono da quei tubi giganteschi che ho visto alle lauree esplodere con scintille): vorrei però tenere/trattenere me stessa.
Tenere la rotta, il timone, mentre sento la tempesta.
Ecco, sì, “La tempesta”: Branduardi!
Quel pezzo è il mio salmo sistemico quotidiano.
E anche il profumo vaniglia e zenzero.
E poi…Gina Lollobrigida in Pane amore e fantasia.
Non so perché ma quando lo cito tutti pensano solo a quanto era strepitosamente bella. Lei e poi la Sofia, con l’indimenticabile mambo nel film che seguì gli altri due.
Ma quel film, come tutti i capolavori mozzafiato di Zavattini e De Sica, teneva la bellezza ricamata a filo doppio con lo strazio. Quei film raccontano, soprattutto i primi due, nel 1953 e nel 1954, di una povertà che noi non abbiamo conosciuto e di una resilienza che forse non possiamo ipotizzare, senza quella guida.
La povertà di allora mi ridimensiona, lo spavento da atroce diventa governabile quando penso alla bersagliera scalza.
E poi da lei, mentre veglio per tenermi, il mio “cinema interiore” – come lo chiamava Calvino – mi porta a Miseria e nobiltà: e penso che quel titolo è lo strepitoso ossimoro che ci descrive come umani: miseri, nobili, miseri e nobili.
E poi ho bisogno di leggere, ora più che mai, Primo Levi. E anche Chandra Livia Candiani.
E di ascoltare: la musica tiene il ritmo turbinoso della interrogazione intima e politica, scossa dalla tempesta e dal maremoto.
Mi affascina cercare l’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande e mi incuriosisce trovare grandi questioni filosofiche e inaspettate rivelazioni dove non ci si aspetterebbe di trovare consolazione, o intellettuale folgorazione. E così da agosto, alternando Branduardi a Bosso, Morricone a Jovanotti, il “Manifesto” d’accoglienza sistemica dell’ingovernabile, inconoscibile e ancora imprendibile che stiamo vivendo, io l’ho trovato qui: in Chissà se va, l’apparente frivolo pezzo di Raffaella Carrà.
E sì che il tema è lo stesso che Morin e Ceruti ci porgono da tempo: “chissà se va” è la forma della vita.
Che ti tira le bestemmie. Ma anche, incredibilmente, tira, senza sconto a quella evidenza, cantare.
Direi che sì, realisticamente, si muore in entrambi i casi: la musica e la logica sistemica non ci salvano dalla morte: ma io, morendo, vorrei saperlo fare cantando.
E domani, al bar, sentire non soltanto le bestemmie ma, anche, il sapore del cappuccino.
“La contemplazione, ciò che chiamiamo poesia, (…) è il contrario
di ciò che intendiamo troppo spesso con la parola poesia.
Non è una decorazione, non è una Grazia, non è qualcosa di estetico:
è come mettere la mano sulla punta più sottile del reale.
Il reale è dal lato della poesia e la poesia è dal lato del reale
I contemplativi, chiunque essi siano, possono essere poeti conosciuti come tali,
ma può esserlo anche un imbianchino che fiaschetta come un merlo in una stanza vuota,
o una giovane donna che pensa a tutt'altro mentre stira la biancheria.
Gli istanti di contemplazione sono istanti di grande tregua per il mondo poiché è in questi istanti che
il reale non ha più paura di raggiungerci.
Non c'è più nulla di rumoroso nei nostri cuori o nelle nostre teste.
Le cose, gli animali, i fantasmi che sono molto reali, tutto ciò che è dell'ordine del vivente
si avvicina a noi
e viene a trovare il suo nome, vieni a mendicare il suo nome.
Abitare poeticamente il mondo sarebbe forse prima di tutto guardare pacificamente,
senza l'intenzione di prendere, senza cercare una consolazione, senza cercare nulla. (...).
Avere una sorta di presenza diafana nel mondo.
E penso che in quel momento qualcosa del mondo si apra come una mandorla.”
Christian Bobin
Chissà se va.