di Tiziano Scarponi
Socio Ordinario AIEMS, Perugia
Medico di famiglia, Presidente Scuola Umbra di Medicina Generale
Aprile 2020 - La medicina di famiglia e il coronavirus
Impossibile in questo momento prevedere come sarà il futuro della medicina di famiglia! In pieno tsunami sta cercando di rigenerarsi, di aprire nuovi percorsi: fondamentali sono i gruppi FB e WhatsApp in cui condividiamo ansie, comportamenti clinici, problemi medico-legali che di fatto stanno delineando il futuro della nostra professione.
Se fossi in grado di proiettare un video della mia medicina di gruppo composta da 7 colleghi, con un’utenza di 9000 pazienti, potrebbe essere considerato paradigmatico della vita professionale di questi giorni. Sala d’aspetto e corridoio vuoti. Le seggiole accatastate con sole 3 o 4 disponibili per potersi sedere, opportunamente distanziate. Noi medici tutti in camice e mascherina che ogni tanto, ognuno sulla soglia del proprio studio per mantenere la distanza di sicurezza, parliamo ed esprimiamo come viviamo la nostra angoscia del contagio soprattutto nei confronti delle proprie famiglie. Su come ci troviamo a gestire il nostro lavoro tramite telefono per circa il 70%, come abbiamo risolto il problema dell’invio telematico delle ricette e dei certificati, dove abbiamo trovato le mascherine. Senza dubbio niente sarà più come prima.
Mi alzo il mattino alle 6,30 per essere alle 8 in ambulatorio dove inizia il mio lavoro “istituzionale”: invio telematico di ricette che trovo su segreteria telefonica, su email, su messenger e WhatsApp.
Due telefoni, fisso e cellulare, che squillano continuamente: in media dalle 110 alle 130 telefonate al giorno. Odi et amo: mi viene in mente pensando al telefono. Lo odio perché il suo squillo mi sta lacerando il cervello. Lo amo perché senza di lui mi senterei finito come si sentirebbero persi i miei pazienti se non dovessero sentire più la mia voce attraverso lui. Dubbi, preoccupazioni, conforto, consigli, prescrizioni e commiserazione, al momento passa quasi tutto attraverso lui. Allo stato attuale il telefono è il mio occhio, la mia mano: sempre acceso giorno e notte, sette giorni su sette.
Quando il telefono non è sufficiente il paziente viene a studio concordando prima con me il suo accesso: “Mi raccomando venga puntuale alle ore x per evitare che si formino code, indossi una mascherina chirurgica”. La seduta è completamente cambiata: non più strette di mano, non più accoglienza empatica, non sono ancora riuscito a elaborare un nuovo modello di contatto: la voce è falsata dalla mascherina che mi fa vedere solo gli occhi e la fronte. Spesso sono più concentrato sul tipo di mascherina che il paziente indossa, sul tempo che ci mette a raccontarmi la sua storia e su quello che impiego io per raccogliere l’esame fisico, l’esame obiettivo. Il modo di vivere la visita domiciliare è ancora peggiore. Rapido, telegrafico, preoccupato soprattutto se il paziente è molto anziano e vive da solo e presenta difficoltà nel recepire quello che dico.
E’ strano! Forse non è strano, ma mi sto rendendo conto che non sono più me stesso. Mi sento più soddisfatto di come curo in modo virtuale piuttosto che in quello reale. Per telefono riesco ad essere più vicino, più Tiziano alla vecchia maniera. Con il paziente davanti, in carne ed ossa, mi spiace dirlo, ma mi sento in ansia, percepisco la sua presenza quasi come un fastidio, come se avessi davanti a me un nemico…forse dovrei crearmi un avatar.
A questo punto è d’obbligo qualche considerazione sugli scenari futuri che si stanno delineando per la mia professione. E’ molto difficile che si torni a lavorare come si lavorava prima della pandemia, anche se nessuno sa, poiché al momento tutte le prestazioni non urgenti non vengono soddisfatte, come si svilupperà la situazione una volta che sarà smaltita l’onda di riflusso delle prestazioni che erano state differite. Ci troveremo di fatto una popolazione nuova di pazienti che ha imparato a venire in ambulatorio quasi solo per appuntamento. Che dovrebbe avere imparato a venire per dei problemi più strettamente sanitari. Che dovrebbe aver imparato ad usare la tecnologia in generale e quella medica in particolare. Oramai moltissimi si sono dotati di saturimetro e sfigmomanometro e che “smanettano” su App che sono in grado di monitorare diversi problemi o parametri clinici.
Il teleconsulto per la patologia cronica, che credo resterà per la maggior parte in carico a noi, dovrà diventare prassi quotidiana. Mi immagino che il medico di famiglia entrerà dentro l’ambulatorio come se entrasse dentro una cabina di regia con tanti cruscotti e monitor in grado di fare una verifica in tempo reale, ogni ventiquattro ore, dei parametri sottoposti a monitoraggio di ogni singolo paziente. Facciamo l’esempio dello scompenso cardiaco: peso corporeo, indice di dispnea, saturazione dell’ossigeno, assunzione dei farmaci saranno informazioni fruibili quasi all’istante e pertanto sarà quasi automatico il richiamo del paziente per una valutazione diretta, oppure andare a domicilio per un esame clinico approfondito. Certo! Sono scenari che si adattano meglio a colleghi e pazienti nativi digitali, e lasciano in affanno noi “vecchi” medici, ma la Medicina di Famiglia se vorrà sopravvivere dovrà fare questo salto tecnologico accompagnato sempre da una modalità empatica e narrativa che sono e saranno sempre delle peculiarità di questa professione.
Trauma da pandemia, adattamento, rigenerazione e “costruzione” di un nuovo rapporto tra medico e paziente. Una nuova co-costruzione ci attende. Noi medici e noi pazienti, magari molto più “smart”.
Mentre sto arrivando alle conclusioni di questo breve scritto è passato qualche giorno da quando lo avevo iniziato e già sto notando come il mio “setting” si stia adattando a recuperare il rapporto con i pazienti in modo rilassato e senza fretta. Mi sto abituando a superare l’ansia del contagio, forse anche perché la dotazione di dispositivi medici di sicurezza è aumentata. Forse perché a mia volta ho avuto un contatto a rischio con un paziente Covid-19 e sono stato “tamponato”, fortunatamente con esito negativo. Forse
perché mi sto abituando ad entrare in casa passando per il garage svestendomi, gettando mascherina e guanti nei contenitori di smaltimento rifiuti speciali, disinfettandomi le mani, indossando una tuta che uso solo dentro le mura della mia abitazione. Non bacio più né moglie né figli. Non vedo più il mio primogenito, medico anche lui, dal mese di febbraio: una scelta fatta di proposito per spalmare le probabilità di contagio al 50% fra noi due…così è la vita all’era del Coronavirus.
Ottobre 2020 - La medicina di famiglia e il coronavirus atto terzo
In vernacolo Perugino si dice:” Tutto avria creso ma no che se faceva ‘sta fine!” che tradotto in Italiano significa:” Tutto avrei creduto ma non certo che saremmo andati a finire così!”
Proprio vero! Ho intitolato questo scritto terzo atto perché è la terza volta che mi trovo a scrivere sulla pandemia da Covid Sars 2. La prima volta in pieno lockdown (nella pima parte di questo contributo) in cui descrissi il primo impatto, la prima ondata che ci colse di sorpresa con tutti gli stati d’animo ed i vissuti comuni a tutti i medici di famiglia italiani indicando anche i possibili sviluppi futuri della professione. La seconda volta in “Quale medicina generale durante e dopo la pandemia? non sarà mai più niente come prima?” scritto sulla rivista Sistema salute verso la fine dell’estate in cui ho fatto un bilancio sulle criticità della medicina generale indicando anche una serie di lezioni che avremmo dovuto imparare. Da queste voglio partire per parlare di questo terzo atto. Concludevo dicendo:
“Senza dubbio abbiamo imparato diverse lezioni:
1) l’importanza di un Servizio Sanitario Pubblico
2) come il definanziamento del Servizio Sanitario a causa di una visione aziendalistica della salute porti a delle criticità che minano l’efficienza e l’efficacia del Servizio Sanitario stesso ripercuotendosi soprattutto sull’assistenza territoriale e sui servizi di prevenzione ed igiene
3) le conseguenze di una deriva di un certo federalismo sanitario regionale in cui si è creata una competizione fra Governo nazionale e Governatori regionali e pertanto, come dice il professor Briziarelli in un recente editoriale della rivista Sistema salute, si deve “….creare un sistema di diversi rapporti che integrino virtuosamente le Regioni con un potere centrale a guida più forte senza che ritorni un centralismo passato né derive verso piccole repubbliche sovrane “.
4) l’accentramento nei grossi poli ospedalieri in caso di pandemia rappresenta una criticità e non un vantaggio
5) la cronica mancanza di comunicazione fra ospedale e territorio peggiora nell’emergenza
6) senza dubbio l’inquinamento ambientale, lo sfruttamento intensivo del territorio con una visione industriale della produzione agricola e zootecnica hanno avuto una loro importanza.
Il medico di medicina generale, pertanto, non potrà sottrarsi al ruolo di sentinella e di sorvegliante della salute della comunità in cui opera. Ci attende una formazione, una curiosità ed una sensibilità cui non siamo abituati, ma ce lo richiede in nostro codice deontologico, i nostri pazienti e il nostro “essere” medici.”
Premetto che purtroppo questa seconda ondata pandemica si è sviluppata in modo talmente rapido che di fatto è stato quasi impossibile metabolizzare e elaborare qualsiasi “lutto”, però, anche se qualche lezione imparata poteva essere stata messa in pratica, quasi nulla è stato fatto da nessuno. Rispetto a marzo, infatti, posso dire che la nostra situazione è cambiata veramente poco: abbiamo in più una discreta dotazione di mascherine, guanti e disinfettanti acquistati in proprio, seguitiamo a ricevere i pazienti solo per appuntamento, ma per il resto tutto è rimasto nel libro dei propositi e dei sogni.
La situazione è veramente critica, almeno qui in Umbria. Il Dipartimento d’Igiene e Prevenzione è collassato e non ce la fa più a programmare i tamponi e a seguire il tracciamento della filiera dei contagiati. Un cittadino con sospetta infezione da Covid talvolta è costretto ad aspettare anche quattro o cinque giorni prima di essere tamponato e un caso stretto asintomatico non viene nemmeno più preso in considerazione. Oggi 31 ottobre, ho più di venti pazienti positivi ma per fortuna solo uno ricoverato in ospedale in quanto la maggior parte lamenta pochissimi sintomi, tutti lievi e che spariscono dopo qualche giorno. Prima dell’estate telefonavo ai pazienti positivi almeno due volte al giorno, erano solo tre pazienti, ma adesso non sarebbe proprio possibile, pertanto per ogni novità sintomatologica sono loro che chiamano, io mi faccio vivo la sera con quelli che presentano un po’ di sintomi o con i pazienti che vivono soli e non hanno con chi confrontarsi.
Da tre settimane ho iniziato anche le vaccinazioni antiinfluenzali. Avevo da vaccinare 457 pazienti e me ne rimangono una novantina. Anche questo è stato un grande sforzo: prendere gli appuntamenti, somministrare il vaccino e andare a domicilio per chi non deambula, sempre con la paura del contagio. Oramai vivo con la mascherina Fpp2 addosso e le mani sempre a bagno con gel o altro disinfettante. Avendo compiuto 68 anni a maggio, potrei andare tranquillamente in pensione e in molti mi chiedono chi me lo faccia fare. Me lo chiedo anche io: “Perché non mollo?” Molto perché fa parte del mio carattere giuocare sempre soprattutto quando il giuoco si fa duro. E molto perché è il mio lavoro da 43 anni e forse il mio essere medico costituisce la parte ontologicamente più importante di me. Da ultimo, non certo per importanza, per i miei pazienti per i quali costituisco un punto di riferimento preciso e sicuro e mollare mi sembrerebbe un tradimento. Certo però, non “avria mai creso che giva a finì’ così!”.