E’ stato dirigente di istituti scolastici, ha partecipato a iniziative nel campo dell’educazione interculturale, dell’educazione motoria e dell’educazione ambientale; è stato consulente dell’Unicef – Comitato Italia.
Sommario
Lo studio del concetto di relazione educativa nella scuola parte dalla comparazione tra la concezione dì relazione educativa, di matrice cartesiana newtoniana e la concezione di relazione educativa luogo di co-costruzione di significati condivisi, quale si afferma a metà degli anni ’60. Dal confronto emerge il nucleo essenziale di tale trasformazione: il cambiamento che avviene nel concetto di “relazione” Vengono affrontati i problemi relativi alla relazione educativa nella modernità e alla evoluzione che tali problemi hanno subito nel passaggio dalla modernità all’epoca postmoderna, cercando di mettere in evidenza ciò che oggi rende problematica la relazione educativa. Si mette in evidenza l’attualità della proposta avanzata di un nuovo paradigma educativo fondato sulla pratica dell’aver cura e si sviluppa l’idea che il paradigma della pratica dell’aver cura si possa meglio applicare adottando il pensiero complesso, definito da E. Morin come un pensiero adeguato alla comprensione delle dinamiche esigenze dell’interdipendenza planetaria.
Parole chiave
Relazione educativa, modernità, epoca postmoderna, cura, pratica della cura, interdipendenza planetaria, costruttivismo sociale, laboratorio, complessità, conoscenza ecologica.
Summary
The study of the concept of educational relationship in school starts from the comparison between the concept of educational relationship, of Cartesian Newtonian origin, the concept of educational relationship as a place of co-construction of shared meanings, as it was established in the mid-1960s. From the comparison emerges the essential core of this transformation: the change that occurs in the concept of "relationship". The problems related to the educational relationship in modernity and the evolution that these problems have undergone in the transition from modernity to the postmodern era are addressed, trying to highlight what makes the educational relationship problematic today. The topicality of the advanced proposal of a new educational paradigm based on the practice of caring is highlighted, which requires thinking about the educational relationship by adopting a thought adequate to understanding the dynamic needs of planetary interdependence.
Keywords
educational relationship. Modernity, postmodern era, care, practice of care, planetary interdependence, social constructivism, laboratory, complexity, ecological knowledge.
La relazione educativa come rappresentazione
Chi ha frequentato le scuole nel secolo scorso, conserva il ricordo dell’esperienza scolastica come di una rappresentazione che, per anni, dalle scuole elementari al liceo, nell’immutabile scenario dell’aula scolastica, si è mantenuta fissa nel tempo: il docente spiega, solitamente in “una lezione frontale”, interroga, verifica, valuta, l’allievo ascolta, interrogato risponde, mostra di aver appreso o di non aver appreso, attraverso verifiche orali, scritte o pratiche. In poche occasioni questa monotona sequenza si interrompe: la gita scolastica, uno spettacolo, una cerimonia; eventi che durano uno, due giorni, dopo i quali tutto si ricompone nel regolare susseguirsi delle lezioni.
Gli attori che compaiono sulla scena, il docente e l’allievo appaiono come “ io” isolati, entità fisse compiutamente definite nei loro “caratteri scolastici”, che si pongono in relazione tra di loro con ruoli ben delineati; il docente sa, o dovrebbe sapere, ciò che insegna e come insegnarlo: il suo compito è definito dal termine stesso con cui lo si designa: insegnare: «insĭgnare», «imprimere segni (nella mente) Treccani; l’allievo “non sa”, “deve apprendere”, accoglie i “segni” (nella propria mente), impara, (lett. si procura) ciò che “gli servirà nella vita”.
La relazione viene dunque dopo. Era convinzione ampiamente condivisa che l’esito delle azioni dell’“insegnare” e dell’apprendere dipendesse essenzialmente dal modo con cui i docenti avevano saputo costruire la relazione educativa con l’allievo, dal loro modo di essere e di fare, innato od appreso che fosse. È una convinzione che trae le sue ragioni dalla “concezione meccanicistica” invalsa nella cultura europea negli ultimi quattro secoli, secondo la quale, detto in estrema sintesi, il mondo è raffigurato come una grande macchina i cui ingranaggi funzionano con ordine e regolarità grazie a pure relazioni fisico-meccaniche. Le stesse relazioni umane sono spiegate in termini di relazioni meccaniche; per riprendere un’efficace immagine di Gregory Bateson, sembra che non ci sia mai soffermati sulla differenza che c’è tra “il dare un calcio ad un cane e il darlo ad un mucchio di sassi”.
Nella cultura di matrice cartesiana newtoniana che ha dominato l’occidente negli ultimi 400 anni, da Cartesio in poi, la relazione educativa, scolastica e non scolastica, è stata considerata, come ogni altra relazione, una sequenza di azioni che attraverso nessi di causa – effetto intercorrono tra persone che sono entità autonome, distinte e separate tra di loro. La relazione educativa è finalizzata a insegnare, a far apprendere: il docente insegna, spiega, interroga, l’allievo apprende, ascolta, studia, impara, se interrogato risponde.
Partendo da questo presupposto, la spiegazione del successo o del fallimento dell’azione educativa, la si dovrà cercare nel modo di essere e di fare degli allievi e dei docenti: avrà avuto successo se gli allievi sono stati attenti, volenterosi, motivati, impegnati e i docenti competenti, rigorosi, preparati; se sarà fallita sarà stato perché gli allievi sono stati demotivati, indisciplinati, disinteressati, o i docenti incompetenti.
Come mise in evidenza Bateson (Gregory Bateson, 2005 (1977), pag. 24), questo tipo di spiegazione è una spiegazione vuota. Ricercare la causa dei fallimenti o dei successi in una qualche caratteristica astratta situata in una delle componenti del sistema interagente che si vuole spiegare, richiama alla mente quelle che G. Bateson chiamò le spiegazioni dormitive (Gregory Bateson, 2006 (1984), pag. 179). Sono spiegazioni che si risolvono “dando un nome ad una «causa» fittizia”, così la causa del successo dell’azione educativa sarà attribuita all’impegno, all’interesse, alla preparazione dei docenti, la causa del fallimento sarà attribuita all’indisciplinatezza, alla cattiva volontà degli allievi, all’incompetenza dei docenti. Vale a dire che le cause saranno intese come “qualcosa che sta dentro una sola persona”, nell’allievo o nel docente.
Tali attribuzioni non spiegano nulla, non danno alcuna indicazione su quali conclusioni si debbano trarre dall’esito delle verifiche: nel caso del raggiungimento del successo, indicazioni su come consolidare le condizioni che lo hanno prodotto, nel caso del fallimento, su quali cambiamenti si debbano apportare al sistema scolastico per modificare le condizioni che lo hanno causato.
Successo o fallimento venivano sancite dal giudizio espresso dal docente che fondava le sue certezze di valutazione su argomentazioni che, come abbiamo visto non spiegavano nulla e su una oggettività di giudizio che avrebbe dovuta essergli garantita dal suo porsi in una posizione di “osservatore esterno”, posizione manifestamente impossibile per il docente: egli stesso è parte della relazione educativa che dovrebbe valutare dall’esterno.
In realtà la vera fonte da cui traeva forza e certezze la sua autorevolezza era nel ruolo che il sistema sociale gli assegnava nella conservazione delle tradizionali forme di trasmissione del sapere.
Fu nella seconda metà deli anni ’60 che cominciarono a venir meno forza e certezze.
L’affermarsi della scuola di massa, l’ampliarsi della platea scolastica dal ristretto numero di figli della borghesia, ad una platea di alunni appartenenti ad una popolazione scolastica proveniente da ogni classe sociale e di diverso livello culturale, perturbò il clima delle aule scolastiche.
La relazione educativa luogo di co-costruzione di significati condivisi
La classe non è più come ci si immaginava dovesse essere “la classe ideale”: una platea di allievi che deve assistere alla rappresentazione di eventi scolastici: lezioni, interrogazioni, verifiche, di cui il docente resta il protagonista su quel palcoscenico fisso ed immutabile che era l’aula scolastica.
Al docente educato a pensare la classe come un luogo ordinato dove si “impartivano” lezioni su un sapere che era impensabile contestare, consolidato dalla tradizione appariva del tutto incomprensibile la nuova situazione in cui l’ordinata trasmissione del sapere potesse essere interrotta da dibattiti, da occupazioni delle aule, da discussioni su tematiche che talvolta non avevano nulla a che fare con i programmi.
Per riprendere la metafora, proposta da G. Bateson nei suoi metaloghi (Gregory. Bateson, 2006 (1984), pag. 61), del campo di croquet che Lewis Carroll immaginò per la piccola Alice), la classe non è più un campo perfettamente piano, avente una regolare forma rettangolare sul quale sono disposti archetti metallici, dove si gioca colpendo le bocce con delle mazze.
La classe appare ora piuttosto simile ad un campo dissestato, dove tutti gli elementi dalle bocce agli archetti possono avere comportamenti imprevedibili. Lewis Carroll immaginò per la piccola Alice una partita a croquet in cui si dovessero usare fenicotteri che potevano piegare il collo, “... il giocatore non avrebbe saputo se la sua mazza avrebbe colpito la boccia, né come, la boccia poteva andare per conto suo perché era un porcospino, e anche gli archetti se ne andavano in giro perché erano soldati” (G. Bateson, 2005 (1977), pag. 61).
Scrive E. Morin che il 68, il maggio francese, la contestazione di quegli anni aprirono la breccia attraverso cui trovarono modo di manifestarsi nuove istanze di libertà, nuove idee. Fu la svolta dal riduzionismo alla complessità, che trasforma il concetto da oggetto statico in evento storico, che supera il dualismo soggetto-oggetto e proclama la necessità di un legame inscindibile tra loro (E. Morin, 2018, pag. 16).
Fu in quegli anni che una rivoluzione nei paradigmi della conoscenza schiuse la via ad altre modalità conoscitive e rese così possibile la comprensione di una realtà che secondo i vecchi paradigmi restava incomprensibile.
Nucleo essenziale di tale trasformazione è il cambiamento che avviene per il concetto di “relazione” e conseguentemente del concetto di “relazione educativa”. Si può descrivere tale cambiamento riprendendo il pensiero di Gregory Bateson: al posto di unità, di “io” isolati che si pongono in relazione tra di loro, che costruiscono e impostano la relazione educativa, per cui si può ritenere che “la relazione educativa viene dopo”, esistono comunità circolari, comunicanti di soggetti che esistono, per definizione, nella relazione con altri soggetti, per cui si dovrà dire che “la relazione viene prima, precede”.
Non esiste “l’informazione che passa” dal docente all’allievo e viceversa, informazione intesa coma passaggio di messaggi, di dati, di concetti da un individuo ad un altro, esiste l’informazione come interazione dei soggetti della relazione, interazione che modifica i soggetti che interagiscono, modifica la loro reciproca relazione e il contesto ambientale in cui la relazione accade...
La formulazione di ogni pensiero appartiene al singolo individuo, ma deriva dall’interazione di un ambito mentale più vasto. Si sta qui passando dal cartesiano “cogito ergo sum”, in cui il pensiero è il prodotto di un “’io” isolato, al "Cogito, ergo sumus” che Heinz von Foerster proponeva come una versione più integrante e partecipativa della stessa frase: ognuno di noi è nel mondo in un continuo dialogo di co-costruzione di significati comuni con le altre persone che agiscono nello stesso contesto (H. von Foster sistemi che osservano Astrolabio).
In questa visione la relazione educativa tra docente allievo è vista come un processo interattivo, autocorrettivo, evolutivo la cui dinamica si costituisce sulle interazioni sociali che nascono e si sviluppano in un contesto ben più ampio della classe; le loro interazioni nascono e “si sviluppano su circuiti comunicativi che si svolgono in contesti ben più ampi di cui anche docenti e allievi sono il prodotto: la famiglia, il quartiere, la città” (Sergio Manghi, 2004, pag. 63).
Ciò che precede la relazione educativa scolastica
La relazione educativa scolastica non dipende nei suoi esiti, solo da ciò che fanno o non fanno i docenti e le istituzioni, o dal fatto che gli allievi siano più o meno volenterosi, dipende anche da costrutti e contenuti che ogni individuo possiede al suo interno sin dalla nascita contenuti psichici universali, preesistenti all'individuo e legati al complessivo patrimonio della civiltà., dipende da come si sono sedimentate le tracce di esperienze precoci che risalgono fino alla primissima infanzia, dai vissuti personali del singolo individuo costruiti durante la sua crescita,
Precede ed accompagna l’opera della scuola un apprendimento che avviene, fin dalla primissima infanzia, in famiglia, nei primi contatti con il mondo esterno al nucleo familiare, figura come apprendimento informale; non è organizzato, non è strutturato, assume le molteplici forme che si possono avere nell’esperienza della vita quotidiana, trae forza dalle convinzioni, dalle credenze che hanno origine nel costume e nella tradizione. Attraverso di esso si acquisiscono conoscenze, abilità e competenze non certificabili di cui la scuola farebbe bene a tener conto quando costruisce i propri curricoli impliciti ed espliciti dell’apprendimento formale, cioè dell’apprendimento esplicitamente pensato e progettato come apprendimento che conduce ad una qualche forma di certificazione, perché il riconoscimento di quelle esperienze pregresse è vissuto dagli alunni come riconoscimento di essi stessi e del loro mondo e contribuisce in modo determinante a creare un rapporto di fiducia tra loro e i docenti.
La relazione educativa scolastica si innesta necessariamente in questo complesso di processi. È a partire da questo retroscena che allievo e docente attribuiscono significato alla loro relazione che, per questo, assume il carattere di un rapporto emotivo prima ancora che intellettivo.
Confermando quanto affermato all’inizio di questo paragrafo, di questo retroterra i docenti dovranno tenere conto nel creare un contesto che assecondi una formazione rispondente alle loro aspettative, nella consapevolezza che esso, rendendo sempre incerti gli esiti della loro azione, potrà far diventare difficile e stressante la loro opera educativa.
Come sanno bene psicologi, psicanalisti, psicoterapeuti, sociologhi, come constatano i docenti, quando casa e città non vengono vissute come luoghi in cui si è riconosciuti ed accolti, diventano facilmente luoghi patogeni e l’apprendimento informale assume allora l’aspetto di un percorso verso la devianza e si manifesta con i caratteri del disagio psichico, del disagio sociale e cognitivo.
La relazione educativa e il potere dominante
Malgrado le incertezze che sussistono per quanto riguarda gli esiti della sua azione, la scuola resta uno strumento importante con il quale il potere cerca di perpetuare la propria sopravvivenza e non a torto, se si ricorda quanto scriveva nel 1964 Margaret Mead: “… il modo in cui è strutturato l’apprendimento (da madre a figlia... da zio materno a nipote… da maestro ad allievo… da sciamano a novizio…) determina ben al di là del contenuto dell’apprendimento sia come gli individui imparano sia come vengono condivisi ed usati i depositi culturali, abilità e conoscenze” (Gregory Bateson, 2006 (1984), pag. 254).
Nella nostra cultura, nelle nostre tradizioni l’apprendimento è strutturato come proseguimento nella scuola della relazione educativa parentale. La scuola viene pensata come luogo di passaggio dall’ambiente chiuso, protetto della famiglia, della casa, allo spazio aperto, libero della città.
Attraverso la scuola, si passa dalla famiglia, immagine che evoca sensazioni di sicurezza, di calore, di protezione, che appare e vuole essere il luogo di appartenenza in cui bambini, bambine, adolescenti costruiscono le loro identità, in cui anche le diversità etniche, culturali eventualmente accolte, sono assimilate nell’unità familiare, alla città immaginata come il luogo aperto all’incontro con la diversità, in cui si intrecciano plurime relazioni tra persone che possono differire tra loro per lingua, cultura, credo religioso, ideologie, in cui avviene l’incontro con lo straniero. Possono essere relazioni di amicizia, di amore, di lavoro, possono essere relazioni in affiliazioni molteplici: culturali, politiche, religiose, artistiche, che formano il tessuto della convivenza, in cui ci si può imbattere anche nell’inaspettato.
Il passaggio dalla famiglia alla città avviene nella scuola attraverso la relazione educativa, intesa proprio come “relazione che porta fuori”, dall’uno all’altro luogo, una relazione che è quale le forze del potere, sia esso civile, religioso, militare, economico, finanziario vogliono che sia.
Generalmente le forze predominanti in una società vorrebbero una relazione educativa che prepari individui disponibili a proseguire l’opera di conservazione del sistema stesso, al fine di rafforzare la propria egemonia. Secondo H. von Fœster da questa funzione che il potere affida alla scuola che discende il criterio di fondo con cui vengono valutati gli allievi. “se uno studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una sua perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile, e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi” (H. von Fœster, 1987 pag. 130).
Può sempre succedere però, come l’esperienza del ’68 insegna, che qualche volta gli allievi diventino imprevedibili, si rivoltino contro i maestri e aprano una breccia attraverso cui entrano impetuosamente nuove idee per trasformazioni che mandano in frantumi le certezze passate.
La relazione educativa e la manipolazione delle coscienze
Quanto G. Bateson e la Mead dicevano dei piani elaborati da filosofi, sociologhi, pedagogisti, per la conservazione o per la modificazione della nostra attuale cultura si può trasporre al caso della relazione educativa in quanto questa può essere intesa come uno dei modi con cui tali piani si attuano.
G. Bateson e la Mead affermarono ambedue, in epoche diverse, (Gregory Bateson, 1984, pag. 199), che, se nel proporre la relazione educativa tendiamo verso scopi definiti, ci compromettiamo a manipolare persone e quindi alla negazione della democrazia.
Bateson così riprende e sviluppa nel 1972 ciò che M. Mead scrisse nel 1942.
Come già Bateson aveva avuto occasione di approfondire in Verso un’ecologia della mente (Gregory Bateson, 2006 (1984), pag. 190) a proposito di pianificazione sociale e deutero apprendimento, gli allievi, assieme all’apprendimento di contenuti e di comportamenti, inserendo l’esperienza dell’apprendere nella globalità della loro visione del mondo, acquisiscono abitudini mentali, “modelli”, secondo i quali tenderanno a vedere, a inquadrare le esperienze e i contesti che incontreranno nel futuro, cioè apprendono ad apprendere.
Attraverso l’apprendere ad apprendere si possono, cioè, acquisire abitudini appercettive, modi usuali di guardare il flusso degli eventi: autoritarismo, spirito democratico, aggressività, passività, dominanza, tendenza all’autoritarismo, spirito costruttivo, indole pacifica, senso di responsabilità, atteggiamento indifferente.
Il rischio della manipolazione delle coscienze è sempre presente vista l’asimmetria particolare che è propria della relazione educativa. Solo lavorando in termini di principi che si limitano a definire una direzione da perseguire, secondo una logica che opera orientando e non imponendo, per convinzioni diffuse e non imposte, è possibile proporre modelli di relazione educativa senza negare l’autonomia morale dello spirito umano.
Va qui posta in evidenza la differenza tra una educazione fondata sulla logica dei principi e un’educazione fondata sulla logica dei valori.
I principi limitandosi, come detto più sopra, a definire una direzione da perseguire possono aprirsi a inedite possibilità della loro attuazione, schiudersi a nuovi significati resi possibili dai più ampi orizzonti che attualmente si prospettano in un’ottica planetaria e che sono resi pensabili dai nuovi paradigmi della conoscenza che si stanno affermando.
La logica di un’educazione basata su valori tende alla loro conservazione come un assoluto da difendere e da imporre e quindi tende a porli come scopi dell’azione educativa,
Lavorare in termini di principi significa accettare che le “abitudini mentali” assunte dagli allievi possono essere diverse da quelle che i loro docenti a loro volta acquisirono; significa assumere un atteggiamento che i principi li tiene presenti non solo per la rappresentazione dei fini e per la loro attuazione nel futuro, ma già nel modo di concepire l’atto stesso dell’educare, nel modo con cui si vuole configurare il contesto educativo. Se, ad esempio, consentiamo agli allievi di adottare metodi che hanno aspetti illegali perché permettono loro di conseguire più facilmente buoni risultati, alla fine oltre al successo ottenuto, avranno acquisito abitudini mentali ad accettare l’illegalità.
Non possiamo sapere quale tipo di essere umano emergerà da questo processo attraverso il quale si apprende ad apprendere, ma possiamo renderci consapevoli delle abitudini mentali che i nostri allievi stanno acquisendo considerando le modalità che adottiamo per metterli in condizione di imparare ad imparare.
Questa consapevolezza ci aiuta a valutare la direzione che stiamo dando alla relazione educativa, assumendoci la responsabilità di quali abitudini mentali vogliamo che siano prevalenti nel loro apprendere ad apprendere.
Il linguaggio della relazione educativa scolastica
I pedagogisti riconoscono che la loro disciplina usa un linguaggio plurale, che ricorre ai linguaggi della filosofia, delle scienze applicate, della storia, della quotidianità, e che organizza e utilizza questi diversi codici per la formalizzazione del contesto educativo, per la definizione dei ruoli dei protagonisti dell’universo scolastico, per la scelta dei metodi. Aggiungerei che la scelta dei codici utilizzati rivela la visione del mondo e della società che l’istituzione scolastica vuole proporre.
In effetti nelle descrizioni dell’organizzazione della scuola, nella definizione dei suoi obiettivi ancora oggi ricorrono parole che sembrano riecheggiare i diversi codici che nel tempo si sono succeduti nella prassi della vita scolastica; codici che vanno dal militaresco, al fisiologico, allo sportivo, all’aziendalistico.
Vigono ancora parole di origine militare introdotte fin dalla legge Casati, la legge che nel 1859 pose le fondamenta dell’intero ordinamento scolastico che fu poi dell’Italia unita, ordinamento ispirato al modello prussiano sia nell’impianto generale che nei principi organizzativi: ordine del giorno, rapporto disciplinare, l’appello, sono tipiche voci da caserma; la sua stessa organizzazione in classi richiama le classi di leva del servizio militare. Vi sono poi espressioni che richiamano funzioni fisiologiche, come “assimilare un concetto”, “masticare la materia”, e parole della tecnica: efficacia ed efficienza, sviluppo delle competenze, obiettivi, pianificazione, programmazione.
Ciò che oggi impressiona è la deriva che sospinge la scuola italiana, in un modo che sembra irresistibile, verso un paradigma aziendalistico in cui le parole che manifestano i fondamenti dell’azione educativa sono contratto formativo, apprendimento efficace, profitti, crediti e debiti.
Sono parole che rivelano come le istituzioni educative siano considerate come aziende e il soggetto educativo come cliente. L’asimmetria particolare che è propria della relazione educativa rende ingiusto un rapporto educativo interpretato come un contratto tra pari che nell’esecuzione degli obblighi contrattuali vede esaurirsi il proprio compito.
In particolare, le parole del paradigma aziendalistico rivelano una concezione della scuola che ha sullo sfondo la cultura del consumo, ma la relazione educativa non può basarsi su un contratto di compra vendita di un servizio da utilizzare, né gli alunni possono essere considerati come clienti da accontentare offrendo loro un prodotto da consumare. Si interpreta la centralità dell’allievo nel processo di apprendimento come protagonismo in una gara individuale, in una competizione solitaria, e non come protagonismo cooperativo e solidale.
L’espressione contratto formativo cela l’asimmetria naturale che esiste tra adulto e adolescente, tra docente e allievo e che di fatto rende l’accordo iniquo e forse necessariamente insincero.
Nell’attuale paradigma pedagogico mancano le parole della cura, il concetto di cura non ne fa parte. Le parole chiave dei “paradigmi educativi” vigenti rivelano, per dirlo con le parole di L. Mortari un modo incurante di esserci che è l’abitare indifferente alle cose e agli esseri viventi, indifferente alla direzione esistenziale da scegliere tra possibilità differenti (Luigina Mortari, 2006, pag. 9).
Anzi, se si considerano i tassi di abbandono scolastico, richiamando alla memoria ciò che a questo proposito scriveva don Milani: «Se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più scuola, è un ospedale che cura i sani e respinge i malati» si giunge alla conclusione che la scuola rifiuta l’idea che la relazione educativa debba essere pensata come relazione in cui l’aver cura ha un ruolo fondamentale.
È ben ricordare quanto scrive a proposito Hannah Arendt: quando ogni cosa è sottoposta alla logica del consumo, come se la sua esistenza fosse giustificata solo dal dover soddisfare un bisogno, allora la cultura si trova ad essere seriamente minacciata.
La relazione educativa dalla modernità all’epoca postmoderna
Mi sembra di poter affermare con sufficiente sicurezza di non sbagliare, che in quella che chiamiamo “la modernità”, riferendoci al XX secolo e in particolare al secondo dopoguerra, vi fosse la fiducia che, adottando una adeguata concezione di educazione, intendendosi con ciò un’educazione che ponesse “più attenzione alla direzione inerente agli atti, piuttosto che orientandoci sulla base di un qualche meta pre-programmata, fosse possibile nutrire una certa forma di speranza del conseguimento di obbiettivi realizzabili, che potrebbero “diventare la base per l’assegnazione di valore alle azioni”.
“Perché tale speranza sia efficace non è necessario che il suo oggetto sia chiaramente definito, è sufficiente essere sicuri che ad ogni momento il successo possa trovarsi appena svoltato l’angolo” (Gregory Bateson, 1984, pag. 217).
In queste parole di Gregory Bateson sembra riecheggiare lo spirito ottimista del new deal rooseveltiano Era un ottimismo che ancora si poteva nutrire agli inizi degli anni ’70, quando docenti e discenti avevano buone ragioni di attendersi che i nuovi eventi, le nuove circostanze contingenti si sarebbero potute inserire in un modello stabile per cui le abitudini mentali acquisite nel corso del deutero apprendimento sarebbero state ancora utili nel futuro.
Secondo questa visione della vita e del mondo l’acquisizione di abitudini mentali astratte in cui identifichiamo il deutero-apprendimento, conservano il loro valore adattivo, cioè, portano ad un miglioramento delle capacità di adattamento all’ambiente degli organismi umani, solo nella misura in cui, “esistano stabili punti di riferimento che diano solidità al mondo e favoriscano la logica delle strategie di vita”. È un apprendimento che ben si adatta ad individui, docenti ed allievi, che si aspettano che il mondo sia strutturato in un modo anziché in un altro.
Ma ora, nell’epoca della post-modernità in un mondo in cui “ogni forma di persistenza è segno di una pericolosa inadeguatezza a un mondo che cambia in modo rapido ed imprevedibile, l’acquisizione di abitudini mentali astratte in cui identifichiamo il deutero-apprendimento perde il suo valore adattivo.
Secondo Bauman la pedagogia si trova di fronte ad una sfida: “Teorizzare un processo formativo che non è guidato fin da principio da un tipo di bersaglio pianificato in anticipo”; “un processo aperto, volto a modellare senza conoscere o visualizzare chiaramente il modello cui mirare, interessato più a rimanere aperto che a fornire un prodotto specifico: timoroso più di una conclusione prematura che di un’eterna inconcludenza” (Z. Bauman, 2001, pag. 159).
Come gli educatori devono rielaborare l’idea di relazione educativa per affrontare questa sfida?
Devono prendere innanzitutto atto che nell’epoca post-moderna l’apprendimento globale non avviene attraverso eventi educativi separati, ma nella loro varietà, e anzi nella loro mancanza di coordinamento. La pratica tradizionale convive e rimane assieme alle altre, ma, contrariamente a quanto si pensava fin verso la fine degli anni ’90, senza pretendere di assumere funzioni orientanti, senza pretendere di coordinare, di indicare finalità od obiettivi.
Come abbiamo notato più sopra, sempre, l’azione dell’educatore è stata condizionata e resa incerta nei suoi esiti da “tutto ciò che precede la relazione educativa”, ma ora l’apprendimento avviene in un sistema di fatto ingovernabile, in cui non è affatto chiaro chi funge da insegnante, chi da allievo, chi possiede conoscenza da trasmettere e chi deve riceverla, chi decide quale tipo di conoscenza deve essere trasmessa,
Allievi e docenti si troveranno ad affrontare una difficoltà ulteriore: affrontare l’accrescersi delle ansie, delle incertezze dovuto al venir meno dei molteplici cardini della società “solida” che mettendo argini alle nostre scelte, determinandone l’ambito e il significato in modo certo, ci rassicuravano sulla loro validità (Z. Bauman ibidem).
Ciò che oggi rende problematica la relazione educativa
Leggendo cronache recenti su episodi della vita scolastica che hanno preoccupato l’opinione pubblica, consultando recenti pubblicazioni di ricerche relative alle problematiche vissute da ragazzi e ragazze di oggi, o anche solo ascoltando testimonianze raccolte nell’ambito delle nostre personali conoscenze, sembra di capire che gli adolescenti in questi anni vivano un disagio più profondo di quello che hanno vissuto, nella loro esperienza di transizione dall’infanzia all’età adulta, sia gli appartenenti alle vecchie generazioni, sia chi fa parte della generazione che attualmente è nell’età adulta.
Forse una crisi adolescenziale vi è sempre stata, se Shakespeare in “il racconto d’inverno” scriveva, a proposito di adolescenza: "Vorrei che non ci fosse età di mezzo fra i dieci e i ventitré anni o che la gioventù dormisse tutto questo intervallo; poiché non c'è nulla in cotesto tempo se non ingravidare ragazze vilipendere gli anziani, rubare e darsi legnate".
È opinione ampiamente condivisa che la crisi adolescenziale sia dopo tutto una crisi necessaria attraverso cui il ragazzo, la ragazza creano una propria identità, si trasformano per entrare nell’età adulta.
Tuttavia, oggi la transizione adolescenziale appare caratterizzata da un disagio più profondo: non si tratta solo di irritabilità, cambi di umore, conflittualità, ma di preoccupanti comportamenti: crisi di panico, di crisi di ansia, depressione, disturbi alimentari, anoressia, bulimia, forme di autolesionismo, che devono essere considerate come disperate richieste di aiuto. E i docenti non sono in grado di far fronte a queste richieste.
Sono stati ammessi nel loro ruolo in base alle loro competenze disciplinari non in base a competenze nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva. Possono essere matematici di vaglia, grecisti insigni, e non saper nulla dell’adolescenza.
Se anche fossero in grado di agire in base ad appropriate competenze, l’organizzazione scolastica, basata su una netta ripartizione del sapere per settori disciplinari, su una rigida frammentazione delle attività secondo tabelle orario immodificabili, renderebbe loro praticamente impossibile svolgere il compito in modo adeguato.
In questa situazione sarà necessario il ricorso ad altre competenze professionali, competenze di psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, assistenti sociali, ma non saranno interventi risolutivi, anzi paradossalmente, cercando di rimediare ai guasti che il sistema stesso crea od aggrava, contribuiscono a perpetuare l’esistenza di un sistema malato così com’è.
È necessaria la proposta di un altro paradigma educativo, che abbia altre parole chiave nel suo linguaggio.
La domanda su quale possa essere un paradigma educativo adeguato, è una domanda di sistema che può trovare risposte solo a livello di sistema globale nelle sue dimensioni politiche, sociali, produttive e richiede da parte della società, della politica, del mondo produttivo la volontà realizzarla.
È compito delle istituzioni culturali universitarie, degli istituti di ricerca formulare la domanda e ricercarne la risposta; tuttavia, ritengo che la risposta la si debba cercare partendo da qui: dal vissuto degli allievi e dei docenti, dalla percezione che essi hanno della scuola.
Per gli allievi la scuola sembra diventata “l’epicentro dell’inquietudine” (M. N. De Luca, La Repubblica 29/4/24).
Per i docenti la scuola è il luogo della crisi del loro ruolo, il luogo in cui constatano la loro impotenza di fronte al malessere dei loro allievi che con lo svolgimento del loro compito non riescono ad alleviare.
Vi sono difficoltà culturali che ostacolano l’affermarsi del paradigma della pratica della cura. Il paradigma della pratica della cura implica “il pensare per relazioni” e ciò implica la disponibilità ad accettare un accadere della relazione educativa esponendosi all’accadere dell’imprevisto rappresentato dall’essere dell’altro. Significa accettare che la scuola sia in stretta correlazione con la vita, parte e aspetto dell’intera evoluzione sociale.
Vi sono difficoltà strutturali che rendono impossibile adeguare organizzazione e gestione della vita scolastica in modo da poter realizzare “piani di studio che favoriscano le inclinazioni singolari degli allievi” e la cui realizzazione restituisca valore alla funzione degli insegnanti. L’aula scolastica in cui si svolgono prevalentemente lezioni frontali sia di per sé un luogo patogeno che renda patologica la stessa relazione educativa.
Vi sono difficoltà politiche sociali che nascono dalla richiesta che la società fa alla scuola: a volte viene da pensare che diventino individui in grado di consumare il più possibile, per creare bisogni che alimentino il mercato stesso.
La ricerca di un paradigma per la relazione educativa nel mondo contemporaneo
Per mantenere aggiornate le nostre idee sulla relazione educativa, e ragionare mantenendoci connessi con la situazione che bambine, bambini e adolescenti vivono oggi in tempo di post-covid e in tempi di guerra, mi sembra utile riprendere le informazioni che un centro di ricerca (www.laboratorioadolescenza.org) ha raccolto recentemente (2023) sulla condizione degli adolescenti; sulle loro “poche speranze e i tanti timori”, sul fatto che “ gli adolescenti ancora faticano a ritrovare la serenità perduta a causa del Covid”, sull’impatto negativo che su di essi hanno avuto della guerra in Ucraina.
Riferendosi alla Francia, Edgar Morin ha parlato di clima bellicista, di “isteria bellica” che induce a disconfermare e destabilizzare i modelli che sembravano sostanzialmente acquisiti di educazione civile, pacifista e costituzionale.
Mi sembra anche necessario segnalare che per affrontare queste situazioni di disagio e di ansia che gli adulti vivono assieme agli adolescenti stanno riemergendo proposte di approcci educativi che richiamano quella che Alice Miller definì “pedagogia nera”: un approccio educativo che attraverso l’addestramento punitivo ed umiliante vuole correggere la natura di bambini, bambine e adolescenti considerata fondamentalmente cattiva, modalità di addestramento punitivo, per la formazione di un individuo obbediente.
Un paradigma educativo fondato sulla pratica dell’aver cura
In questa situazione in cui emerge una tendenza distruttiva che sembra ispirata da sentimenti di odio e l’esclusione”. Mi sembra quanto mai attuale la proposta avanzata da Luigina Mortari già nel 2006 in “La pratica dell’aver cura” di un nuovo paradigma educativo fondato sulla pratica dell’aver cura fondata sull’asserzione che «L’essere umano ha bisogno di essere preso in cura, ma nello stesso tempo di prendersi cura per costruire significato nella sua esistenza».
Scrive (L. Mortari, nell’articolo “La qualità etica della cura”, pubblicato anni or sono su Scuola e Formazione, (Anno XIII, n. 3):
” Dobbiamo tener conto del bisogno che abbiamo di educarci a prenderci cura di noi stessi e del mondo che abitiamo, del bisogno di non dimenticarci della “fragilità della condizione umana, dovuta alla nostra dipendenza dagli altri e dalle cose del mondo, ma intesa anche come fragilità del sentimento vitale, della nostra fiducia originaria nella vita che va continuamente nutrita e protetta.” Secondo Heidegger, citato in La pratica dell’aver cura, “l’aver cura è un modo dell’esserci che ha il tratto della necessità: per tutto il tempo della vita l’essere umano deve occuparsi di sé, degli altri e delle cose. Dell’essere umano si può affermare che «è quello che fa e di cui si cura” (Heidegger, 1999, pag. 152).
Pertanto, non sono su piani distinti la cura per altri e la cura di sé, non sono disgiunti: la finalità della cura non è la cura di se stessi o la cura dell’altro, ma la cura delle relazioni che costituiscono l’uno e l’altro e connettono ambedue agli esseri viventi e alle cose inanimate della Terra.
Un paradigma che contrasta con lo spirito del paradigma aziendalistico che si è imposto nella scuola del successo individuale da raggiungersi a qualsiasi costo. La pratica della cura come finalità che motiva il proprio impegno nello studio e nel lavoro, che trasmette in senso della Legge al di là del rispetto formale delle regole”, che rende concepibile il senso del limite, della misura (cfr. Massimo Recalcati, La Repubblica 3 maggio 2024).
Dare forma a una relazione di cura significa assumere le possibilità di essere dell’altro come possibilità di essere per noi stessi, (Mortari L, 2006, pag. 17).
L’opera dell’educatore oscilla tra la cura di ogni bambino preso nella sua unicità e la cura della classe, delle relazioni tra gli alunni che la costituiscono. È nella classe che vive il contatto relazionale tra i soggetti, senza il quale qualsiasi pratica che vuol essere di cura di fatto cessa di esserlo, dal momento che la cura nella sua essenza è relazionale (Mortari L., 2006, pag. 28).
La relazione educativa è di per sé una relazione asimmetrica perché è tra adulti e adolescenti, tra persone già formate nella loro personalità e giovani in formazione, talvolta anche affetti da qualche disabilità.
Da questa asimmetria discende che è compito dell’educatore creare una relazione che permetta agli allievi di essere accettati ed amati, di poter dire ciò che sta loro succedendo, di poter dire le loro paure, di essere ascoltati, creduti, non giudicati o messi in ridicolo. In questo sta l’essenza dell’aver cura degli adolescenti.
Compito dell’educatore dovrebbe essere porsi la domanda e darsi una risposta sul come chi educa debba partecipare alla relazione educativa per giungere a realizzare tale compito. Potrebbero forse aiutarci a trovare una riposta le parole di Danilo Dolci: educare
“…senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo
ma cercando d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono…”
perché, prosegue Danilo “ciascuno cresce solo se sognato.”
Un pensiero adeguato per la pratica della cura
I docenti che vogliano assumere come paradigma educativo la pratica dell’aver cura, potranno, a seconda della propria cultura e sensibilità scegliere, tra i modelli esplicativi dell’azione pedagogica e di riflessione pedagogica che hanno dato forma al pensiero sull’’educazione nel secolo passato quello o quelli che hanno influenzano la loro formazione di docenti: comportamentismo, umanesimo, cognitivo, socioculturale e costruttivismo sociale, ma dovranno adeguare l’attuazione dei modelli scelti alla comprensione delle dinamiche esigenze dell’interdipendenza planetaria, dovranno “superare il pensiero, che sa solo separare, spezzare il complesso del mondo in frammenti disgiunti, che fraziona i problemi, riduce ad una sola dimensione il multidimensionale”, che “rende ciechi, incoscienti e irresponsabili” (E. Morin, 2000, pag. 96 e segg.).
La riforma radicale delle modalità didattiche ispirata ad una metodologia relazionale proposta da E. Morin facilita l’applicazione del paradigma della pratica della cura perché è una metodologia capace di collegare discipline e saperi, per una visione dinamicamente unitaria del sapere stesso e dell’esperienza personale e comunitaria,
Attraverso di essa si può pervenire a riconoscere l’unità umana in seno alla diversità e alle diversità culturali, e riconoscere allo stesso tempo le diversità individuali e culturali in seno all’unità umana. Orienta i percorsi formativi intorno a polarità che pongano questioni etiche circa le polarità amicizia/inimicizia, ostilità/fraternità, aggressività/collaborazione, sulle differenze tra le relazioni di tipo vincente/perdente e quelle dialogico-cooperative-educative; propone di rivedere criticamente i concetti di razza, guerra, pace, sviluppo, uguaglianza, integrazione, inclusione, convivenza.
A mio parere, tra i modelli pedagogici citati, quello che meglio potrebbe realizzare questa proposta è il modello definito come costruttivismo sociale, secondo cui il soggetto costruisca le sue strutture mentali, attraverso una serie di successive ristrutturazioni, effettuate sulla base di una fitta rete di relazioni continue con l'ambiente e concepisce lo sviluppo psichico come il prodotto dell'interazione tra organismo e ambiente, tra natura e cultura.
Il tempo e lo spazio nella pratica dell’aver cura
Né la scansione del tempo scolastico, organizzato in base alla rigida suddivisione delle attività in lezioni disciplinari in base a tabelle orarie immodificabili, né l’organizzazione degli spazi in aule predisposte per lo svolgimento della “lezione frontale”, permettono di impostare la relazione educativa in modo che la pratica della cura abbia in essa un ruolo fondamentale.
Una relazione educativa pensata come relazione in cui l’aver cura abbia un ruolo fondamentale richiede che la scuola sia pensata come un luogo amico, dove si può fare e disfare, sbagliare e ricominciare apprendendo dagli errori fatti. Richiede che il tempo e lo spazio siano organizzati in modo da promuovere forme di ricerca e di esplorazione partecipata, modalità di apprendimento cooperativo, possibilità di formare e di gestire il lavoro di gruppo al fine di favorire le “inclinazioni” di ciascuno e di dare a ognuno modo di trovare i propri tempi, i propri ritmi di lavoro e un proprio ruolo.
Ho trovato una buona approssimazione a questo “tempo e luogo ideale” nel luogo/tempo del laboratorio quale fu ideato e sperimentato dal pedagogista Francesco De Bartolomeis negli anni ’60.
Il laboratorio viene inteso come "luogo mentale" oltre che come "luogo fisico attrezzato"; è il luogo in cui si intrecciano attività finalizzate alla acquisizione di abilità e di competenze, attività di libera ricerca guidate dal pensiero disinteressato con attività ludiche e fantastiche, non finalizzate a nulla se non al libero gioco. Possono essere organizzati per realizzare progetti interdisciplinari, per cercare risposte a questioni teoriche, per la produzione di oggetti. Possono avere il carattere laboratoriale il teatro, gli eventi musicali e sportivi, esperienze nel campo dell’educazione ambientale.
È il luogo dove “discutendo si impara”, luogo di interazione sociale per esercitazioni di recupero e integrazione di conoscenze, abilità disciplinari per approfondimenti disciplinari
È un contesto in cui si può realizzare quell’idea di benessere, congrua con l’ambiente scolastico, che consistere nel il piacere di sentirsi funzionare bene, mentre si realizza, lavorando con altri, qualcosa che interessi qualcuno.
Bibliografia
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