Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma. Tra i suoi volumi: Clima diseguale (a c., con E. Leonardi, 2024), L’altro uomo. Rivalità maschili e violenza di genere (2020), La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson (20102), Il soggetto ecologico di Edgar Morin. Verso una società-mondo (2009).
Sommario
L’articolo è diviso in tre parti. Nella prima sono discusse le sfide dell’incontro formativo con l’idea di relazione sviluppata da Gregory Bateson. Nella seconda vengono enucleati gli snodi concettuali principali di questa idea. Nella terza questi snodi vengono implicati in una breve analisi del trauma pandemico planetario, visto come primo evento ecopolitico totale della storia umana.
Parole chiave
Relazione, Presente continuo, Transindividuale, Estetico, Trauma pandemico, Evento ecopolitico totale, Comunità di destino terrestre.
Summary
The article consists of three parts. In the first, the challenges of formative encounter with the Gregory Bateson’s idea of relationship are discussed. In the second, the main conceptual junctures of this idea are enucleated. In the third such features are implied in a short analysis of planetary pandemic trauma, as the first ecopolitical total event in human history.
Keywords
Relationship, Present continuous, Transindividual, Aesthetic, Pandemic trauma, Total ecopolitical event, Community of earthly destiny
È ora di moda pensare, e viene anche inculcato nelle nostre grandi università […], che il mondo sia fatto di pezzetti [items] separabili di conoscenza, sui quali, se siete studenti, potete essere esaminati in base a una serie di domande disconnesse, del tipo vero-falso […]. Il primo punto su cui desidero soffermarmi è che il mondo non è fatto per nulla così. O per essere più corretto [polite]: il mondo in cui io vivo non è fatto per nulla così, e per quanto riguarda voi, è affar vostro vivere nel mondo che più vi aggrada.
Gregory Bateson
La relazione viene per prima, precede. Solo mantenendo ben saldi il primato e la priorità della relazione si potranno evitare
spiegazioni dormitive.
Gregory Bateson
Gregory Bateson è stato benedetto, e insieme maledetto, da una mente che vedeva al di là delle cose, in quel mondo di trame e di forme che si stende al di là [beyond] di esse.
Roger Keesing
0. Premessa
Nell’intento di corrispondere, per come posso, all’amichevole invito di Riflessioni sistemiche – tornare sull’esigente idea di relazione sviluppata da Gregory Bateson per sondarne la perdurante attualità –, suddividerò le riflessioni che seguono in tre parti.
Nella prima e nella seconda mi riferirò, in sostanza, alle cose scritte nel volume La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson (2004), che nonostante il tempo trascorso (vent’anni esatti) mi sentirei di sottoscrivere ancora ampiamente. Non ne proporrò tuttavia un semplice riassunto, ma cercherò di far emergere i tratti concettuali essenziali della batesoniana “relazione [che] viene per prima, precede” (Bateson G., 1984, pag. 179) in modo problematico, prendendo spunto dalla mia esperienza di formatore – in ambito non solo universitario, ma anche socioeducativo, sociosanitario, scolastico, psicoterapeutico, manageriale.
Nella prima parte, intitolata “L’incontro/scontro formativo con la relazione che precede”, insisterò sul fatto che l’incontro con l’idea batesoniana di relazione non è un incontro di ordine separatamente concettuale, ma anzitutto di ordine esperienziale.
Nella seconda, intitolata “Quattro snodi concettuali”, porterò l’attenzione su alcuni passaggi teorici particolarmente significativi, nella mia esperienza, della formazione all’idea batesoniana di relazione: dato/istituito, individuale/transindividuale, passato/presente, morale/estetico.
Nella terza, intitolata “Presente relazionale continuo: il trauma pandemico”, cercherò infine di evidenziare le feconde potenzialità esplicative della nozione batesoniana di relazione, sottolineando in modo particolare la priorità da essa conferita all’esperienza del presente come esperienza di una temporalità continua e densamente interattivo-relazionale. A tale scopo proporrò una breve analisi del recente trauma pandemico planetario, visto come il primo evento ecopolitico totale di scala planetaria della storia umana.
1. L’incontro/scontro formativo con la relazione che precede
1.1. Non si scappa. Da tempo, ai miei studenti, finisco prima o poi col dire che l’intero “succo” del corso – via via di varia denominazione, ma in sostanza Sociologia dei processi culturali e comunicativi – sta nella secca frase-aforisma batesoniana qui richiamata in premessa: “la relazione viene per prima, precede”; insistendo poi a mia volta sull’insistenza di Bateson: precede proprio, non si scappa.
È una frase in genere già ricorsa negli incontri precedenti, a quel punto, magari non alla lettera, collegata a varie altre, che ne evocano altre ancora, e di altre “scuole” ancora. E tuttavia, estratta dal resto e divenuta aforisma a sé stante, per di più con il piglio esigente di una formula assiomatica, fa naturalmente un effetto diverso. Mi accade quasi sempre, mentre la pronuncio, di rallentare per un momento il ritmo dei pensieri, accentuando l’ascolto dell’effetto che potranno fare quelle parole: “viene per prima, precede”. Possibile? Una formula così univoca e assertiva, a riassumere ore di scambi e ragionamenti a spirale sulla sfuggente complessità comunicativa del vivente umano: dirà sul serio, il professore?
Io stesso torno ciclicamente a chiedermelo, non solo nel lavorìo dello studio e della ricerca, ma anche nel vivo della pratica formativa, ripassando al vaglio la vasta molteplicità di esperienze concrete – esistenziali, sociali, politiche, ecologiche – che quella formula ambisce a rendere, quando sia necessario, un po’ meno oscure, in virtù di quel lampo di luce che vorrebbe colpire la nostra intuizione sensibile: “viene per prima, precede”.
1.2. Breve ripasso. La relazione precede, per noi esseri umani non meno che per il resto dei viventi, l’azione – che diventa rel-azione. E continuando a precederla, la accompagna, la vincola e la orienta. Nel bene come nel male – benedetta e maledetta, potremmo dire con Roger Keesing, citato in epigrafe.
Precede, per noi creature loquaci, l’azione stessa della parola, che delle relazioni distingue volta a volta i componenti (i relata) e i modi, nominandoli – singoli gesti, pensieri, oggetti, individui e collettivi, come pure generi e tipologie di gesti, pensieri, oggetti ecc.
Precede, più in generale, gli innumerevoli segni materiali, non solo verbali, che andiamo senza posa tracciando e conservando, collegandoli tramite varie forme di logica e di calcolo, per non perderci nell’eccesso di oscurità, o di vertiginosa meraviglia, del mondo.
Precede anche il nostro essere gli individui che siamo, o meglio le singolarità individuali che diventiamo e ridiventiamo senza posa attraverso il nostro incessante interagire, intersentire, interloquire, interpensare (Manghi S., 1995).
Precede, accompagna, vincola e orienta. In sintesi: contestualizza.
1.3. Domande e rimuginazioni. La pratica formativa, come sappiamo, è un’esperienza di incessante rispecchiamento relazionale, ovvero mimetico (Girard R., 1983), attraverso il collettivo in formazione. E così, richiamare quella formula ha per me non di rado in qualche misura l’effetto di rammemorare, ogni volta da nuove angolazioni, l’incredulità originaria, per così dire aurorale, di quando mi è avvenuto di inciampare, e continuare a inciampare, nella “maledetta e benedetta” ecologia delle idee batesoniana: seconda metà degli scorsi anni Settanta, tormentato passaggio agli Ottanta. Tormentato, quanto meno, quel passaggio, per molti “impegnati maschi marxisti in crisi” di quel tempo, se posso dirlo con uno stereotipo un po’generico, ma spero utile, nel quale non nascondo di sentirmi discretamente rappresentato.
Avrei continuato a misurarmi con l’esigente relazione che precede, mi chiedo, senza quelle concrete precondizioni critiche esistenziali? E senza gli incontri, avvenuti in seguito, con persone, gruppi e contesti insieme ai quali è stato possibile continuare a coltivare quell’incredulità originaria?
E quali precondizioni critiche, misteriosamente diverse dalle mie, inquietano il collettivo in formazione che mi accade volta a volta di incontrare, e ancor più diverse in questo tempo di turbolenze accelerate (Eriksen T.H., 2017), così tanto più vertiginose di quelle di mezzo secolo fa? Quali scommesse vitali sono in gioco, o formativamente attivabili, volta a volta, nel concreto contesto formativo di turno? Contesto – con-tessitura relazionale incessante – del quale anch’io sono ovviamente parte, volta a volta, sebbene con il vincolo aggiuntivo di coerenza verso l’idea della relazione che precede?
Domande e rimuginazioni ineludibili. Poiché è inevitabile, anzi auspicabile, che nel farsi nuova idea-concetto l’idea della relazione che precede appaia, e continui ad apparire, come un’idea-vertigine. Idea-domanda. Idea-curiosità.
1.4. Estetico e concettuale. La relazione che precede è idea-vertigine per il fatto che – e nella misura in cui – essa non investe semplicemente i nostri pensieri più abitualizzati di concettosi moderno-occidentali. Ma anche, e ancor prima, i connessi modi di percepire e di sentire più comuni. A incidere sui quali non basta un supplemento di pensiero concettuale, per quanto sottilmente elaborato, ma è necessario “attraversare la minaccia di quel caos dove il pensiero diventa impossibile” (Bateson G., 1984, pag. 192). E dove tocca pertanto affidarsi ad altre abilità del vivente umano, non razionalizzabili in astrazione concettuale, se si intende continuare la traversata.
Mi sto riferendo a quelle concrete competenze vitali che Bateson chiama estetiche: la cui funzione più essenziale, nella sua peculiare interpretazione, non è quella, più comunemente intesa, di saper procurare a noi umani sensazioni gradevoli al cospetto del “bello”, anche nutrendole con specifici saperi esperti (magari cercandovi qualche “romantica” scappatoia dalla relazione che precede, nell’illusione che “la bellezza salverà il mondo”), ma quella di saper mantenere i viventi tutti, più essenzialmente, in relazione vigile, reattiva e creativa (responsive) con la più ampia trama interattiva vivente di cui ciascuno di essi è parte. In relazione non an-estetica, potremmo dire, con quella più ampia trama, tenendo a mente che l’opposto di estetico, seguendo l’etimo greco della parola (l’aristotelica aisthesis), non è il brutto (inestetico), ma l’insensibile, l’assenza di sensitività.
“Per estetico intendo sensibile [responsive] alla struttura [pattern] che connette”, è la precisa definizione batesoniana (ivi, pag. 22). Dove l’espressione struttura che connette – alla quale stiamo qui preferendo, come si sarà inteso, trama che connette (v. Manghi S., 2023a) – rimanda a quello che è il brano di Bateson forse più noto e citato, ancorché spesso eluso, nella radicalità dello spaesamento che esso comporta: “Quale trama [pattern] connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula? E tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?” (1984, p. 21).
A questo brano segue poi il suggerimento, anch’esso spesso citato, a immaginare la trama che connette nei termini insieme autoregolativi e generativi di una danza collettiva: testualmente, “una danza di parti interagenti” (ivi, pag. 27).
1.4. Metodo. L’idea della relazione che precede, prima che idea-risposta, è dunque idea-domanda, come dicevamo sopra: “Quale danza interattiva connette ecc.?”. O se vogliamo: metodo. Modo d’interrogarsi su qualsiasi accadimento o processo abbia luogo in tale “danza interattiva”. Idea-curiosità, dicevamo. Curiosità, possiamo ora sottolineare, non meramente concettuale, ma sempre, insieme, estetico-relazionale. Una curiosità che in quegli ipermammiferi che sono gli umani è originaria, e che a partire da un certo punto della loro avventura nel mondo diventa – o può diventare – anche concettuale: da quel punto, precisamente, della sua infanzia, in cui il cucciolo umano può giungere a pronunciare, con stupore e timore, la magica paroletta io. E a tracciare distinzioni linguistiche, a partire da io-mondo, e connessioni tra le distinzioni, e immagini più o meno sensate dei contesti interattivo-relazionali nei quali gli è accaduto di avventurarsi, concorrendo a propria volta al prender forma delle loro cangianti coreografie.
1.5. Agirvi altrimenti. Assumere la priorità della relazione non equivale, dunque, a perdere ipso facto il vasto mondo delle “cose distinte”, numerabili e ordinabili in concetti e misure. A meno, s’intende, di non riuscire a pronunciare in modo minimamente stabile la parola-Sesamo io, o di perderla in seguito per strada, com’è sempre possibile – e guai a dimenticarsene: non a caso, si noterà, lo schizofrenico è in primo piano, nella domanda sulla trama che connette, venendo persino prima di “me”, di “voi” e di “noi”. Dal primato estetico della relazione non deriva alcuna esenzione dalla hegeliana “fatica del concetto”, in favore di un qualche facile estetismo, o sentimentalismo. Quel che ne deriva è piuttosto un’immagine del vasto mondo delle “cose” distinte via concetto e numero come di un fiorire incessante di idee-possibilità, ovvero di ipotesi su come orientare momento per momento il pensiero e l’azione. All’interno di “danze interattive” le cui corografie, beninteso, non cessano in ogni caso di venire prima.
All’esigente vincolo della relazione che precede, come dicevamo, non si scappa. Ma è d’altra parte proprio dei vincoli, ovvero dei rigorosi limiti al pensiero e all’azione che essi comportano, dischiudere possibilità altrimenti non date (Ceruti M., 2012, Manghi S., 2024a). E se dalla relazione che precede non è dato evadere – non si scappa… –, è data tuttavia la possibilità di agirvi altrimenti. In modi meno violenti, ingiusti, dolorosi e dannosi, sperabilmente, di quelli associati all’idea “modernista” che le relazioni viventi possano essere scomposte, senza gravi conseguenze, in “pezzetti separabili della conoscenza” (Bateson G., in Bateson N., 2013), nella tragica illusione di poterle così tenere – pezzetto per pezzetto – sotto controllo. Illusione persistente, in quanto a lungo incoraggiata come sola base realistica per l’azione, tra noi moderno-occidentali. Illusione da “occidentale medio”, per dirla con un termine intuitivo, tratto da uno dei saggi-chiave, a mio avviso, di Verso un’ecologia della mente. Il saggio intitolato “La cibernetica dell’io. Una teoria dell’alcolismo” (Bateson G., 2000, pp. 388-506).
1.6. Il mondo che più ci aggrada. Sensibilizzare collettivi in formazione all’idea batesoniana della relazione che precede è trovarsi necessariamente lungo una linea d’attrito, d’incontro/scontro, con le abitudini percettive, discorsive e di pensiero più scontate, al riguardo, dell’occidentale medio, fondate sulla persuasione che il mondo sia fatto di pezzetti separabili di conoscenza. Dove il pezzetto più pregiato è naturalmente quell’io che si vorrebbe il solo fra tutti – in quanto il solo cogitans – capace di sorvolare, libero e sovrano, il loro esteso, molteplice insieme come un visitatore extraterrestre.
Lo sguardo critico batesoniano verso l’occidentale medio, è bene chiarire, non implica tuttavia alcun posizionamento ideale (o ideologico) “anti-occidentalista”, con relativo invito a mettersi in cammino per cercare basi “relazionali” adeguate in un qualche altrove non-occidentale (come talora viene interpretata l’ecologia della mente batesoniana, equiparandola a un testo di saggezza “orientale”: il che beninteso è legittimo, se per così dire è quello che più aggrada, e non mancheranno di certo le prove a conferma).
Bateson stesso, pur confrontandosi con forme di pensiero non-occidentali, da quelle nuovaguineane, a quelle balinesi, a quelle buddiste, oltre che svariate altre non-umane (v. Guddemi P., 2020), non dimenticava di parlare comunque, volens nolens, il linguaggio di un umano moderno-occidentale che si rivolge anzitutto a umani moderno-occidentali. Il linguaggio di “un manovale impegnato nelle scienze occidentali” (Bateson G., 1997, pag. 408), formatosi per l’essenziale nella moderno-occidentalissima Cambridge di inizio Novecento, pur lasciata in gioventù, ereditando in particolare sottili intuizioni che egli attribuiva al padre, William, celebrato inventore della parola “genetica”.
1.7. Canone occidentale minore. Uno studio accurato dei nessi fra l’eccentrico, tormentato percorso di ricerca di Gregory Bateson (v. Manghi S., 2023a), e la complessa tradizione scientifico-filosofico-umanistica occidentale non è ancora stato compiuto. Ma basta scorrere l’indice analitico dei suoi volumi per constatarne il debito essenziale con tale tradizione. Ancorché, beninteso, non con le sue correnti “maggiori”, orientate a intendere l’umano come eccezione ai processi naturali (secondo i dualismi di natura e mente, materia e spirito e così via, richiamati sopra), bensì con il suo “canone minore” (Ronchi, 2017). Quel “canone” – “minore” unicamente in quanto nei fatti non egemone – che fin dalle sue origini presocratiche ha inteso e intende in vario modo la pur straordinaria unicità dell’esperienza umana, in tutte le sue espressioni, incluse le più sublimi, come parte integrante della natura.
Natura non naturata ma creativamente naturans, per dirla con Giordano Bruno (e in seguito Spinoza e altri), quale non abbiamo certo difficoltà a trovare all’opera nelle pagine batesoniane. Nelle quali i processi viventi hanno carattere mentale, in quanto capaci di interazione autoorganizzata, autocorrettiva e rigenerativa. Ne sono esempi, tra innumerevoli altri, “[il prender forma della] simmetria bilaterale di un animale, la disposizione strutturata delle foglie di una pianta, l’amplificazione progressiva della corsa agli armamenti, le pratiche del corteggiamento, la natura del gioco, la grammatica di una frase, il mistero dell’evoluzione biologica, e la crisi in cui oggi si trovano i rapporti tra l’uomo e l’ambiente” (Bateson G., 2000, pag. 19). E si legga ancora, per chiudere sul punto, il seguente brano di Verso un’ecologia della mente, dove le risonanze con le linee più essenziali del richiamato “canone minore” sono quanto mai evidenti: “La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo: essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo, e vi è una più vasta Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa più vasta Mente è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni intendono per ‘Dio’, ma essa è ancora immanente nel sistema sociale totale interconnesso e nell’ecologia planetaria” (ivi, pag. 504).
1.8. Incontro/scontro. Bateson per primo, com’è chiaramente espresso dall’ironia, se non del sarcasmo, di quell’affar vostro richiamato sopra in epigrafe, rivolto agli astanti (si trattava di una conferenza), non si sottraeva al carattere di incontro/scontro, talora anche a rischio di farsi un tantino ruvido, che comporta la coerenza con l’esigente idea della relazione che precede.
Raffinato teorico di quei grovigli comunicativi che egli stesso aveva chiamato, come ben noto, doppiovincolanti, sapeva che i contesti formativi più sfidanti, dove sono in gioco le poste più vitali, rispondono necessariamente a una grammatica relazionale intimamente paradossale. Una grammatica vivente dell’et-et, irriducibile al solo aut-aut. Una grammatica dell’uno/molteplice – dalla quale non si scappa.
Così come il rumore di un applauso si dà soltanto all’incontro/scontro tra due mani, allo stesso modo è soltanto nell’incontro/scontro in atto nel processo formativo – se vincolato all’idea della relazione che precede –, a poter generare gli apprendimenti che ne scaturiranno. Quali che essi finiranno per essere, aggiungiamo. Poiché nell’incontro/scontro formativo vincolato all’idea della relazione che precede, la posta in gioco non è il predominio della parte della “danza” cui aggrada di vivere in un mondo fatto di relazioni, sopra l’altra (o le altre), cui aggrada di vivere in un mondo fatto di pezzetti. Ma l’emergere, per quanto è possibile chiaro e distinto, della differenza tra le diverse parti “danzanti” in relazione. E con la differenza, l’emergere di possibilità e ipotesi d’azione prima non date all’interno dei contesti vitali che accade di “danzare” ai diversi partecipanti al processo formativo.
2. Quattro snodi concettuali
2.1. Tra modernismo ed ecologia. Richiamato per linee generali il quadro d’insieme delle sfide portate ai presupposti medio-occidentali dall’idea della relazione che precede, cercherò ora di enuclearne alcuni snodi concettuali, più in particolare, che nella mia esperienza sono tipicamente ricorrenti. Saranno quattro, a cui darò il nome composto, o bifronte, rispettivamente, di dato/istituito, individuale/transindividuale, passato/presente, morale/estetico. Dove il primo termine rimanda ai presupposti epistemologici prevalenti nell’occidentale medio, che qui chiamerò in breve modernisti, e il secondo a quelli formalizzati nella batesioniana ecologia della mente, che chiamerò sinteticamente ecologici.
2.2. Dato/istituito. Da un lato, l’idea modernista che al sostantivo relazione corrisponda una sostanza-relazione reale, data come tale prima che un atto linguistico abbia messo al mondo il sostantivo. Dove il venir prima della relazione ha un significato ontologico in senso ampio “oggettivista”, fondato sui dualismi soggetto-oggetto e mappa-territorio.
Dall’altro, l’idea ecologica che sia la parola relazione, messa al mondo dai soli animali loquaci del pianeta (o meglio da alcuni di loro, in un certo luogo e tempo), a rendere visibili come tali le “relazioni”, e a dotarle dei significati che, interloquendo, essi valutano essere “veri” (il verum-factum di Giambattista Vico). Dove il venir prima della relazione ha un significato istituente, il soggetto viene al mondo insieme all’oggetto-mondo, e l’oggetto-mondo è fatto di “mappe di mappe, ad infinitum” (Bateson G., 2000, pag. 495).
È a questo carattere, qui chiamato istituente, del linguaggio umano, che si riferisce implicitamente Bateson nell’ironico affar vostro richiamato sopra.
2.3. Individuale/transindividuale. Da un lato, l’idea modernista, ego-centrata, portata oggi al parossismo dall’egemonia culturale neoliberista, che la relazione sia una dimensione del tutto esterna, rispetto all’io che la nomina. Una dimensione evolvente, a livello tanto micro quanto macrosociale, a seconda di come viene foggiata, contrattando e negoziando secondo rispettivi gusti e convenienze, tra agenti individuali autocontenuti. L’individuo autocentrato è qui l’unità di conto minima per descrivere l’insieme delle interazioni umane. Un’idea fattasi senso comune diffuso anche perché sostenuta dalle correnti maggiori dei saperi economici, psicologici, psichiatrici, giuridici, organizzativi e comunicativi.
Dall’altro, l’idea ecologica che le creature viventi diventino e ridiventino senza posa individui, distinguibili gli uni dagli altri (gli uni da parte degli altri), attraverso le più ampie “danze interattive” che li coinvolgono. Attraverso cioè processi di ordine non interindividuale, ma transindividuale, per dirla con la feconda nozione sviluppata da Gilbert Simondon (2005; Balibar E., Morfino V., 2014). Dove il piano individuale non svanisce, come non svanisce quello che si usa chiamare collettivo (strutture, istituzioni, ecc.). Ma evolve senza posa, come quello detto collettivo, e insieme ad esso, a seconda di come va evolvendo, simultaneamente, la comunque più ampia “danza interattiva” transindividuale di cui entrambi questi piani sono parte, concorrendo circolarmente all’evoluzione della “danza”, ma senza tuttavia poterla mai precedere.
2.4. Passato/presente. Da un lato, l’idea modernista che le relazioni osservabili a cui ci riferiamo parlandone, essendo date (v. §. 1.7.1), siano entità situate per l’essenziale in un qualche passato, dicibile e pensabile come tale: un passato famigliare, affettivo, economico, sociale, storico, ecologico, cosmico, ben separato dal presente in cui siamo temporalmente situati mentre lo stiamo nominando e pensando. In questo senso la relazione verrebbe, in effetti, prima: ma in un prima di ordine cronometrico. Dentro un tempo definito dal movimento discontinuo – numerico, digitale – dell’orologio. Scandito in un succedersi di passato, presente e futuro, che si stia parlando di milioni d’anni o di un nanosecondo. Dove il presente è privo di accadimenti autonomi, scisso tra l’esser frutto passivo del passato e l’esser grado zero per l’azione libera e sovrana rivolta al futuro. In mezzo fra il tic del prima e il tac del dopo. Mero frattempo. Tempo “omogeneo e vuoto”, per dirla con Walter Benjamin (Benjamin W., 1997, pag. 23).
Dall’altro, l’idea ecologica che le relazioni vengano prima, anzitutto, nel presente. Nel nostro presente esperienziale più immediato, che in virtù di sottili proprietà estetiche è di quelle vive relazioni parte “danzante”. Un presente – ed è forse il tratto dell’idea batesoniana di relazione più oscuro allo sguardo modernista – concepito non come frattempo, ma come durante. Non come vuoto d’esperienza, che lo sguardo modernista immagina interposto fra un pieno tic e un pieno tac, ma nel pieno di un proprio denso durare. Un pieno esperienziale, irriducibile a misura discontinua (o “digitale”), che l’avverbio/gerundio inglese during, non a caso adoperato per formare il tempo verbale detto present continuous, riesce a evocare anche meglio dell’avverbio/participio italiano durante.
È sempre e solo nel presente, che stiamo parlando di passato, di futuro, e anche di presente. Ne parliamo in un presente “pieno di attualità”, tornando a citare Benjamin, che con questa parola, attualità, portava in evidenza l’essere in atto senza posa, nel qui e ora, di accadimenti e cambiamenti inattesi, irriducibili alle cause “retrostanti” che pure li hanno resi possibili. Ne parliamo, insomma, mentre vanno emergendo sempre nuovi eventi, piccoli e grandi, che, pur promossi da cause “efficienti”, tuttavia vengono-fuori da esse, come suggerisce intuitivamente l’etimo latino del termine – eventus, derivato da evenire.
Il mondo in cui viviamo, scrive Bateson (o testualmente: “galleggiamo”), “non consiste se non nel cambiamento, anche se parliamo come se nel mondo ci fosse un elemento statico” (1997, pag. 428). E il tempo-vita di cui facciamo esperienza in questo mondo di cambiamento incessante non è il tempo fatto a pezzetti dal ritmo discontinuo dell’orologio, ma il tempo presente continuo. O più esattamente, il tempo presente relazionale continuo.
2.5. Morale/estetico. Da un lato, l’idea modernista che coltivare “buone relazioni” sia un ideale affidato all’intenzionalità soggettiva. La quale sarebbe in grado di orientarle secondo criteri di utilità reciproca, di “principi”, magarui anche sviluppando le doti “empatiche”, o “neuroempatiche”, di cui la specie ha munito ciascuna creatura individuale. Opzione, questa ultima, particolarmente cara a certi filoni romantici della tradizione moderno-occidentale, ai quali si alimenta un diffuso senso comune “sentimentalista” che giunge anche fino a pensare la relazione come in sé moralmente “buona”. Le cui criticità – violenze, follie, ingiustizie – verrebbero dall’intrusione “innaturale” di fattori “non-relazionali”: utilitarismi individuali, o “fredde” strutture tecno-sociali (pensiamo, paradigmaticamente, alla dicotomia tœnniesiana comunità-società). La relazione che viene per prima, precede, può venir letta, in questa chiave, come una sorta di esortazione “edificante” a tenerne a mente il presunto primato morale.
Dall’altro, l’idea ecologica che il venir prima della relazione caratterizzi il modo d’esistere da sempre in atto nell’insieme dei viventi, umani e non umani, tanto nel bene quanto nel male. Un modo d’esistenza transindividuale, come detto sopra, non orientabile unilateralmente verso il Bene, fosse pure con la migliore e più accorta delle intenzionalità coscienti. Le nostre sanguinose guerre, le nostre endemiche violenze quotidiane, le nostre clamorose ingiustizie, non sono vicende meno relazionali delle nostre migliori pacificazioni, delle nostre più amorevoli coesistenze e delle nostre più solide fraternità. Neppure la bella immagine della danza, che Bateson suggerisce per favorire la percezione intuitiva del nostro essere immersi, come ogni altro vivente, in dinamiche relazionali incessanti – neppure quella, a rigore, va intesa in chiave linearmente “edificante”.
(La recente pellicola di Paola Cortellesi, C’è ancora un domani, rende visibile con sensibilità artistica, e insieme coraggio, fuori del comune, il carattere a-morale della relazione, mettendo in scena la violenza di un uomo verso la sua compagna di vita nei modi, appunto, alla lettera, di una danza).
Ciò non significa, naturalmente, che il venir prima della condizione relazionale sia privo di implicazioni di natura etica, e più ampiamente etico-politica. Anzi. Significa, piuttosto, che le nostre “danze interattive” sono per così dire etico-politicizzate in ogni loro singola “mossa”, che ne siamo o meno consapevoli, per il fatto che non cessiamo un solo istante di prendervi esteticamente parte, concorrendo al prender forma delle loro coreografie, tanto per il meglio quanto per il peggio (Bateson, M.C, 2005; Manghi S., 2007). Il fuoco prioritario dell’attenzione etico-politica non risiede nel luogo “opzionale” della libera scelta sovrana, come nell’individualismo modernista, ma nel luogo “obbligante” della necessità. Luogo paradossale del non poter non scegliere, attimo per attimo. E poiché non può mai esser dato di conoscere in anticipo gli effetti reali dei propri “passi di danza” sulle loro coreografie d’insieme, specie riguardo al medio e lungo periodo, toccherà sapersi prender cura in permanenza, non soltanto del senso individuale del proprio agire, ma anche, insieme agli altri “danzatori”, di queste più ampie coreografie.
3. Presente relazionale continuo: il trauma pandemico
3.1. Il trauma pandemico. La relazione che precede, nell’accezione schematicamente delineata sopra – ovvero, ripetiamolo: come nozione istitutiva di un modo di situarsi nel mondo, concepito come incessante “danza” generativa transindividuale sempre-presente, densamente interconnessa tramite diffuse sensibilità estetiche –, è in grado di aiutarci a comprendere aspetti rilevanti, se non decisivi, di questo nostro tempo vertiginoso, che lo sguardo modernista di gran lunga prevalente nel senso comune tende necessariamente a trascurare.
Qui vorrei soffermarmi in breve, in particolare, su quello che è stato a mio avviso l’evento collettivo più rilevante della storia umana recente, e anche oltre, che ci siamo industriati assai più a dimenticare e rimuovere che ad ascoltare e interrogare. Sto parlando dell’evento Covid.
O più precisamene: del trauma collettivo causato dal virus SARS-CoV-2, che per la prima volta nella storia della specie, nei pochi mesi tra il febbraio e l’infinita primavera del 2020, abbiamo vertiginosamente condiviso tutte e tutti noi, terrestri umani, in simultanea. Un inaudito sovrapporsi iperveloce di sciami virali, comunicativi ed emozionali che ha coinvolto per lunghe settimane, e a lungo senza la consolazione di una dead line predefinita, i quasi otto miliardi di ominidi della specie detta sapiens, distribuiti per tutti i continenti e per tutti gli ecosistemi del pianeta Terra, che siamo diventati a capo dei 200.000 o forse 300.000 anni della nostra storia.
Come ha scritto efficacemente il filosofo Emanuele Coccia: “un minuscolo corpo appena vivente ha unito la carne di tutti gli esseri del pianeta, non solo umani” (2022, pag. 6).
3.2. Unitas multiplex. Sottolineo: trauma. E trauma collettivo. Non genericamente pandemia, come l’abbiamo archiviato in larga misura nella memoria comune, derubricandolo a fenomeno essenzialmente biosanitario, diverso da altri per gravità ma non per qualità. Non a caso, infatti, era anzitutto dai virologi, che ci si aspettava la parola che illumina e il farmaco che guarisce, con gli sguardi concentrati su quei forellini invisibili nel confine tra i corpi e il cosmo dai quali gli ultracorpi virali “cinesi” entravano per colonizzare e sfruttare brutalmente preziose risorse “indigene” (così poteva apparire, quanto meno, in quella parte del mondo, moderno-occidentale, più addestrata a questo genere di microsguardi e più dotata di risorse per procurarsi difese supplementari).
Trauma collettivo, dicevamo dunque. Termine che mi auguro possa dire con immediatezza, sul piano dell’intuizione sensibile, l’assenza di confini, esteticamente vissuta nei lunghi mesi della pandemia, tra corpo e cosmo, esistenza e coesistenza, materia e spirito, natura e mente, natura e società, natura e politica (physis e polis, oikos e polis). O se vogliamo dirlo con il linguaggio disciplinare: tra biologia, psicologia, sociologia, antropologia, ecologia, economia, politologia, eccetera.
Non sto negando, naturalmente, la rilevanza dei confini tracciati dalle distinzioni operate dai nostri linguaggi. Sto semplicemente tornando a richiamare l’ipotesi, esposta sopra, che tali distinzioni intervengano comunque dopo l’esperienza immediata e continua del nostro presente relazionale. E sto suggerendo, insieme, che nell’esperienza vertiginosa del trauma pandemico questo presente relazionale continuo l’abbiamo sperimentato in vivo, per l’intero pianeta, tutti noi umani, con la sensazione che al contempo qualcosa di simile stesse accadendo a ciascuna e ciascuno di noi.
Ciò è avvenuto in quasi assenza di linguaggi unitari, capaci non solo di tracciare preziose distinzioni, ma anche di fornirci non meno preziose immagini unitarie – unitas multiplex – dell’esperienza che si andava vivendo. E tuttavia, è avvenuto. Lasciando un segno – una cicatrice – che possiamo considerare il primo nucleo attivo di memoria universalmente condivisa della specie.
3.3. Evento ecopolitico totale. Ancor più precisamente, come ho suggerito in un recente articolo (Manghi S., 2023b), che qui sto riprendendo in modo diverso, il trauma collettivo detto Covid costituisce il primo evento ecopolitico totale di scala planetaria della storia umana.
La locuzione evento ecopolitico totale prende spunto da quella di fatto sociale totale, enucleata come noto da Marcel Mauss per riferirsi a quel genere di fatti sociali umani che, investendo l’intera catena delle reciprocità di un collettivo umano, scriveva, “mettono in moto […] il tutto della società e delle sue istituzioni” (Mauss M., 2022, pag. 134). In particolare, quella nozione si riferiva al fenomeno, comune a diverse civiltà non-occidentali, del dono non-utilitario, dove appunto la circolazione incessante dei doni e di relativi obblighi a reciprocare investe tutti gli aspetti rilevanti della vita collettiva, al tempo stesso istituendola come un tutto unitario.
In queste note, tuttavia, il termine evento ecopolitico totale, pur mantenendo per intero la pregnanza emotivo-simbolica dell’aggettivo totale, si differenzia dalla nozione maussiana, com’è evidente dalla parola evento, sostituita a fatto, e dalla parola ecopolitico, sostituita a sociale.
3.3.1. Evento. La preferenza per la parola evento ha due ragioni, delle quali credo di non aver abbastanza tenuto conto nell’articolo richiamato sopra, nel quale dopo varie oscillazioni avevo deciso di mantenere fatto (e dunque: fatto ecopolitico totale). La prima ragione è che nella sociologia maussiana il termine fatto sociale totale si riferisce, com’è chiaro nella citazione riportata sopra, ad ampie tipologie di “fatti” (e al dono in primis), e non a un certo fatto unico e singolare, quale il recente trauma pandemico. Questa prima ragione, di marca filologica, potrebbe anche passare tuttavia in secondo piano, in uno scritto non accademico, come questo, dal momento che nel senso comune la parola fatto concerne intuitivamente accadimenti singoli.
Più rilevante, invece, la seconda ragione, che ha finito per far pendere la bilancia dal lato dell’evento: la maggior congruenza di questo termine con le premesse epistemologiche “relazionali” del discorso che sto qui proponendo. Ciò in quanto la derivazione etimologica del termine da evenire, già sottolineata sopra (v. 1.3.4), non si limita a farci registrare, come la parola fatto, che qualcosa di unico è accaduto, ma attribuisce anche intuitivamente a questo qualcosa di unico il carattere della venuta al mondo. Della apparizione di un inatteso novum, impossibile da ridurre alle sole cause efficienti che pure l’hanno messo al mondo. Un novum che diventa interessante per i suoi effetti, reali e insieme potenziali, prima che per le sue cause. Interessante per quel che esso fa accadere nel vivo presente del suo inatteso venir-fuori.
3.3.2. Ecopolitico. L’aggettivo ecopolitico intende qui portare l’attenzione sul fatto che il trauma pandemico è stato un evento a tutti gli effetti di ordine inseparabilmente ecologico, sociale e politico, essendosi avviata la pandemia, secondo studi accreditati, da condizioni climatiche critiche, prodotte dall’azione umana, specie ovviamente dalla sua parte più ricca e “avanzata” (Leonardi E., Manghi S., 2024), e avendo esso a sua volta immediatamente inciso in profondità sulle dinamiche interumane e più ampiamente planetarie, sia promuovendo la prima esperienza emozionale universalmente condivisa nella storia umana, sia introducendo in quelle dinamiche nuove tensioni e motivi di conflitto sociale, ambientale e climatico.
Ecopolitico, e non, più genericamente, ecosociale, per richiamare la piena appartenenza alla più vasta ecologia terrestre della polis umana (Latour B., 2000, 2020). Ovvero il fatto che i circuiti rigenerativi di autonormazione e gestione delle cooperazioni e dei conflitti, che usiamo chiamare politici, riproducono complessi circuiti rigenerativi e autoorganizzativi in atto da ben prima tra i viventi, vegetali e animali. Sebbene, ovviamente, in forme specifiche, e pure molto diverse, essendo gli umani le creature terrestri di gran lunga più intensamente desideranti e mimetiche (Girard R., 1983), e al tempo stesso raziocinanti, del vivente: groviglio paradossale sapiens/demens (Morin E., 2002), indubbiamente unico, nella storia delle “danze interattive” terrestri, e cionondimeno del tutto immanente alle loro grammatiche creaturali.
3.4. Comunità di destino (conclusione). Il primo evento ecopolitico totale di scala planetaria della storia umana può essere considerato il primo segno sensibilmente condiviso di quella che Edgar Morin ha chiamato comunità di destino terrestre (Morin E., Kern B., 1994).
Sebbene questa del tutto inedita forma di vita, composta da innumerevoli umani e non umani, sempre più intimamente unificata dall’inarrestabile proliferare delle tecnologie digitalizzate real time (Manghi S., 2022), sia un’entità corposamente reale, essa è tuttavia ancora priva di una consapevolezza meditata di esserlo. Ciò in quanto le rappresentazioni di gran lunga prevalenti di quanto sta accadendo al pianeta, che innervano da secoli le nostre routine e le nostre pratiche sociali quotidiane, continuano comporsi “modernisticamente” di pezzetti di conoscenza separabili. Ed era forse pertanto inevitabile che anche l’opportunità rivelatrice extra-ordinaria, extra-ordinariamente sintomatica, costituita dal primo, inatteso evento sensibilmente condiviso in simultanea da tutti gli umani del pianeta, non incidesse sostanzialmente sul carattere frammentato e scomposto di quelle rappresentazioni.
Né sarà inoltre mai abbastanza sottolineato che questo vertiginoso evento terrestre è stato affrontato dagli umani, nell’insieme del pianeta, in modi e gradi non solo molto diversi, ma anche gravemente diseguali per luogo, classe, genere, etnia e altro ancora (Berchet B., et al., 2023). A partire da condizioni strutturalmente molto squilibrate della “stessa barca” (Ingrosso M., Manghi S., 2021; Manghi, 2024b).
Ma tutto ciò doverosamente richiamato, che ne siamo consapevoli o meno, lo straordinario evento terrestre costituito da un’esperienza condivisa per la prima volta al presente relazionale continuo dagli umani di ogni angolo del pianeta rimane una pietra d’inciampo ineludibile, nel piccolo e nel grande della nostra esperienza quotidiana, ancora largamente in debito di pensiero e di immaginazione.
Cercando qui di riflettere, per così dire “attraverso Bateson” (Manghi S., 1997), su questa nostra esperienza totale comune, nella cui lunga scia ecopolitica siamo soltanto appena entrate ed entrati, mi auguro di aver contribuito a renderla almeno un poco meno impensabile e inimmaginabile. Lasciando inoltre almeno un poco intuire, più in generale, il fecondo potenziale esplicativo della batesoniana relazione che “viene per prima, precede”.
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