Professoressa Associata di Pedagogia Generale e Sociale, phd in Pedagogia delle scienze della salute. Dal 1998 svolge attività scientifica e didattica accademica. E’ autrice di pubblicazioni internazionali e nazionali inerenti le correlazioni interdisciplinari tra scienze dell’educazione e scienze della complessità, con focus di studio intorno alle correlazioni tra linguaggi simbolici, reflective practices e trasformative learning nella formazione dei professionisti della cura e dell’educazione.
Sommario
Il saggio si interroga sul nesso tra cura e relazione a partire da un focus particolare, ovvero muovendo dalle connessioni tra medicina narrativa e scienze della complessità ne mette a fuoco la fondazione epistemologica, irriducibile alla sola questione metodologica che secondo alcuni si configurerebbe come “tecnica della comunicazione”. Più in particolare, lo studio parte considerando dialetticamente la visione di Cavicchi secondo la quale la Medicina Narrativa “ignora il potere performativo delle parole”, argomentando altresì come approccio sistemico e posizionamento narrativo siano invece legati a doppio filo con la prospettiva propria del Trasformative Learning e dunque radicati proprio sulle potenzialità trasformative della relazione cosiddetta “autentica”.
Parole chiave
Complessità, Conoscenza, Relazione, Apprendimento Trasformativo, Medicina Narrativa
Summary
The essay questions the link between care and relationship starting from a particular focus: moving from the connections between narrative medicine and complexity sciences, it focuses on their epistemological foundation, irreducible to a "technique of communication". More specifically, the analysis dialectically studies Cavicchi's vision according to which Narrative Medicine "ignores the performative power of words", instead arguing how a systemic approach and narrative positioning – because they are instead closely linked with the perspective of Transformative Learning – are rooted precisely in the transformative potential of the so-called "authentic" relationship.
Keywords
Complexity, Knowledge, Relationship, Transformative Learning, Narrative Medicine
1. Complessità del reale, Semplicità del pensiero
L’interrogazione scientifica a proposito della coniugazione, in medicina, tra technical skills e quelle che taluni definiscono solo per negazione, ovvero non technical skills, viene sovente intesa come riconducibile all’integrare la formazione clinica – sia nei piani formativi universitari sia nei percorsi di aggiornamento – con “tecniche di comunicazione”.
L’idea che si potesse porre la questione non per la multifattorialità che essa implica – ovvero il legame inscindibile tra processi di conoscenza e processi di relazione – ma semplificandola, riducendola a tecnica/performance, piuttosto che ad habitus interiore, rientra in un modus che da tempo esercitiamo, tanto nelle cose di scienza tanto in quelle di vita quotidiana: rispondere alla complessità del reale con la semplicità del pensiero (Coniglione, 2015).
Accade frequentemente di diluire la questione riducendo la cura a prestazione o, in taluni casi, quando la si è coniugata alla rilevanza emotiva, di intendere anche quella come erogazione da affiancare, performance da abbinare a quella tecnico-specialistica, senza riuscire a riconoscere che la formazione relazionale dei medici – come indicato nella Tabella XVIII e negli obiettivi formati della Commissione Nazionale per l’ Educazione Continua in Medicina - è ben più che insegnare “strategie di comunicazione efficace” per conquistare la fiducia del paziente e la sua compliance come un venditore ha da conquistare un cliente.
In un prezioso studio del 2019 Benasayag, interrogandosi sul nostro tempo, individua la domanda identitaria planetaria – con implicazioni tanto scientifiche quanto etiche e politiche – nella scelta tra Funzionare o Esistere.
La medesima opzione può essere riportata dentro l’interrogazione a proposito dell’intendere la competenza relazionale in medicina. Lo mette a fuoco nitidamente Cavicchi:
“La confusione che si fa, in generale, è tra il concetto di comunicazione e quello di informazione, convinti che basti parlare per comunicare e quindi informare. La medicina parla di “abilità comunicativa”, intendendo a un tempo “la correttezza delle informazioni”, “la comprensione dei contenuti”, “la raccolta e la restituzione delle informazioni”, “le tecniche di comunicazione”, “i messaggi da trasmettere” ecc. Ma questo non ha nulla a che vedere con la comprensione del linguaggio e con l’uso del linguaggio per fare delle scelte.
Confondere comunicazione con informazione è un problema, perché si riduce il rapporto di reciproca comprensione a uno scambio di “segnali” tra un malato, considerato come un 'emittente', e, un medico, considerato come un ricevente. L’abilità comunicativa per la medicina è qualcosa che riduce la complessità del linguaggio a scambi di messaggi.
Il linguaggio è la porta attraverso la quale si accede ai mondi dei soggetti e a quelli della relazione. Il linguaggio per l’ontologia ha la stessa importanza del corpo per la clinica. Il linguaggio è estensione del corpo, che non parla più solo attraverso sintomi ma anche attraverso discorsi, quindi è estensione anche della persona che a sua volta non racconta più solo sintomi del corpo ma propri argomenti, pensieri, punti vista, emozioni.
In una relazione con il malato si dicono cose che non sempre sono verificabili empiricamente, anche perché appartengono al mondo interiore del malato, alla sua cultura, al suo stato d’animo, alle sue convinzioni, alle sue vicende ecc..” (2018, pp. 174-175).
Questa complessità, che tiene insieme variabili tangibili insieme a variabili intangibili, evoca un crossing disciplinare che riguarda la contaminazione del sapere medico con saperi di natura psicosociale ed antropopedagogica.
2. Questioni di cura, questioni di conoscenza
In questa direzione, Cavicchi struttura la sua visione di configurazione ontologica del sapere medico, che egli inserisce nel più ampio quadro delle sue 100 Tesi per il mutamento di paradigma in medicina (2018), rispetto al quale egli dedica attenzione particolare al tema del travisamento delle competenze relazionali del medico:
“Non è più tanto una questione di comunicazione, cioè di scambio di informazioni, ma è primariamente una questione di conoscenza delle persone che dicono. Il linguaggio non è solo uno strumento per comunicare, ma è conoscenza di colui che parla. Il medico per accedere alla persona deve comprenderne il linguaggio.
Il linguaggio di un malato riferisce di “oggetti concreti”, quelli osservabili, e di “oggetti astratti” quelli solo asseribili. I sentimenti, le sensazioni, gli stati d’animo, i pensieri, le preoccupazioni le idee, le convinzioni, sono esempi di oggetti astratti asseribili. La ragione medica, per evidenti motivi pratici, preferisce di gran lunga gli oggetti concreti, e considera, quelli astratti, come qualcosa di indeterminato.
In una relazione non conta solo ciò che gli oggetti concreti o astratti che siano dicono, cioè ciò che gli oggetti sono, bensì il contributo che essi offrono alla conoscenza del malato. Se la ragione medica si limita a conoscere solo ciò che è concreto si preclude, per propri limiti, la conoscenza del malato come persona” (2018, pag. 176).
Non già la semplificazione, quindi - corrispondente alla razionalizzazione/protocollizzazione delle procedure non technical - ma l’analisi multifattoriale della complessità della cura: è proprio questa evidenza – la necessità di collocare il discorso intorno alla comunicazione in seno a quello della conoscenza - che ha generato, nella letteratura internazionale e nazionale, la nascita e lo sviluppo della Medicina Narrativa (Charon 2001a, 2001b, 2004, 2006; Good, 1999). Nella sua fondazione, essa è intesa proprio come consapevolezza e cura della multidimensionalità dei processi di conoscenza clinica: facendo riferimento a training rigorosi in abilità narrative integrate con la riflessione sulle proprie conoscenze ed esperienze cliniche, la MN nasce come coniugazione di habitus e metodologie euristiche orientati alla complessità, ovvero come apprendimento medico complesso inerente all’imparare a conoscere/curare integrando il ragionamento clinico con competenze corrispondenti alla equazione cura = relazione.
E tuttavia, pur condividendo la medesima analisi ed il medesimo motore del mutamento paradigmatico evocato, nelle sue 100 Tesi Cavicchi descrive la MN come “clamoroso paradosso della comunicazione senza linguaggio” (2018, 180) considerandola come sovrapponibile al colloquio anamnestico:
“Con il termine “narrazione” si intende una certa esposizione, per lo più ordinata dei fatti che riguardano la malattia in funzione di uno scopo diagnostico. In pratica essa consiste nell’esposizione obiettiva dei fatti da parte del malato. La medicina narrativa è definita una metodologia, ma in quanto tale essa altro non è se non la riaffermazione della tradizionale logica anamnestica, appunto l’esposizione dei fatti sotto forma di evidenze linguistiche. La medicina narrativa è semplicemente la riproposizione della logica di fondo del paradigma positivista e quale metodologia di base è funzionale a quelle delle Ebm che per certi versi è l’espressione più forte di detto paradigma.
La medicina narrativa è del tutto simmetrica alla medicina basata sull’evidenza e il suo obbiettivo è quello classico dell’appropriatezza. Questo aspetto naturalmente è tutt’altro che disprezzabile. Una “buona storia del paziente” resta, anamnesticamente parlando, nel paradigma positivista la base per una buona clinica. Ma essa è del tutto lontano dalle logiche che ci servono a ricostruire la fiducia quindi da quella del dialogo del consenso e della relazione”. (2018, pag. 180).
Eppure, la review che in letteratura, nazionale ed internazionale, identifica il proprium della Medicina Narrativa, nonché il modus proprio della formazione erogata in Italia dalla SIMEN - Società Italiana di Medicina Narrativa - non indica la narrazione come funzionale al solo raggiungimento di una analisi il più possibile “oggettiva” ma, anzi, fa riferimento ad un paradigma che supera la visione positivista che meccanicizza la relazione medico-paziente, convocando dunque il primo a riconoscersi curante, non solo prestatore d’opera, pur di elevatissima tecnica e valore (cfr. Polvani, 2021). Nella sua fondazione, la MN si è definita metodologia per sottolineare la vocazione anche pragmatica ma non in riferimento ad un corpus di metodi e tecniche da implementare senza mutamento di paradigma. Il salto verso la MN è decisamente paradigmatico ed è il medesimo delle scienze della complessità: concepire/comprendere/collocare prescrizioni terapeutiche e terapie dentro una relazione, alla luce dell’evidenza sistemica per cui nulla è slegato (Good, 1999).
Concretamente: la MN si esprime nella capacità di mutare i consigli da pret-a-porter a singolari, nella congiunzione tra le norme generali e le narrazioni particolari, nella cucitura tra le forme protocollari e le soggettive esperienze di malattia, ed anche di salute, che ogni paziente ed ogni medico, in quanto umani – ed in quanto tali portatori di complessità, irriducibili alla standardizzazione - portano nella cura. E questo non soltanto in riferimento ai “modi” della comunicazione ma, a loro fondamento, in riferimento ai “modi” del ragionamento clinico stesso, che nella postura sistemica/narrativa salta da un modus induttivo/deduttivo ad uno abduttivo (cfr. Bateson, 1976, 1984; 1997).
Per questo posizionamento propriamente sistemico della MN (sebbene, certamente, non sempre esplicitato in tutte le ricerche e pratiche ad essa riferite, ma sicuramente illustrata nitidamente nelle scritture di Giorgio Bert, per esempio), non si comprende, dunque, come mai Cavicchi veda scucito, nella MN, il legame tra parola e azione. Questa sua attribuzione così tranchant pare piuttosto riferibile a deduzioni non correlate a rilevazioni empiriche o review analitica: di fatto, invero, l’intero impianto internazionale della ricerca dedicata alla narrazione nei contesti della cura si fonda sulla consapevolezza del potere performativo della comunicazione, quando essa si incarna ovvero quando non è intesa come mero addestramento: (illusione di) meccanica istruzione, meccanica ricezione.
Come il solo dire “fatti” mescolati ad interpretazioni, da parte del paziente, non rientra nel posizionamento proprio della MN, così il solo registrare e poi dare informazioni-prescrizioni non genera relazioni: poiché il solo scambio, nella logica lineare emittente-ricevente che pur tanti ha sedotto in termini di semplificazione, non è generativo, ovvero non attiva morfogenesi (Munari, 1993) nella forma di risignificazioni di percezioni e di azioni, che la vicenda di malattia, per sua natura, richiede a chi investe. E non perché i pazienti sono irriducibilmente disobbedienti, irrazionali, infantili, ma perché non sono “macchine semplici” (Bert, 2007, 2009). L’umano non funziona in modalità trivial/banale, per usare l’espressione propria della Seconda Cibernetica (Foerster, 1987): il proprium umano non è la replica ma la poiesis, ovvero la ricerca e la creazione di dimensioni di senso e significato (Bruzzone, 2007). In tale prospettiva, il mutamento paradigmatico proprio della MN non si può ricondurre al solo mutamento di modi nella raccolta di dati utili per la diagnosi: esso ha come focus questioni – per il medico e per il paziente – di ri-apprendimento, ovvero: di accompagnamento, nel vissuto di malattia, alla ristrutturazione percettiva (Fosha et al, 2011, 2012), sia nell’orizzonte del paziente che dalla malattia è chiamato a ri-scriversi, sia nell’orizzonte del medico che, continuamente convocato da ogni interlocuzione con ogni incarnazione-di-malattia-in-biografia, è ugualmente chiamato a ri-scriversi ed a ri-scrivere il suo sapere.
3. Sterilità e generatività e generatività delle narrazioni in medicina
E dunque la MN muove proprio da questa fondazione: la consapevolezza – che oggi sappiamo essere anche neurobiologicamente fondata, seppur già da tempo teorizzata nella ricerca filosofica, antropologica e sociologica - che le parole creano mondi (cfr. Fosha et al, 2011, 2012).
Sicchè, proprio in ragione della valenza performativa del linguaggio, piuttosto che liquidare la MN come pratica senza paradigma, occorre invece, nel tempo dell’ininterrotto storytelling globale, certamente interrogarci a proposito della sterilità di narrazioni che non solo non arricchiscono la diagnosi, né seguono le prescrizioni ma, persino, potrebbero ostacolarle.
Occorre, allora, piuttosto provare a rintracciare la differenza tra una pratica narrativa sterile ed una generativa, ovvero trasformativa: in tal senso la competenza narrativa in medicina – preventiva, diagnostica, clinica - si configura come capacità di esperire piccole e grandi morfogenesi/trasformazioni ovvero di sperimentare l’incontro con l’esperienza del limite, che il contesto di cura per sua natura implica, come ri-scrittura relativa non solo all’apprendimento/mutamento di pratiche esteriori (comportamenti, azioni da modificare per prevenire o per curare) ma anche di pratiche interiori (percezioni, habitus, modi con cui si sta al cospetto della fragilità).
E’ da questo intreccio tra tangible and intangible assets che la MN si è mossa e si muove, con l’intento propriamente pedagogico di attraversare il disordine proprio del vissuto di fragilità per accompagnare non verso l’illusione meccanicistica del ristabilire, con la cura e la guarigione - quando questa è possibile - l’ordine precedente la malattia, ma verso la riorganizzazione (Striano, 2012) – tanto pragmatica quanto, potremmo dire, semantica – della propria esperienza: riorganizzazione →trasformazione →morfogenesi che può essere perseguibile anche quando la guarigione non è possibile.
Dal nesso tra salute ed apprendimento trasformativo discende il nesso tra cura e postura relazionale (Bertolini, 1994), ovvero tra cura e quel tipo particolare di postura interiore che, nell’incontro con la fragilità non rinnega ma riconosce il proprium umano: l’evidenza per cui le dimensioni di senso sono inscindibilmente impastate in ogni dimensione pratica e, anche aspirando ad un modello disumanizzato, non c’è performance umana (sia che la si viva come “erogatore” sia che la si riceva come “ricettore”) che possa essere vissuta come sola prestazione, non c’è per l’umano azione che non riceva una attribuzione di valore. Gli studi in ambito pedagogico, psicologico e psichiatrico da tempo forniscono evidenze in tale direzione, ma soprattutto gli approdi delle neuroscienze contemporanee hanno evidenziato il principio costruttivistico che ci caratterizza in quanto cercatori e creatori di senso (Siegel, 2001).
Riconoscendo, dunque, che occuparsi di cura/salute non può diluirsi in questioni di istruzione ed addestramento (come per tanto tempo si è ritenuto, e come molti continuano a ritenere, sperimentando fallimenti ed inutili investimenti nei programmi di prevenzione o nelle prescrizioni terapeutiche in forma di apprendimento-solo-strumentale), allora un medico può sistemicamente/narrativamente formarsi come esperto di pensiero-come-interrogazione (Dewey, 1961), Striano, 2000, 2009, 2012, Mortari, 1998, 2000) e di apprendimento-come-trasformazione (Mezirow, 2003), non solo come efficace rilevatore ed efficiente riparatore capace di codificare e decodificare soltanto le evidenze.
Così decliniamo una narrazione generativa, intesa come ristrutturazione che i sistemi viventi complessi possono esercitare nell’incontro col caos e col disordine (Morin, 1983): in questo movimento circolare, dove le narrazioni sono considerate scritte eppure sempre riscrivibili, sta l’approdo evolutivo degli studiosi dell’apprendimento trasformativo, e della Medicina Narrativa che non “rappresenta la classica scorciatoia nei confronti della complessità in gioco” (2018, pag. 180) come invece la interpreta Cavicchi persino ritenendo che:
“la medicina narrativa ignora il potere performativo delle parole e del linguaggio applica al racconto del malato lo stesso approccio che applica al corpo sintomatico, che è quello di limitarsi a descrivere lo stato delle cose. Ciò che dice il malato deve coincidere con i suoi sintomi. Cioè deve essere evidente e descrivere delle evidenze. Il linguaggio viene in questo modo naturalizzato perdendo tuttavia il suo connotato culturale che è quello di essere sempre l’espressione di un soggetto e della sua cultura”. (ibid., pag. 182).
Non sappiamo da dove egli tragga dati per giungere a questo approdo. Non sappiamo a quali fonti si riferisce quando così descrive la MN. E’ invece proprio il quid trasformativo – il valore performativo generato dalla e nella relazione che sperimenta le-parole-come-significanti non solo come contenuti senza contenitore – che consente di distinguere una narrazione generativa da una che non lo è: poiché sì, una narrazione può non essere generativa/trasformativa se non c’è mutamento di paradigma. Essa può diventarlo, e lo diventa, quando chi narra e chi ascolta sperimenta una relazione: ovvero una esperienza narrativa nella quale si riconosce alle parole d’essere mondi, non solo connotazioni (Cfr. Watzlawick; 1986, 1988; Bert, 2007, 2009; Bert, Quadrino, 2002; Bertolini, 1994; Bertolini, Massa, 2003; Fosha et al, 2011, 2012).
Questioni di cura, questioni di apprendimenti
Questo implica che nei processi di educazione del paziente propri della prevenzione terziaria, per esempio, lo storytelling dei pazienti possa essere guidato a non esprimersi in narrazioni in forma di geremiadi contro la malattia o, al contrario, in forma di sue mitizzazioni. la narrazione trasformativa richiede che si stringa il senso della realtà a doppio filo col senso dei possibili (Formenti, 2017; XX). Ovvero: il paziente che ascolta e narra, come il medico che ascolta e narra, è in grado di dibattere con le proprie convinzioni, credenze, percezioni, imparando a misurarle, smisurarle, rimisurarle? Oppure ha idee perfette, teorie ossidate, che la narrazione conferma? (Cecchin, Apolloni, 2003).
Talvolta no: lo spazio narrativo rischia di strutturarsi come sfogatoio e dunque persino modus patogenico nel quale le narrazioni sono pratiche di ristagno, le parole si avvitano su sé stesse e per chi narra senza ascoltatore formato alla parola trasformativa (Bert, 2007, 2009, 2015), la malattia rischia una centralità che fagocita l’identità, un loop che non genera ristrutturazioni narrative (cfr. Frank, 2000a, 2000b). Lo stesso rischio può presentarsi nelle pratiche di narrazione nei processi di prevenzione primaria e secondaria, per cui è bene sottolineare che non ha poteri, né diagnostici né terapeutici, la narrazione in sé, e certamente non è salutare alimentare equivalenze secondo le quali la narrazione sia tout court formativa (Scardicchio, 2019). Ha invece potenzialità generative una pratica di MN che assuma la forma che, nel suo modello di spirale della conoscenza, Laura Formenti (2017) configura come esperienza autentica: non tutti gli incontri in cui ci sono scambi di informazioni, non tutte le reciproche comunicazioni, non tutte le narrazioni si configurano come esperienze autentiche. Lo diventano quando si passa dalla aspettativa dello scambio di parole-come-oggetti al modus della relazione, che non è l’emotivizzazione della comunicazione ma il saper riconoscere e attraversare l’evidenza per cui sempre, nelle cose umane, si scambiano non solo dati ma anche significati (gli esseri umani non sono creature computazionali, scrive Damasio, 1995).
Stiamo dunque discutendo di quel genere di apprendimento (non solo del paziente, ma anche del medico) che consente, attraverso la relazione di cura, di posizionare e riposizionare le proprie teorie, slatentizzare quelle implicite e muovere dal monologo interiore a quel dialogo interno che assume in letteratura neurobiologica la forma del mindsight (Siegel, 2001, 2010): quello sguardo complesso che genera ri-valutazioni sul sé e sul proprio sistema di significati che ineluttabilmente, la fragilità (in qualsiasi misura, anche quando lieve) chiama a ri-pensare, ri-significare.
Sono dunque generative le modalità narrative che abilitano alle riscritture delle proprie interiori sceneggiature (Formenti, 1998, 2017; Mortari, 1998, 2004; Scardicchio, 2019, 2023) che l’OMS configura con l’espressione life styles in ordine ai processi di salute e malattia (2013).
La questione ha dunque profondamente a che fare col tema della epistemologia del medico (cfr. De Mennato, 2012; Scardicchio, 2019; 2023; Striano, 2012; Zannini, 2003) da cui evidentemente discende la sua apertura, o chiusura, alla complessità propria della irriducibilità relazionale della sua professione, proprio come indicato da Cavicchi:
“si pensa che il medico non abbia problemi, sia già pronto, o che egli sia un “osservatore obiettivo”. Così il medico sembra una imperturbabile macchina diagnostica che non varia, senza emozioni, senza difficoltà, senza personalità, senza incertezze. Ma questo non è realistico. Il medico deve essere cosciente non solo dei suoi limiti personali ma anche dei limiti del suo apparato conoscitivo. Quando osserva deve fare attenzione non solo a cosa osserva ma anche a chi osserva, cioè deve fare attenzione a sé stesso” (2018, pag. 160).
Quella che Laura Formenti configura come esperienza autentica corrisponde dunque ad una postura epistemica e ad una modalità narrativa che saltano da una forma solo strumentale (bloccata nella idea di uno scambio inteso idraulicamente come tra emittente e ricevente) ad una trasformativa: sta nelle domande, nella ricerca, nella interdipendenza piuttosto che nella sovranità di una visione univoca (che sia del paziente che vuole avere solo ragione o, analogamente, del medico che pensa di avere la sola ragione), nel lancio piuttosto che nell’avvitamento. Sta nella sua costante messa in discussione: nella circolarità, nell’ecologia di un pensare/narrare e narrare/agire che interroga e si interroga (Formenti, 2017; Mortari, 1998): ha forma esplorativa (Bert, 2007, 2009, 2015; Bert, Quadrino, 2002).
Non è facile, non è automatica, non è familiare, poichè esiste per tutti – medici come pazienti - la tentazione/tendenza a stare dentro narrazioni con lo scopo, patogeno, opposto: togliersi domande, darsi ragione (Cecchin, Apolloni, 2003).
Certamente non è facile prendersi cura di autentiche ovvero spiazzanti relazioni/narrazioni (Formenti, 2017). Forse, controintutitivamente, la mossa epistemica necessaria è lasciar andare la centratura-sul-paziente, per andare verso la centratura-sulla-relazione:
“Parlare di visita centrata sul paziente ha due vistosi limiti: - l’idea di centro ripropone la separazione di qualcuno che conosce e di qualcosa che è conosciuto, quindi una “non relazione”, - l’idea di centro addirittura accentua lo suo status oggettivo del paziente che diventa di fatto un super-oggetto non una persona. Oggi mettere il paziente al centro della conoscenza medica, è in realtà una ovvietà, ed è sempre quello che la ragione medica ha fatto. Centralità e relazionalità tuttavia si contraddicono. La relazione per proprie caratteristiche è poco disponibile ad essere tradotta in centralità. Se proprio si deve mettere al centro qualcosa, questo qualcosa, è la relazione quindi tanto il malato che il medico.
Oggi l’idea di centralità è ancor più inadeguata se consideriamo relazione sinonimo di dialogo. Il dialogo è poco compatibile con la centratura perché essa è un modo di trasmettere delle informazioni da un soggetto all’ altro, sia che si domandi sia che si risponda. Se ci si attiene ai principi della “visita centrata su...” il dialogo può assumere solo la forma dell’intervista e l’intervista è un dialogo solo apparente dal momento che è un gioco di input/output.
Oggi la relazione di cura è sempre una relazione plurivalente perché riconnette tante altre relazioni. L’idea di centralità è al contrario, una “relazione a senso unico” che va sempre dal medico alla malattia.” (2018, pag. 170).
4. Dei significati, delle relazioni
Prevenire, diagnosticare, curare: tutte le azioni della medicina sono azioni di conoscenza. La questione della formazione relazionale del medico è, dunque, proprio come la sua formazione scientifica, questione epistemologica (Scardicchio, 2019). Come nella stessa analisi di Cavicchi:
“L’errore che fanno coloro che ci parlano di comunicazione, di informazione, di relazione con l’intento di invitare i medici ad essere più “umani” è quello di pensare la relazione indipendentemente dal modo di conoscere.
La forma della relazione dipende dal modo di conoscere e quindi non si può cambiare, come ci viene suggerito, la forma della relazione senza cambiare la forma della conoscenza.
La relazione non è riducibile a umanizzazione e amabilità, essa è un modo diverso di conoscere il malato è una circostanza nella quale i linguaggi del corpo e delle persone, quelli del malato e quelli del medico, si confrontano.” (2017, pp. 73-74)
Ed è in questa direzione che la MN si muove congiungendosi a doppio filo con le scienze della complessità (cfr. Bateson, 1976, 1984; 1997; Morin, 1993; Bocchi, Ceruti, 1988), riconoscendo la vicenda di cura non come pari alla transazione tra erogatore di un bene/servizio e il suo cliente, ma più corposamente come vicenda di mutuo apprendimento, ovvero: di mutua trasformazione.
Non mera trasmissione, dunque: bensì un corpo a corpo (espressione che non implica assolutamente la rinuncia alla ragione ma, sistemicamente, il riconoscimento del suo embodiment).
In tal senso la MN non può essere ridotta a lasciare, quantitativamente, più spazio alle parole dei pazienti e neppure, qualitativamente, alla capacità empatica del medico; in tal senso non avrebbe senso teorizzarla come metodo da affiancare alla EBM, altrimenti sì, starebbe nel rischio di essere intesa ed intendersi come corrispondente ad una pratica di comunicazione friendly, di contro a una spersonalizzante: ma non basta comunicare parlando piano e sorridendo perché la narrazione attivi le sue possibilità generative di sostegno tanto alla anamnesi quanto alla cura.
L’opzione narrativa, intesa scientificamente, implica l’includere/incarnare nelle cose della medicina le questioni proprie dello studio dei sistemi viventi complessi (Bocchi, Ceruti, 1988; Manghi, 2004): consapevolezza della crucialità dei contesti intesi come luoghi sia fisici che simbolici, coscienza ecologica dei processi di salute e malattia, così come dell’interdipendenza tra processi di relazione e processi di conoscenza (Bert, 2007, 2009; Bert, Quadrino, 2002): questioni dell’esistere, non soltanto del funzionare.
“Nel mondo degli esseri viventi non esistono cose,
ma solo relazioni.”
Gregory Bateson
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