disegno di Sara Seravalle
Si occupa di arte di ascoltare e gestione creativa dei conflitti. Fa parte del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN), che ha rilanciato la proposta dei Corpi Civili di Pace Europei, originariamente avanzata da Alex Langer
Sommario
L'etnografia come disciplina non specialistica a cavallo tra letteratura, scienza e senso comune, il suo ruolo nel superare il pensiero razionalistico e lineare della modernità e nell'instaurare una democrazia basata sul dialogo tra cittadini e tra saperi. Il contributo pionieristico di due dissidenti dell'antropologia: Gérard Althabe e Gregory Bateson.
Parole chiave
auto-correzione, deconcretizzazione, "pensiero soporifero", "concretezza mal riposta", "decolonizzazione conservatrice", "estremi legati", doppio legame, senso comune, ethos, premesse implicite, democrazia dei tre saperi.
Summary
Ethnography as a nonspecialized discipline straddling literature, science and common sense, its role in overcoming the rationalistic and linear thinking of modernity and in establishing a democracy based on dialogue among citizens and among knowledges. The pioneering contribution of two dissidents of anthropology: Gérard Althabe and Gregory Bateson.
Keywords
self-correction, deconcretization, "soporific thinking," "misplaced concreteness","conservative decolonization", "end-linkage", double bind, common sense, ethos, implicit premises, democracy of the three knowledges.
La mia scoperta dei tragitti convergenti di due dissidenti dell'antropologia
Gregory Bateson (1904-1980) e Gérard Althabe (1932-2004) non si conoscevano fra loro ed io ho scoperto i lavori del secondo solo recentemente. Nella ricerca che sto svolgendo a Nantes sulla nascita e consolidamento in questa città di quella che ho chiamato "la democrazia dei tre saperi" un articolo di Althabe e la ricerca etnografica da lui svolta in un quartiere di case popolari della città svolgono un ruolo cruciale sia come spiegazione inusuale del fallimento della sinistra nelle locali elezioni del 1983 che nell'orientare la discussione su come ripensare radicalmente la democrazia su basi etnografiche.
Nell'approfondire la conoscenza della sua vita e opere mi hanno costantemente colpito le convergenze con l'approccio e gli interessi di fondo di Bateson, nonostante le differenze di background sociale, culturale e anche intellettuale. I loro tragitti, così come io li vedo, conducono rispettivamente dall' etnografia alla ecologia della mente e dalla etnografia alla democrazia dei tre saperi, e il confronto fra le loro impostazioni aiuta a fissare l'attenzione sul fatto che l'una, la ecologia della mente, è alla base di una democrazia più matura e adatta ad un mondo complesso e a sua volta l'altra, una democrazia più matura, è una condizione perchè la ecologia della mente diventi senso comune. Le diverse circostanze che nel tempo mi hanno portato a scoprire i lavori di ciascuno di loro sono significative dei motivi per cui sento adesso l'esigenza di evidenziare gli aspetti che li accomunano. A Gregory Bateson sono arrivata nella seconda metà degli anni '70 sulla base di un giudizio sul fallimento politico del movimento del '68 che riassumevo nello slogan" abbiamo fallito per mancanza di umorismo". Essendo io stessa una studentessa impegnata in prima persona in quelle lotte, mi ero resa conto della nostra semplicistica ingenuità quando dallo sdegno per le ingiustizie nel mondo, ci eravamo trovati a dover impostare e gestire in modo alternativo i rapporti di potere e le conseguenti conflittualità. La distinzione del mondo fra buoni e cattivi, fra capitalisti e proletari, sfruttatori e sfruttati e il ritenere che bastasse schierarci dalla parte giusta risultavano in un riduzionismo che libri come I dannati della terra di Franz Fanon ci mettevano sotto il naso. Studiavo sociologia e specialmente Georg Simmel mi aveva fatto capire la dinamica che Bateson chiamerà "degli estremi legati" (Mead M., 1977), ovvero che la ribellione del servo al padrone, del sottomesso contro l'autoritario, del plaudente verso l'esibizionista, nonché dell'operaio al capitalista, è il modo in cui quella relazione si perpetua. Per uscirne è necessario che entrambi mettano in discussione non ciò che li oppone, ma ciò che li accomuna e che danno per scontato. L'umorismo mi sembrava una modalità di coinvolgimento e distacco in grado di farci uscire dal pensiero lineare, di predisporci ad accogliere i paradossi della comunicazione, e un libro sulla Pragmatica della comunicazione umana mi aveva condotto a Bateson come un autore che si era occupato di Il ruolo dell'umorismo nella comunicazione umana (Bateson G.,1953) e dell'input cognitivo delle emozioni (Bateson G., 1997/1991). Ovvero: Verso una ecologia della mente. Gérard Althabe l'ho scoperto perchè un suo articolo intitolato "La perte d'une ville"(Althabe G, 1983) ha proposto a una sinistra sotto shock per una sconfitta elettorale, una spiegazione totalmente divergente dalla retorica abituale sui motivi per cui i ceti popolari si erano astenuti o avevano votato a destra. La sua è una critica radicale della ideologia dominante relativa alla "condizione operaia" e una lettura alternativa sui problemi di convivenza nei quartieri di case popolari e sui modi di affrontarli per risolverli. In un certo senso così come Bateson sulla base di una ricerca etnografica fra gli Iatmul della Nuova Guinea (Bateson G, 1991/1958) proponeva ai suoi lettori e interlocutori di fare i conti con i rapporti fra comunicazione, potere, autorevolezza, conoscenza, Althabe, sulla base di una ricerca etnografica in una banlieue locale (Althabe G.,1993), aiuta la sinistra ad affrontare i conti in sospeso con l'ideologia comunista e col socialismo reale. Il pensiero come dialogo, la politica come dialogo.
L'etnografia come disciplina non specialistica in grado di evidenziare le aporie delle lotte sociali e dei movimenti di liberazione
Si potrebbe sostenere che quando Gregory Bateson a 27 anni, arriva in Nuova Guinea per la prima ricerca sul campo, la sua principale preoccupazione è di non tradire gli insegnamenti di Samuel Butler, autore molto apprezzato nella sua famiglia il quale sosteneva che "tutto ciò di più importante che ho imparato nella vita deriva dalla osservazione del modo di comunicare del mio gatto " e che la conoscenza scientifica che stava diventando il nuovo assetto di potere della società industriale e capitalista, "si limita ad analizzare ciò che è irrilevante e secondario. Non studia la cosa più importante: ciò che già sappiamo fare" (Butler S.,1919 e Lipset D., 1980 pp 8-9). Gregory è convinto che per imprimere nel campo della etnografia una svolta analoga a quella che suo padre è impegnato ad attuare in quello della biologia e genetica, l'osservatore deve far ricorso all'insieme della propria esperienza personale, per cui, per esempio le esibizioni dei maschi Iatmul coperti di piume e monili come segni del loro potere e autorevolezza gli ricordano le processioni dei docenti di Cambridge con indosso vistose parrucche e toghe, e l'atteggiamento di ammirazione delle donne Iatmul riecheggia il senso di supina deferenza che circonda il mondo accademico inglese. Il suo libro che esce in prima edizione nel 1936, viene accolto con imbarazzato silenzio e le scarse recensioni critiche presentano come indebite trasgressioni personalistiche gli aspetti di innovazione epistemologica. Non a caso, la seconda edizione del libro, che esce nel 1958, è dotata di un fondamentale epilogo dove tutti i concetti di fondo (circolarità, schismogenesi, il ruolo dei comportamenti paradossali e della caricatura nel sistema di controlli ed equilibri dinamici) vengono ripresi e riportati ad una epistemologia dei sistemi complessi aperti (cibernetica, teoria dei tipi logici). Si vede che Gregory nel frattempo ha studiato. Il modo in cui Gérard Althabe affronta i rapporti fra potere, autorevolezza, conoscenza e comunicazione, nella seconda metà degli anni '50 può sembrare più tradizionale e prefigurare le contestazioni sociali degli anni '60. Appena laureato in filosofia a Bordeaux nel 1956, egli aveva accettato l'invito a recarsi in Camerun per uno studio sui pigmei Baka, senza aver seguito nessun corso di antropologia, né aver letto un solo libro sull'argomento, e la sua preoccupazione dominante è quella di non essere percepito come "l'uomo bianco" che viene a catalogare e insegnare. E' acutamente consapevole che gli indigeni lo stavano osservando e studiando almeno quanto lui si predispone a fare nei loro riguardi e che l'esito della ricerca sarebbe stato diverso a seconda del tipo di rapporto e reciproche aspettative che fossero riusciti ad instaurare (Selim M. 2004). Considera i nativi non come "oggetto" di studio, ma come persone che hanno interesse quanto lui a riflettere sulle dinamiche di costruzione, riproduzione, riadattamento dei campi micro-sociali di cui sono parte (AAVV, 2005). Concepisce l'esito della ricerca come il risultato della intrusione dell'etnologo in un ambiente a lui estraneo e della sua capacità di farsi accogliere, nonostante i legittimi sospetti, come colui che essendo arrivato per imparare dai nativi, può dare, proprio in virtù della sua alterità, un contributo di ampliamento dello sguardo. Già dalla sua prima ricerca, dedicata ai movimenti di liberazione in Congo, pubblicata col titolo Les Fleurs du Congo. Une utopie du lumumbisme (Althabe G, 1972) è chiaro che egli ha ben presenti le aporie di questi movimenti e che il suo interesse si focalizza sul descriverle e promuovere la riflessione sulle stesse.
Conia a questo proposito il termine "deconcretizzazione" per indicare la tendenza a ragionare sui comportamenti umani come se fossero variabili astraibili dalle relazioni tra le persone, tendenza presente in modalità diverse sia nelle nostre società contabili che nei movimenti di lotta che vi si oppongono, per cui gli uni non riescono a correggere gli altri e le dinamiche che si instaurano sia fra i due poli che all'interno di ognuno di loro sono fondamentalmente del tipo che Bateson chiama schismogenesi, ovvero destinate a perpetuare il conflitto e condurlo verso l'escalation.
Altrettanto fondamentale il concetto di "decolonizzazione conservatrice" al centro della sua seconda ricerca, in Madagascar, anch'essa ignorata come Naven di Bateson dalla comunità scientifica, ma che, pubblicata nel 1969 col titolo Oppression et libération dans l'imaginaire, è stata accolta dalla giovane élite intellettuale e politica malgascia come uno specchio critico illuminante e utilizzata nelle scuole di formazione politica ed amministrativa locale. In estrema sintesi questa ricerca, a partire dalla analisi delle dinamiche sociali in un villaggio della costa orientale del Madagascar, descrive le modalità con le quali gli indigeni interpretano e cercano di far fronte al fenomeno per cui l'indipendenza dal colonialismo francese non ha portato vantaggi perchè la élite malgascia che si è instaurata è del tutto simile a quella precedente "tranne il colore della pelle". I giovani malgasci che desiderano portare a termine la liberazione dalla oppressione, devono fare i conti con questa pesante continuità. Il libro dedica molto spazio alla descrizione di un complesso rituale locale, il Tromba, che mette in scena un immaginario nel quale gli esponenti dei vari poteri esterni oppressivi che si sono storicamente succeduti, vengono in parte sfottuti, in parte ammansiti, per poi approdare alla riconquista del protagonismo del potere locale. I nessi con l'approccio e la concettualizzazione di Bateson sono molteplici, la "deconcretizzazione" fa venire in mente la "descrizione soporifera" nella introduzione a Verso una ecologia della mente (Bateson G, 1976,1972) e la "decolonizzazione conservatrice" il concetto di "doppio legame." La elaborazione di questi concetti è il risultato di una concezione della ricerca etnografica sul campo come la disciplina più appropriata allo studio delle dinamiche della vita quotidiana intesa come fenomeno sociale, totale e globale, non riducibile ad approcci specialistici. Prima di passare ad illustrare il contributo specifico di Althabe alla nascita della democrazia dei tre saperi nella città di Nantes nei primi anni '80, mi pare utile dedicare un paragrafo alle convergenze parallele nello stile di lavoro sul campo fra questi due autori.
L'etnografia come forma di conoscenza che arricchisce di riflessività e immaginazione il senso comune
Sintetizzo qui quattro aspetti, fra loro interdipendenti, che caratterizzano il modo col quale questi due autori sono venuti caratterizzando un approccio alla ricerca empirica originale e capovolto rispetto a quello dominante nelle scienze sociali e in antropologia.
Il primo e fondamentale assunto che condividono è che la comunicazione avviene fra soggetti che pensano e operano in base a principi di auto-correzione (che ne siano consapevoli o meno). Questo implica che il nativo non va assunto come "oggetto" della ricerca, ma nella sua qualità di attore co-costruttore del suo ambìente culturale e sociale. Assumere che ogni essere umano (per Bateson ogni essere vivente) possiede indipendentemente dall'uso che ne fa, queste capacità, implica che analizzare un contesto culturale coincide col mettersi in grado di risalire dalla osservazione della circolarità delle comunicazioni contingenti (le reazioni alle reazioni alle reazioni, il come vengono affrontate e gestite le situazioni critiche) alla individuazione delle opzioni di autocorrezione previste e consentite dal più ampio sistema culturale e sociale e nel verificare se, come e quando, tali archi di possibilità (tali premesse implicite) possono a loro volta diventare soggette a modifica. Si tratta di un approccio completamente diverso da quello funzionalista e pragmatico che si limita a dimostrare che gli usi e costumi che a noi sembrano strani, hanno un loro senso e una loro precisa utilità nell'ambito della cultura di cui sono parte. Un secondo assunto condiviso, è che, con le parole di Gregory Bateson: "il retroterra emotivo è una causa attiva della cultura, e uno studio funzionale non sarebbe mai abbastanza completo se non collegasse la struttura e il funzionamento pragmatico della cultura al suo tono emotivo, al suo ethos" (Bateson G., 1991, pag 8). Le dimensioni non verbali della comunicazione, posture, prossemica, gioco delle emozioni, hanno un ruolo sovraordinato decisivo nella costruzione dei significati: le parole hanno un senso anche opposto a seconda del tono con il quale vengono espresse. Nella misura in cui le premesse implicite, ovvero le cornici di significato e gli archi di possibilità definiti come "normali" e "ovvi" sono costituiti interattivamente, circolarmente e analogicamente e non per via analitica, l'analisi scientifica di una cultura non può fare a meno di prendere le mosse dalla buona descrizione impressionistica tipica dell'approccio dei grandi artisti e scrittori di letteratura. Ma mentre "l'artista è pago di descrivere la cultura in modo che la maggior parte delle premesse su cui si regge e dei collegamenti fra le parti che la compongono siano impliciti nella sua opera" (Bateson G., 1991, pag. 7), per lo scienziato sociale la esplicitazione di queste dimensioni è il tema centrale e caratterizzante. Quindi entrambi affermano, in anni in cui ancora vige la retorica delle "due culture", che le tecniche della osservazione artistica e quelle scientifiche non sono contrapposte, ma complementari. Un terzo assunto condiviso riguarda la priorità dello statuto del senso comune nella diagnosi dei fenomeni sociali. Non solo gli archi dei mondi possibili sono stabiliti analogicamente, ma la comunicazione analogica, essendo prodotta e trasmessa dai corpi situati, è sempre relativa alla messa in scena di significati contingenti in situazioni specifiche e concrete. Il sapere dominante, analitico e lineare, nella misura in cui procede per astrazione di alcune variabili dalla complessità del reale, e pretende di imporre ordine e controllo sulla base di queste catalogazioni semplificatrici, è necessariamente un fattore di squilibrio. Entrambi questi autori (debitori l'uno al padre pioniere degli studi della genetica e a Samuel Butler e l'altro a Montaigne e alla etnometodologia di Harold Garfinkel), sono già in partenza convinti del detto: "l'astrazione produce potere, ma non genera orientamento, solo tornando al concreto e alla sua unicità si riesce a cogliere la complessità del mondo vivente".
Per entrambi vale la impostazione di Norman Whitehead nel suo libro Processo e Realtà, secondo la quale qualsiasi conoscenza che prescinde dalla esperienza è una forma di "concretezza mal riposta" e il compito della ricerca è rimettere al centro l'autorevolezza del senso comune contro il tentativo di manipolazione dei saperi specialistici, aiutando il senso comune a riappropriarsi della immaginazione, e di conseguenza, aiutando gli stessi saperi specialistici a fare altrettanto (Whitehead N., 2019, pag. 185). Quarto assunto comune: l'antropologo usa la full immersion in una cultura altra fondamentalmente per capire meglio la propria e su queste basi avanzare congetture su quella studiata. Come si vede bene sia nella stesura di Naven di Bateson che nel libro Oppression et libération dans l'imaginaire di Althabe, l'antropologo, osservando i nativi, riesce a mettere meglio a fuoco e a prendere le distanze da comportamenti e modi di pensare dati per scontati nella propria cultura di origine (sia nel senso comune che nella impostazione scientifica) e questo sovrappiù di consapevolezza gli permette di produrre descrizioni di ciò che osserva inedite rispetto ad entrambi i background culturali. Lo spiazzamento, le attese disattese, i continui ripensamenti, la attenzione per le dinamiche interattive nelle situazioni di crisi, di disagio e conflittuali, sia personali che fra i nativi, sono la strumentazione fondamentale della loro cassetta degli attrezzi. Quindi l'ideale è che l'esito della ricerca funzioni da specchio per tutte le culture messe in gioco. E anche qui lo scopo della ricerca etnografica e di quella artistica finiscono per parallelamente coincidere: si tratta di aiutare tutti gli interlocutori a vedere con occhi nuovi realtà che l'abitudine ha reso opache e contribuire a creare un mondo in cui ogni soggetto consideri normale l'auto-consapevolezza emozionale e l'ascolto attivo e il diritto ad esercitare la moltiplicazione delle opzioni prima di definire i propri bisogni e desideri e di prendere delle decisioni individuali e/o collettive. Salta la separazione non solo fra approccio artistico e scientifico, ma anche e ancor prima, fra questi due e il senso comune basato sull'esperienza immediata della vita quotidiana.
Le sfide della convivenza e l'immaginario dell'"attore ideologico collocato al polo negativo"
La ricerca di Althabe ha come punto di partenza due constatazioni. La prima è che i quartieri di case popolari del secondo dopoguerra, essendo caratterizzati da un alto grado di desolazione e degrado degli spazi di coabitazione, vengono unanimemente descritti come privi di una vera e propria vita sociale. La seconda è il sostanziale fallimento dei diversi tentativi di costruire spazi di incontro e di iniziativa sociale in grado di coinvolgere un numero consistente di residenti. Gli animatori ed educatori che Althabe fin dall'inizio ha intervistato e con i quali ha stabilito uno stretto rapporto di collaborazione, esprimono la loro frustrazione per l'incapacità di andare al di là del piccolo gruppo di attivisti che frequentano il comitato di quartiere e di un ridotto nucleo di adolescenti di cui si prendono cura. Contro questa generale impostazione la tesi sulla quale lavora Althabe è stentorea: "L'immagine di un spazio di coabitazione vuoto di socialità, l'immagine di una popolazione ripiegata in cellule famigliari trasformate in fortezze contro il vuoto, è sbagliata"(Althabe G.,1993). La sua ricerca dimostra che gli spazi di coabitazione studiati (giro scale, cortili, strade) sono caratterizzati da una tensione permanente che si esprime in un costante e veemente controllo reciproco. E che il modo di comunicazione avversariale di questo controllo reciproco, che si riverbera anche nei rapporti fra coniugi e fra genitori e figli, non viene intaccato, ma addirittura avvalorato dagli spazi e iniziative di socialità proposti dagli operatori sociali. In estrema sintesi la ricerca di Althabe ricostruisce l'epopea in cui si sono trovate coinvolte le famiglie da lui studiate: il trasferimento in una casa popolare è stato vissuto come una conquista epocale, un salto di qualità della vita al tempo stesso prezioso e precario. Prezioso, perché quasi tutte in precedenza, spesso dall'immediato dopoguerra, si erano trovate ad abitare in monolocali di emergenza e baracche insalubri e la nuova abitazione con l'elettricità, il riscaldamento centrale, l'acqua corrente, la sala da pranzo separata dalla cucina, permette a molti di pensare al proprio corpo come degno di accudimento invece che solo come un mezzo per guadagnarsi il pane. Precario perché la situazione economica è instabile e quando arriva la lettera di licenziamento, sopravviene un senso di catastrofe tanto più profondo quanto più il diritto a un certo livello di conforto si dava ormai per acquisito. Non di rado si finge di continuare ad andare al lavoro, si nasconde la notizia come se fosse una colpa. Il trasloco nel nuovo contesto era accompagnato dalla sensazione che bisognava mostrarsi all'altezza di questa promozione, con l'acquisto dei tipici elettrodomestici e mobili necessari per attrezzare l'aumento della superficie; ci sono più comodità, ma anche più costi e più spese e bisogna arrivare a fine mese. Ogni volta che qualcosa va storto, riaffiora lo spettro della dipendenza dalla assistenza sociale, del trasferimento forzato nel "palazzone dei poveri". A questo punto le persone intervistate da Althabe rievocano un passato costruito nostalgicamente come contesto d'intensa convivialità, dove qualsiasi adulto poteva occuparsi dei bambini e a nessuno veniva in mente di ricorrere ad autorità esterne per far valere le regole della convivenza, e al tempo stesso confessano il sogno della casa di proprietà, il porto d'approdo che cancellerà definitivamente lo stigma della precarietà e le tensioni della coabitazione. Sacrifici e autocontrollo sono il faticoso imperativo al quale l'intera famiglia deve sottostare e ogni sgarro, ogni inevitabile debolezza di un suo membro urta la suscettibillità di tutti gli altri. In questo copione, vanno aggiunti - sostiene Althabe - due altri personaggi fondamentali: le autorità esterne e quello che lui definisce l'"attore ideologico collocato al polo negativo." Le accuse di non aver cura dei figli e le denunce relative a schiamazzi, atti di vandalismo, furti e così via, hanno sempre come implicazione implicita o esplicita la minaccia di un ricorso alle forze dell'ordine e/o alle altre autorità esterne. Si ricorre agli agenti esterni quando ci si sente esasperati e impotenti e il loro intervento ha un doppio significato: da un lato è un rimedio in una situazione di emergenza, dall'altro è la spettacolarizzazione di una disgrazia, di un fallimento parentale e familiare. Tutti questi interventi, sono vissuti al tempo stesso come un avvenimento e un avvertimento, eventi da raccontare e commentare ripetutamente anche in funzione esorcistica: cose da cui tenersi lontani, cose che succedono a loro e che non devono succedere a noi. E' sulla base di queste dinamiche che si costituisce quello che Althabe chiama "l'attore ideologico collocato al polo negativo."
Nel distretto di Bellevue, località della ricerca, il numero di agenti esterni è particolarmente elevato, con una forte prevalenza di coloro che si occupano di assistenza - repressione rispetto a coloro che hanno il compito di promuovere la vita di quartiere. Il primo tipo di intervento si esercita soprattutto su un piccolo numero di famiglie quasi tutte collocate negli edifici occupati da coloro che sono in uno stato di riconosciuto bisogno e povertà. Per gli abitanti dei caseggiati ad affitto moderato è una situazione che si vorrebbe dimenticare, considerare "altra" da sè, ma che invece prende corpo nelle ansie dei genitori nei confronti degli adolescenti che sfuggono al loro controllo e si avvicinano alla delinquenza, nel timore di ritrovarsi disoccupati, in balia di qualche boss e del "lavoro in nero", nelle crisi personali di depressione di uno dei coniugi, nel sentirsi privi di appigli e alternative. Nel cercare di fare chiarezza e di mantenere il controllo, le intervistate e gli intervistati si aggrappano ad un immaginario organizzato secondo due poli, uno positivo che corrisponde alle norme ideali della buona convivenza, di cui desiderano che il loro autorevole interlocutore (l'etnografo-giudice saggio) li consideri alfieri e l'altro negativo che corrisponde al crollo di queste norme, alla loro disfatta che si materializza nelle vite delle famiglie assistite. L'"attore ideologico negativo" è la figura immaginaria abitata da tutti coloro, nativi o emigrati, la cui vita dipende dall'intervento degli agenti esterni e verso la quale vengono respinti tutti coloro che si allontanano dal quadro normativo positivo, con ciò diventando fattori di destabilizzazione sociale e obbligando tutti gli altri a distinguersi e a proclamare la propria differenza. Gli agenti esterni sono percepiti come coloro che si guadagnano la vita grazie a questa condizione di dipendenza e di impotenza e il loro intervento è il segnale che l'attore situato al polo negativo è all'opera e che un nefasto destino è sempre pronto a bussare alla porta. E qui arriviamo al secondo tipo di agenti esterni, coloro che avrebbero il compito di occuparsi non di assistenza e repressione, ma di attivare la vita sociale del quartiere. E agli scarsi risultati dei loro sforzi intesi ad offrire gli anticorpi proprio contro quel destino.
Perché la socialità promossa dalla sinistra ideologica e dall'autorità pubblica è votata al fallimento
Quello che succede - spiega Althabe ai suoi amici operatori di strada e animatori - è che anche loro, che hanno l'obiettivo di offrire alla intera popolazione occasioni di ampliamento di protagonismo, sono visti attraverso questa stessa lente. Ogni loro proposta, come per esempio la costituzione di una Casa di Quartiere o la creazione di gruppi di auto-organizzazione dei disoccupati viene percepita come un invito a mettersi in piazza in quanto bisognosi di aiuto e quindi potenziali membri del polo negativo. Riporto qui un esempio particolarmente chiaro. Nella prima metà degli anni '70, una quindicina di attivisti sindacali (CFDT) hanno creato, nel Centro Sociale Locale, un servizio settimanale di accoglienza per i disoccupati, con l'intenzione di fornire informazioni sul lavoro e rompere il loro isolamento. Hanno sostenuto questa iniziativa con un'intensa campagna di propaganda, con manifesti, volantini e articoli su riviste. Il fallimento è stato spettacolare: quasi nessun disoccupato si è presentato in ufficio o ha partecipato agli incontri. La radice di questo fallimento - sostiene Althabe - risiede nella posizione dei disoccupati nello spazio di convivenza locale. Le donne non si recano in un centro per l'impiego come questo, nella misura in cui la disoccupazione femminile è vista come una normalità e la loro ufficiale ricerca di lavoro sarebbe vista come un atto di umiliazione del capofamiglia. Un uomo che frequentasse il centro proclamerebbe la sua "disgrazia di disoccupato" alla luce del sole, col rischio di venire visto come candidato con tutta la sua famiglia al polo negativo. Mentre gli operatori sociali erano convinti di creare delle possibilità di passaggio, per usare la terminologia di Althabe, dal polo dell'attore ideologico negativo a quello positivo, per gli abitanti degli edifici ad affitto moderato era esattamente il contrario.
Lo slogan dell'"immaginazione al potere": "immaginazione", di chi?
Lo slogan della "immaginazione al potere" era ancora nell'aria, ma Althabe mette gli attivisti sociali di fronte al dubbio che la "immaginazione al potere" di cui parlano non sia quella dei loro interlocutori. I radicali ripensamenti che la sua analisi induce nel modo di pensare e di agire di coloro che vorrebbero considerarsi "agenti del cambiamento", sono sintetizzabili in cinque punti. Primo: fino a quel momento erano stati convinti che per mobilitare la gente fosse sufficiente denunciare i problemi comuni e fare appello alla volontà di cambiamento e di protagonismo. Secondo: gli scarsi risultati venivano addebitati ad una generica mancanza di "coscienza di classe", tipica spiegazione che esime dal mettersi per davvero in ascolto. Terzo: l'ascolto praticato era giudicante e non esplorativo (="attivo"). L'ascolto attivo è una dinamica relazionale conduttrice, attraverso la prossemica e la comunicazione non verbale, del messaggio "sei una persona importante per me", dove "persona" sta per "nella tua unicità e storia personale" che comprende ma trascende l'essere operaio, disoccupato, moglie, casalinga, e così via. Il protagonismo e la creatività sono comportamenti che attengono alle persone e non ai ruoli. Quarto: è nei rapporti fra "persone" che si creano spazi, nascono iniziative in grado di valorizzare la volontà di protagonismo delle donne e quella di non essere sotto padrone degli uomini. Diverse osservazioni di Althabe convergono nel sottolineare che i salariati di una stessa ditta una volta tornati a casa, anche se abitano nello stesso edificio, nello stesso giro scale, preferiscono evitarsi, dimenticare la giornata di vendita della propria forza lavoro e caso mai dedicarsi con degli amici a lavoretti artigianali, sotto la scritta "qui non ci sono padroni". E' su questa volontà di indipendenza, riflessa anche nel sogno della casa di proprietà, sulla insofferenza per le procedure burocratiche e sul rifiuto di un assistenzialismo giudicato umiliante, che bisognerebbe fare leva per la rivitalizzazione del quartiere. Quinto: E' assente, nel lavoro di comunità degli operatori sociali, la dimensione della "democrazia incompiuta". Uno dei motivi per cui l'ingranaggio burocratico pur considerato insensato, coercitivo e violento, invece di venire squalificato, continua ad essere onorato come autorevole, è che la sinistra rimane succube di una lettura economicistica della lotta di classe. Ciò che gli abitanti vedono sono i funzionari dell'OP col loro bagaglio di regolamenti e gli agenti della previdenza e della repressione, il Comune come tale non c'è e di conseguenza non esistono loro come cittadini. Nelle discussioni che si sviluppano nel quartiere di Bellevue è spesso nominato Étienne de La Boétie, il cui Discorso della servitù volontaria è uno dei testi che Althabe tiene sul comodino. Alcuni degli intervistati spiegano ad Althabe che a loro pare contraddittoria la pretesa di presentare il Centro Sociale come al tempo stesso uno spazio in cui vigono rapporti egualitari e in cui si dà importanza alla posizione sul luogo di lavoro. Notano che i rapporti egualitari si creano unicamente in contesti che non hanno niente a che fare con i luoghi del lavoro dipendente. Particolarmente interessanti al riguardo sono le considerazioni di un tal Joseph Cartry: "Non è complicato, basta guardare a una vacanza. Ti ritrovi con persone di estrazione diversa e, dopo quattro o cinque giorni, tutti si conoscono: non importa da quale ambiente provieni e tutti vanno d'accordo tra loro; questo perché è una vacanza, non dura... giochi a bocce o a carte con le persone; non ti importa se è un ingegnere, un dottore, un dentista o un insegnante di qualcosa e se l'altro è un manovale o uno spazzino; siamo tutti equiparati, tutto qui. Invece quando sei in pista tutto l'anno, allora c'è la differenza di classe" (Althabe G., 1993, pag. 47). Concludendo: spazi di coabitazione degradati non vuol dire vuoti. Negli spazi di coabitazione dei "nuovi quartieri" degli anni '50 e '60 vigono modalità di comunicazione molto intense e complesse che vanno decifrate perchè contengono al loro interno sia i motivi delle resistenze al cambiamento che i desideri di ribellione che potrebbero promuoverlo. Per confrontare le diverse immaginazioni, bisognava prima di tutto smettere di "de-concretizzare" gli interlocutori e considerare gli abitanti persone a 360 gradi. L'amministrazione cittadina opera per stereotipi, ad ogni risultato deludente reagisce moltiplicando gli interventi, le procedure, le competenze specialistiche, ogni volta dovendo riconoscere che non viene prodotto alcun cambiamento rilevante, che tutti i problemi più gravi rimangono gli stessi o addirittura peggiorano.
Il gioco dei tre saperi nella democrazia deliberativa
A Nantes, nei sei anni alla opposizione (1983-1989) incomincia ad essere praticata una prospettiva in grado di trasformare radicalmente le idee sul ruolo e le responsabilità degli eletti e i loro rapporti con la società civile. La nuova prospettiva disegna il seguente triangolo: il "sapere d'uso" degli abitanti, ovvero l'esperienza di come funziona il mondo nella vita quotidiana, è altrettanto importante per una buona amministrazione del "sapere tecnico" degli uffici e dei professionisti e delle "capacità e responsabilità decisionali" dei politici. In una società complessa le diagnosi e le decisioni per funzionare hanno bisogno di appoggiarsi al dialogo fra i tre saperi. Questo richiede una radicale uscita dalle cornici tipiche della modernità, dominate dalle astrazioni del pensiero giuridico ed economicistico e l'adozione di un approccio fondamentalmente etnografico. E' abbastanza chiaro ai nuovi dirigenti eletti nel 1989 che i tre saperi in dialogo sono completamente diversi dai tre saperi separati. Vediamo i cambiamenti necessari per ognuno. Nel quadro della democrazia dei tre saperi, i politici eletti e i membri dei partiti invece di arrogarsi il potere decisionale e ostacolare il protagonismo della società civile, riconoscono che nei casi più complessi è necessario fare ricorso al contributo dei cittadini riuniti in contesti dialogici. A Nantes questa diversa connotazione della "rappresentanza politica" è diventata un pilastro del mandato elettorale e quindi dell'intera impalcatura della governance locale, precisamente nel 2010 a livello della città di Nantes e nel 2021 a livello dei 24 comuni dell'area metropolitana. Parimenti, l'incontro dei cittadini fra loro, non è la solita assemblea basata sul confronto di opinioni. I cittadini sono invitati a incontrarsi in contesti plurali, in cui tutti i punti di vista devono essere presenti, per scambiarsi le reciproche esperienze (altra cosa dalle opinioni) relativamente al tema in questione. Dopo la fase del reciproco ascolto attivo, il dialogo si sviluppa, con l'aiuto degli esperti del settore, nella esplorazione collettiva delle buone pratiche come stimoli alla moltiplicazione delle opzioni e premessa alla elaborazione congiunta di proposte e idee progettuali di mutuo gradimento. L'apprezzamento delle particolari esperienze nella loro singolarità, lungi dall'essere una concessione a un "sapere minore", è la presa d'atto che la concretezza dei casi singoli è una caratteristica fondamentale dei sistemi complessi. Nella governance della complessità il passaggio al "che fare" avviene non per astrazione dai casi particolari, ma attraverso il ricorso ad altri casi analoghi giudicati illuminanti, che aprono le menti. Questi tratti tipici del dialogo deliberativo sono ugualmente destinati a mettere in crisi i professionisti e amministratori, il cui contributo si rivela veramente utile solo nella misura in cui sono disposti ogni volta, in ogni nuovo caso, ad imparare dalle particolari osservazioni e informazioni di cui gli abitanti sono i portatori. In altre parole devono passare da una concezione esclusiva della expertise ad una inclusiva, da una valutazione delle opzioni astratta dai contesti, a una SWOT analysis contestualizzata ed elaborata con approccio polifonico. Dunque tutti i protagonisti sono invitati a mettere in discussione abitudini profondamente radicate, il che richiede una notevole dose di auto-consapevolezza emozionale e di riflessione su come i contesti e le dinamiche istituzionali orientano il pensiero e il carattere. Come caso esemplare si può ricordare un laboratorio di sei intere giornate tenutosi nel 2010 in cui un gruppo di abitanti dei quartieri popolari ha potuto esplicitare e mettere in scena cosa toglie loro la voce nel modo di funzionare dei servizi e della vita politica. Ne sono risultate una ventina di proposte di cambiamento, poi in buona parte messe in atto. La figura professionale del facilitatore, diventa qui indispensabile come competente traghettatore e accompagnatore delle dinamiche gruppali dai sistemi semplici a quelli complessi. Si tratta di una figura di tipo nuovo, che ha ben poco a che fare con l'esperto in giochi di società e distributore di post-it da attaccare al muro. Il facilitatore di processi deliberativi deve aiutare i partecipanti a interpretare il disagio e disorientamento come punti di partenza per riflettere sugli stili conoscitivi e sui sistemi di potere dati per scontati. Ogni essere umano è in potenza un esploratore di mondi possibili, certamente lo è stato dalla nascita fino a una certa età, e la deliberazione in forma di una serie di incontri basati sul dialogo offre la possibilità di condividere una dimensione pubblica basata su una gamma emozionale che al posto della dominante ostilità difensiva-offensiva, dà spazio alla curiosità, la meraviglia, l'ironia e l'umorismo, nonché alle virtù teologali: fede, speranza e carità, senza le quali non c'è capacità di visione, di ideazione, di gestione creativa dei conflitti. Perché le facilitatrici e i facilitatori riescano a validare questa conversione, devono viverla loro stessi. Qualsiasi gestione puramente "tecnica" di un processo del genere è fallimentare.
Siamo nel bel mezzo di un salto di paradigma. Sarà bene capire in cosa consiste
La tenuta dell'approccio deliberativo a Nantes negli anni è strettamente collegata all'essere riusciti a mettere in primo piano la riflessione sui rapporti fra tutte queste dimensioni, organizzativa, cognitiva ed emozionale, assenti dal normale dibattito politico. Più precisamente sia nei discorsi che nei testi di rendicontazione sulle pratiche in atto, è presente la riflessione sugli assunti impliciti nel "vecchio sistema" e sui nuovi modi di concepire la società e il potere. Ogni processo deliberativo importante varato è presentato esplicitamente come una fattispecie del nuovo paradigma che corrisponde a una diversa concezione della società, della diversità e della deliberazione. La "società": da sommatoria di individui a una pluralità di persone in relazione. La "diversità": da complicazione da risolvere in termini di schieramenti, a dimensione del mutuo apprendimento e del dialogo. La "deliberazione": da problem solving a problem setting, dal consenso alla innovazione, grazie al ricorso ai tre saperi. E' per questi motivi che Nantes è stata riconosciuta Capitale Europea della innovazione nel 2019. Eppure al tempo stesso continua ad essere percepita come "una eccezione", il che significa due cose: che i contesti più vasti in cui si trova collocata, a livello nazionale, europeo, mondiale, nonostante le aporie sempre più numerose, rimangono sostanzialmente ancorati al tipo di concezione del potere e di governance che andava bene nel XIXmo secolo; e che la stessa "anomala normalità" di Nantes è in pericolo, perché questi cambiamenti operano per sistemi aperti, e se non si espandono, se il metodo del dialogo non coinvolge le altre sfere, il ritorno ai vecchi modi di operare e di vedere è sempre in agguato. Nella mia ricerca i segni di una certa stanchezza, di un ritorno acritico alle antiche routine sono stati numerosi. Nello studio sulla nascita della società moderna dalle viscere del potere feudale, spesso si dimentica che alla base della configurazione dello stato moderno con la sue gerarchie burocratiche e le sue catene di montaggio c'è la onnipresente riaffermazione e riproposizione di uno stesso modulo, di uno stesso frattale, che è l'ascolto giudicante. Lo vediamo all'opera in modo eclatante nel sistema giudiziario, con il triangolo difesa, accusa, giudice, lo vediamo nelle assemblee pubbliche basate sul diritto di parola e sul contradditorio che si risolvono nel voto a maggioranza, lo vediamo nella concezione del sapere inteso come urgenza classificatoria e nelle dinamiche educative dove all'allievo si chiede non di diventare un esploratore di mondi possibili, ma un buon ripetitore delle lezioni impartite. In altre parole ogni complesso sistema di convivenza e di governance per tenersi assieme ha bisogno di appoggiarsi a una implicita "metodologia", a un modulo relativo alle dinamiche della autorità, dell'identità e del potere che si ripresenta a tutti i livelli, settori e sotto-settori del sistema. La battaglia perchè l'ascolto attivo diventi il nuovo frattale sostitutivo di quello vecchio, non può essere lasciata a dinamiche spontanee, richiede una grande concertazione di iniziative. La sfida è fare in modo che l'ascolto attivo diventi normale e normativo quanto l'ascolto giudicante lo è stato nella strutturazione della società moderna. Con un vantaggio, che mentre l'ascolto attivo prevede come sotto-categoria adatta ai casi più semplici l'ascolto giudicante, quest'ultimo nega e proibisce l'esistenza del primo.
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