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Riflessioni Sistemiche n° 31


Bellezza

Epifania della bellezza e incontro psicoterapeutico

Villa Biener Arte Contemporanea, Cipressa (IM)

Marco Bianciardi

Psicologo clinico e didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, ha pubblicato numerosi articoli sull'epistemologia della clinica sistemica, e i testi "La natura sistemica dell'uomo. Attualità del pensiero di Gregory Bateson" (con Paolo Bertrando, ed. Cortina), "Psicoterapia come Etica" (con Felipe Galvez, ed. Antigone), "Ricorsività in Psicoterapia" (con Umberta Telfener, ed. Bollati Boringheri).

Elena Patris

Psicologa, psicoterapeuta, assistente didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Al lavoro clinico affianca quello con i gruppi attraverso formazioni, supervisioni e laboratori di scrittura autobiografica.

Scarica l'articolo completo in formato PDF

Sommario

Partendo da una radicale messa in discussione dell’idea di patologia, proponiamo una psicoterapia intesa come cura dell’incontro attraverso un atteggiamento di curiosità, di rispetto, di riconoscenza, di responsabilità etica. L’incontro potrà allora donarci la bellezza di una piena reciprocità della relazione, “la gioia di far parte di qualcosa di assai più grande”, come suggerisce Gregory Bateson.

Parole chiave

Bellezza, Patologie dell’epistemologia, Curiosità, Rispetto, Gratitudine, Responsabilità, Incontro.

Summary

We start from a radical questioning of the idea of pathology and we suggest a psychotherapy as a care of the meeting through attitudes of curiosity, respect, gratitude, ethical responsibility. The meeting can give us the beauty of a full reciprocity in relationships, “the joy of being part of something much greater“, as Gregory Bateson suggests.

Keywords

Beauty, Pathologies of epistemology, Curiosity, Respect, Gratefulness, Responsibility, Meeting.

  


“Ma cos’è mai la bellezza? È la Terra con le sue infinite, diverse creature; è questo Pianeta, l’unico che abbiamo, con la sua storia coevolutiva di 4500 milioni di anni; è la natura che ci ha insegnato, dai tempi remoti della fotosintesi e della nostra bisnonna ‘alga azzurra’, a vivere in armonia con la complessità dei suoi cicli, delle sue strutture, dei suoi ritmi.”

Enzo Tiezzi

 

“Non importa se a volte non capisci.

Segui il ritmo.”

Maria Lai

 

  

Parlare di incontro terapeutico e bellezza è certamente compito arduo e denso di insidie. È un tema a cui sentiamo di doverci accostare con estrema cautela, rinunciando fin da subito a dare per scontato come intendiamo – e come possiamo intendere – sia il dialogo terapeutico che la bellezza.

Come è facile intuire, ciò che ci pone maggiori difficoltà è definire il concetto di ’bellezza’. Ma, ancor prima di riflettere sul concetto di bellezza, e lasciandolo quindi indefinito e, per così dire, aperto, l’accostamento stesso dei due concetti si è rivelato fin da subito fecondo, inducendoci a pensare, in modo del tutto intuitivo, che vi sono modi di intendere la psicoterapia che escludono, di per sé, la possibilità stessa di parlare di bellezza e/in psicoterapia. Come se la ‘bellezza’, qualunque cosa intendiamo con questo termine, o comunque la definiamo, retroagisca fin da subito sulla ‘psicoterapia’ e su come la pensiamo, la proponiamo, la mettiamo in pratica; e ci costringa quindi a discutere in modo critico cosa intendiamo per ‘psicoterapia’. Riusciamo quindi ad approcciarci al tema solo a partire da una radicale messa in discussione di ciò che intendiamo per psicoterapia. E lo faremo impegnandoci ad una rigorosa coerenza all’epistemologia ecologica batesoniana.

  

Psicoterapia e patologie dell’epistemologia

 

Se ci interroghiamo sul perché di questa convinzione intuitiva (vi sono modi di intendere la psicoterapia che escludono l’accostamento alla bellezza), una prima risposta riguarda l’idea stessa di ‘patologia’.

Ricordiamo, sia pure in estrema sintesi, che l’avventura intellettuale di Gregory Bateson – costantemente, testardamente diremmo, alla ricerca della forma delle relazioni, ovvero dei patterns di quella trama che tutto connette in modo circuitale e ricorsivo – lo ha condotto a concepire la mente come ecologica: i processi mentali, che caratterizzano l’evoluzione della vita, emergono da una fitta trama di relazioni ove tutto è connesso. Per questo, se ci occupiamo dei ‘fatti della vita’, ci occupiamo di relazioni e di circuiti di relazioni, non di singoli enti, organismi, individui.

Ebbene: all’interno di tale ricerca, una delle rivoluzioni concettuali più profonde che Gregory Bateson ha proposto riguarda proprio il concetto di ‘patologia’. Bateson, infatti, ha usato in più occasioni questo concetto, ma lo ha fatto parlando di patologie dell’epistemologia (1972, p. 521). Per Bateson, ciò che può rivelarsi patologico è la visione del mondo che guida a nostra insaputa l’ordinare e il dare significato alla nostra esperienza; non è quindi il singolo individuo, la singola coppia, la singola famiglia ciò che egli considera potenzialmente patologico, bensì un approccio alla comprensione della vita e dell’evoluzione che scinda e separi l’individuo, la coppia, la famiglia dalla trama delle relazioni di cui sono parti e partecipi.

Si tratta di un rovesciamento radicale, quasi provocatorio, delle nostre certezze e dei nostri presupposti. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che spiazza e fa venire le vertigini: la patologia non è da cercarsi in ciò che conosciamo e osserviamo, bensì nel nostro sguardo – in come conosciamo e osserviamo. E il come si rivela patologico precisamente quando divide e separa: quando è cieco alle relazioni e scinde le parti o gli elementi tra loro in relazione.

La nostra epistemologia è da intendersi come proprietà emergente dal nodo che lega, in modo reciproco e ricorsivo, ciascuno di noi alle relazioni primarie, e ai contesti di vita, e alla nostra lingua madre, e alla cultura e all’ethos del secolo che abitiamo. Se tale modo opera scindendo e dividendo, si discosta da come operano l’ecologia della vita e la processualità dell’evoluzione: in tal senso è da considerarsi ‘patologico’.

Questa prospettiva mette in discussione come pensiamo la patologia e la terapia coerentemente alla cultura occidentale dominante: patologia di un organo o di un organismo o di un individuo, da affrontare con una terapia finalizzata a intervenire su, e modificare, il singolo organo, organismo, individuo.

Come potrebbe, d’altra parte, essere accostato alla bellezza un incontro terapeutico che dà per scontato un approcciarsi all’altro mettendo l’accento su un giudizio patologizzante?

 

Guarire dall’idea di guarire

 

Secondo Bateson, quindi, dobbiamo ‘guarire’ dall’idea di poter guarire singole parti, o elementi, del vivente; perché ciò che dobbiamo considerare patologico è proprio il separare, il considerare in modo avulso, e l’illudersi che sia possibile la cura di singole parti del sistema più ampio grazie ad un intervento diretto e finalizzato.

Le persone arrivano in terapia con i loro dolori e i loro affanni e ci chiedono spiegazioni e soluzioni. Il terapeuta, in linea con il modello biomedico, viene visto come colui che spiega comportamenti e sintomi, fonti d’incertezza e dolore, e che li cura; spesso egli stesso si sorprende impegnato nel cercare soluzioni per eliminare i sintomi e correggere i comportamenti, in quella che Bateson (1991) chiama “sintomofobia”, ossia la tendenza a “curare il sintomo in modo da rendere il mondo più confortevole per la patologia” (pp. 440-441).

È possibile, per un terapeuta, rispondere a queste domande restando coerente al rovesciamento di prospettiva ispirato dal pensiero di Bateson? È possibile trovare posizioni diverse, capaci, senza disconoscere tali richieste, di tenere conto del fatto che l’incertezza e il dolore sono intrinsecamente parte dell’esistenza, che è insieme tragica e meravigliosa?

Riteniamo di sì, perché l’impegnarci in un cammino di ‘guarigione’ dall’epistemologia scientifica – nel senso letterale che la radice etimologica sci testimonia – non significa affatto abdicare al ruolo di cura, ma semmai assumersi una piena responsabilità, che dobbiamo riconoscere come etica, prima che deontologica e professionale (Bianciardi M., Galvez S., 2012). Se il terapeuta non è più, e non può essere, un esperto di patologie che, dall’esterno, interviene per riparare i danni con il suo sapere teorico e tecnico, bensì è un esperto di relazione che entra in relazione con la propria persona, allora la nostra responsabilità non riguarda l’altro, di cui non si può sapere e decidere, ma semmai la cura dello sguardo con cui ci accostiamo all’altro, e quindi delle caratteristiche del contesto di relazione che proponiamo e che dovremo monitorare costantemente. La nostra expertise consisterà allora nel curare l’incontro affinché possa essere contesto di un processo evolutivo (Bianciardi M., Telfener U., 2014).

Dovremo, a tal fine, perseguire quella ‘finalità introversa’ che indica, secondo Gregory Bateson (Bateson G., Bateson M.C., 1987), il cammino interiore di messa in discussione e cambiamento del proprio atteggiamento epistemico. Consapevoli di non poter avere alcun potere miracoloso nel modificare l’altro e la sua ‘malattia’, ci impegneremo in un compito più difficile e più alto: mettere in discussione come vediamo e decodifichiamo l’esperienza di incontro con l’altro.

Si tratta di accostarsi all’incontro con uno sguardo pieno di rispetto, consapevoli del fatto che l’altro è l’esperto di sé, della sua soggettività, delle proprie emozioni e della propria storia – disponendosi quindi ad apprendere da lui e dalla sua esperienza di vita. Non solo: si tratta di incontrare l’altro nella convinzione di non aver alcun ‘potere’ di modificare la sua persona e la sua esperienza, bensì consapevoli del fatto che solo l’altro può essere il soggetto del cambiamento, avendo in sé le competenze e le potenzialità per evolvere purché possa partecipare ad una relazione che non ne ostacoli il processo evolutivo.

Riprendiamo a questo proposito l’invito che l'antropologo Francesco Remotti ha rivolto ai propri colleghi nel corso di un convegno in suo onore organizzato dall’Università degli Studi di Torino: è bene definirsi ‘apprendisti antropologi’ perché, nel momento in cui si va sul campo, l'oggetto sfugge costantemente, e si è sempre inesorabilmente impreparati di fronte a storie che spiazzano di continuo i propri abituali modi di conoscere. Così è per lo psicoterapeuta, che di fronte all'unicità dell'altro non può applicare le proprie teorie tout court, ma deve considerarle semmai lo spazio di movimento all'interno del quale assumersi la responsabilità di prendersi cura di ciò che accade nell'interazione.

Il nostro sguardo sarà allora innanzi tutto uno sguardo umano, fraterno. E sarà uno sguardo animato dalla curiosità e dal rispetto. Sarà uno sguardo colmo di gratitudine.

L’approccio umanistico che proponiamo non intende dimenticare l’asimmetria di ruoli e la differenza di responsabilità tra terapeuta e paziente, ma vuole riconoscere la reciprocità umana nell’appartenenza a una circuitalità in cui non è possibile che una parte agisca sull’altra esercitando potere. Già ne “La matrice sociale della psichiatria” (Reusch J., Bateson G., 1951), testo che esplora lo stato della psichiatria negli anni ‘50 prendendo in considerazione sia le teorie e i modelli che la pratica e l’etica terapeutica, Bateson nota come quella “circolaristica” (pag. 302) e quella umanistica siano due evoluzioni del processo di allontanamento dalla scienza del diciannovesimo secolo, accomunate dall’attenzione all’interazione e alla presenza dell’osservatore e da tenere in costante dialogo. Da un lato, “L’umanista sarà sicuramente avvantaggiato nella seduta terapeutica, perché libero di rispondere prontamente e tranquillamente, come un essere umano che si trova di fronte al paziente che è un suo simile”; dall’altro, altrettanto preziosi saranno i rigorosi processi di codificazione della propria conoscenza che impegnano lo scienziato circolarista, rendendolo, però, “goffo e privo di grazia e disinvoltura nell’interazione, di cui avrebbe bisogno per essere un bravo terapeuta” (pp. 302-303).  

È lungo tale cammino, come vedremo, che l’esperienza della ‘bellezza’ appare possibile.

 

 

Curiosità e Gratitudine

 

L’impegno ad andare al di là di premesse epistemiche che, in quanto scientifiche, separano e scindono, ci impegna innanzi tutto ad una mai doma ricerca di nessi e legami, di trame di relazioni, di contesti allargati all’interno dei quali poter cogliere la circuitalità e la ricorsività entro cui il problema e la sofferenza si manifestano.

È Bateson stesso a offrirci, nonostante la sua diffidenza per la psicoterapia, preziosi spunti per orientare la nostra pratica. Ci invita a non andare a cercare quello che si suppone ci sia, come da tradizione medica, ma semmai a occuparci di creare le condizioni per costruire qualcosa di nuovo:

 

L’arte dello psicoanalista sta nel costruire situazioni, cosa che non si può fare nel mondo esterno, dove il paziente scopre che le proprie proposizioni generali sulla relazione non sono vere. In genere il mondo esterno non gli fornisce situazioni del genere, che sono verifiche cruciali delle sue proposizioni. Al paziente il mondo appare come se fosse quale egli ‘inconsciamente’ crede che sia. (Bateson G., 1991, pag. 272)

 

Spesso, infatti, la soluzione non coincide con l’eliminazione del problema, come per un elettrodomestico rotto, ma richiede di adottare umiltà per il sistema più vasto in cui ci troviamo a operare. Proprio come si legge nel Libro di Giobbe nella lettura che ne dà Bateson (1991), molto diversa da quella cristiana che vede Dio rimproverare Giobbe per l’arroganza di volerlo sfidare chiedendogli conto del proprio dolore. Secondo Bateson, invece, Dio non punisce affatto la domanda di Giobbe, ma gli mostra che la risposta non può stare in una logica causa-effetto, impartendogli una lezione di storia naturale, convinto che la contemplazione del mondo vivente sia un rimedio per quando ci si sente bloccati.

Per questo abbiamo interiorizzato un atteggiamento di inesauribile curiosità nei confronti della più ampia trama di relazioni, delle molteplici possibili letture, della possibilità di vedere la difficoltà presentata come occasione e opportunità, delle risorse e delle potenzialità recondite che attendono solo di essere riconosciute. Il nostro sguardo è retto dalla fiducia nel fatto che ciò che ci viene presentato è il modo migliore in cui si sono organizzate le persone che incontriamo. Come ci ha insegnato Gianfranco Cecchin (2004) con il suo ammirato e curioso “Ditemi come fate” (pag. 61), se ci mettiamo a cercare, connotando positivamente le esistenze delle persone che abbiamo davanti, c’è sempre qualcosa che tiene in piedi la vita, anche in mezzo ai suoi disastri. E allora capita che, ad allargare lo sguardo, magari qualche via d’uscita si trova.

L’atteggiamento di rispettosa curiosità, proposto da Cecchin (1988), implica la rinuncia a qualsiasi valutazione o giudizio. In tal senso, ricorda l’atteggiamento dell’antropologo, mosso unicamente dal voler capire ponendo tra loro in relazione differenti aspetti di una cultura e di una civiltà altra; rinunciando quindi del tutto alla tentazione di emettere giudizi.

Il ‘sintomo’ allora – lungi dall’essere separato dal contesto al fine di classificarlo, reificandolo e rinchiudendolo in categorie predefinite e illusoriamente stabili – potrà essere considerato il benvenuto, perché segnala una ‘patologia dell’epistemologia’ nei sistemi allargati e offre così la possibilità di prendersene cura.

Questo modo di avvicinarsi all’incontro conduce a provare una autentica e sincera gratitudine per l’altro. La gratitudine sarà innanzi tutto per la fiducia che ci viene accordata: si consideri che chi ci consulta a volte racconta a noi ciò che non ha mai raccontato nemmeno a sé stesso. Sarà, inoltre, gratitudine per l’esperienza di vita che ci viene narrata, per la ricchezza di una storia soggettiva che affonda le proprie radici in un passato plurigenerazionale e, a volte, in regioni del mondo altre e lontane. Quanto possiamo imparare dalle storie che ci vengono donate, se solo sappiamo mantenere aperta una curiosità sincera e colma di rispetto!

Infine, la gratitudine più autentica la sentiamo quando ci accade di provare sincera ammirazione per l’esperienza dell’altro: come ha potuto sopravvivere alle terribili esperienze che ha attraversato? Dove ha trovato la speranza che gli ha permesso di rivolgersi a me, fiducioso di poter essere aiutato nonostante i drammi che ha vissuto?

Vorremmo qui aggiungere che lo sguardo che stiamo proponendo si rivela ‘terapeutico’ anche con coloro che, secondo la logica e la terminologia dominante, soffrono di ‘patologie’ gravi, psichiatriche. Precisamente perché è uno sguardo che non collude con le logiche che a tali definizioni hanno portato. Chi ha avuto la possibilità di visionare i video di alcune consulenze di Luigi Boscolo con pazienti cronicizzati da anni, o ha visto lavorare Gianfranco Cecchin con famiglie incredibilmente disperate, può testimoniarlo. Così come possiamo testimoniarlo noi, nel ringraziare alcune persone o famiglie che ci sono state inviate come ‘casi disperati’.

  

L’epifania della bellezza

 

In questa idea di psicoterapia radicata nell’epistemologia batesoniana, dire che la bellezza in terapia è difficile da definire e ancor più difficile, se non impossibile, da ricercare, non significa e non comporta una dichiarazione di resa. Ci sembra semmai che sia una posizione di umiltà, nel senso etimologico, di chi tiene i piedi ben piantati nella terra e sa di non poter vedere che archi di circuito, mentre è l’insieme ad essere “fondamentalmente bello” (Bateson G., 1979, pag. 33), quell’insieme di interconnessioni verso cui Bateson ci invita ad allargare lo sguardo per riuscire a leggere quello che accade con la saggezza appropriata, con la consapevolezza di essere parte di qualcosa di più ampio.

La bellezza, così come la intende Bateson, diventa la direzione verso cui tendere nel cammino di guarigione dalla nostra epistemologia patologica:

 

“Credo anche che forse la mostruosa patologia atomistica a livello individuale, a livello familiare, a livello nazionale e a livello internazionale – la patologia del pensiero sbagliato in cui tutti viviamo – possa alla fin fine essere corretta dalla grandiosa scoperta di quelle relazioni che sono contenute nella natura e che costituiscono la bellezza della natura.”
(Bateson G., 1991, pag. 463)

 

Se la bellezza è dunque una proprietà del mondo in cui siamo immersi, della fitta rete di interconnessioni di cui è fatto, è proprio attraverso una terapia sistemica che sia una pratica etica ed estetica, sensibile alla struttura che connette, che possiamo, a volte, cogliere momenti di bellezza.

Bateson sottolinea più volte come tali momenti non possano essere cercati con finalità cosciente e nota come siano difficili da riconoscere: “Mentre può essere abbastanza facile riconoscere i momenti in cui tutto va male, è molto più difficile riconoscere la magia dei momenti in cui le cose vengono bene; e costruire questi momenti è sempre praticamente impossibile” (Bateson G., 1991, pag. 404). Nel solco del pensiero del padre, Nora Bateson (2021) ha coniato un neologismo, Aphanipoiesis, il regno delle cose non viste che mandano avanti il mondo, partendo proprio dall’idea che siamo abituati a parlare dei processi subdoli che danno origine alla malattia, mentre non abbiamo parole per descrivere i processi invisibili che portano a cambiamenti generativi e vivificanti. Sembra, quindi, che ogni organismo sappia come evolvere, ma noi non possiamo puntare una luce su quei processi invisibili e non possiamo quindi progettare uno specifico cambiamento.

Allo stesso modo, riprendendo la Leggenda del Vecchio Marinaio (di S. T. Coleridge), Bateson sottolinea come costui viene liberato dalla colpa in quanto riconosce la bellezza dei serpenti marini, e li benedice avvertendo dentro di sé una ‘fontana d’amore’ – li benedice, cioè, inconsapevolmente, e non guidato dalla finalità consapevole di liberarsi dalla colpa (Bateson G., Bateson M.C., 1987).

Ma cosa sono allora questi attimi di bellezza, se non si possono ricercare e nemmeno riconoscere? Cosa c’è di bello in psicoterapia, dove abbiamo a che fare con la sofferenza, la confusione, l’ansia, la paura, la tristezza, l’angoscia, il senso di impotenza e tutto ciò che porta le persone a chiedere aiuto?

Proviamo ad accostarci a queste domande con due storie.

 

La prima si è tracciata all’interno di una seduta di psicoterapia:

 

Alice è una giovane donna, intorno ai 30 anni, con una storia familiare molto complicata, che fa una professione di cura e che arriva da me con la preoccupazione di avere un disturbo psichiatrico e che questo possa impedirle di fare bene il proprio lavoro, sebbene sia consapevole di essere capace e riconosciuta. Quando si trova da sola, sente la testa talmente piena, che l’unico modo che ha per trovare un po’ di sollievo è quello di restare a letto. Mi chiede di aiutarla a difendersi dal proprio cervello, che, con i cattivi pensieri, è il suo peggior nemico.

Al quarto incontro entra in studio mentre sta litigando col padre via WhatsApp. È molto arrabbiata perché lui si rifiuta di darle dei soldi che le spettano, come deciso da un Tribunale a cui Alice, su suggerimento della madre, si è rivolta dopo anni di assenza. Mi rendo conto di non aver presente quel pezzo di storia e, dopo aver accolto il suo sfogo, le chiedo di mettersi davanti al suo genogramma, disposto sopra un leggio, e di raccontarmela. Emerge che il papà, Gaetano, è il figlio maggiore di due maschi, prediletto dalla madre che, dopo la sua nascita, e poi quella del fratello, dedica tutte le attenzioni ai figli ed è molto seduttiva nel suo modo di tenerseli accanto. Il nonno, escluso da tempo, è morto tre mesi prima della nascita della nipote.

I genitori di Alice sono rimasti insieme per sei anni, fino alla gravidanza che ha poi dato alla luce la loro bambina, quando Gaetano, da compagno affettuoso che faceva sentire la propria partner “come una regina”, si è trasformato in un uomo prepotente, togliendo improvvisamente alla coppia ogni attenzione e cura. Era già successo con la compagna precedente, da cui Gaetano aveva avuto un figlio, nato proprio nell’anno in cui ha incontrato la mamma di Alice e ha costruito con lei una nuova relazione. Con dispiacere e rassegnazione, Alice mi racconta che, sia con lei che con il fratello, il padre è stato assente per tutta l’infanzia e l’adolescenza, ma ora, con lui, riesce ad avere una relazione, mentre verso di lei non ha alcuna attenzione, quando addirittura non è offensivo.

Mentre apriamo il suo racconto e intrecciamo le storie dei personaggi del suo genogramma, penso che, con la sua nascita, come con quella del fratello, il padre probabilmente è andato in allarme, perché nella sua famiglia potrebbe essersi fatto l’idea che diventare padre comporti la perdita della possibilità di continuare ad essere riconosciuto come compagno accanto alla donna amata, come era successo a suo padre; sfilarsi dal trono su cui stava seduto insieme alla sua regina potrebbe essergli sembrato l’unico modo per non correre il rischio di esserne spodestato, perdendosi però la possibilità di fare il padre. Condivido questa idea con Alice e provo a metterla in connessione con il resto, ma lei è troppo pensierosa, troppo tesa per il telefono che continua a vibrare e che di comune accordo abbiamo messo in un punto distante dello studio.

È nell’incontro successivo, mentre riflettiamo ancora davanti al suo genogramma, che verso la fine Alice mi dice di aver pensato molto all’incontro precedente, a quello che avevo detto del padre. Mi racconta che pensa di aver capito perché il padre riesce ad avere rapporti col fratello, ma non con lei: si è fatta l’idea che il padre provi empatia verso di lui in quanto maschio che, magari, diventerà a sua volta padre. Lei, invece, è una possibile compagna che, con la maternità, potrebbe mettere in discussione la coppia e il partner.

Alice ha preso quel pensiero, quel modo di stare nelle storie della sua famiglia e ne ha fatto qualcosa di utile per sé, ha messo i suoi passi per ballarci dentro e, insieme, abbiamo preso un ritmo, un incedere tra le idee per fare e disfare ipotesi.

 

 

 

La seconda storia è custodita nelle pagine de La mia Africa di Karen Blixen (1937):

 

Un uomo abita in una casetta vicino a uno stagno pieno di pesci. Una notte sente un fragore spaventoso che lo sveglia di soprassalto spingendolo a precipitarsi fuori per vedere cosa sia successo. Si dirige subito verso lo stagno e prende a correre in tutte le direzioni, inciampando ripetutamente, cadendo nei fossi, ma sempre rialzandosi. Finalmente capisce l’origine di quel rumore: qualcuno ha fatto un grande buco agli argini dello stagno e da lì sta uscendo l’acqua con tutti i pesci. Si mette subito al lavoro per riparare la perdita e, finalmente, torna a letto.

La mattina successiva, affacciandosi alla finestra, vede che tutti i suoi passi, il suo correre avanti e indietro per capirci qualcosa e trovare una soluzione, hanno disegnato una cicogna.

 

Se la bellezza è nelle relazioni, non può certo essere intesa come assenza di dolore e fatica, come cancellazione delle brutture dell’esistenza.

Come ha notato il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han (2020), viviamo in una società palliativa, che cerca in ogni modo di cancellare il dolore e la morte, in nome di un’ideologia del benessere permanente, ma la sofferenza è connaturata all’esistenza ed è nostra responsabilità, come terapeuti, non fare di tutto un sintomo.

Yalom (2002), nella sua raccolta di consigli per terapeuti, racconta che, con la moglie, è solito giocare a immaginare cene con categorie di conoscenti che condividono similitudini, e l’unica tavolata che non sono mai riusciti a completare è quella delle persone felici, perché, quando individuano dei candidati, scoprono ben presto che la vita non ha risparmiato dalle sue avversità neanche loro.

Crediamo che stare, tollerando di non trovare una risposta immediata, sia l’impegno più grande che prendiamo con i nostri pazienti. È una postura che contempla l’esistenza, invece di volerla guarire come se fosse possibile farlo, e che nutre una profonda fiducia nei processi riparativi che tengono in piedi la vita: “se un sistema esiste, vuol dire che qualcosa funziona. Perché, se non funzionasse, sarebbe già morto, non esisterebbe, non sarebbe di fronte a noi” (Cecchin G., 2004, pag. 60).

La bellezza, forse, sta proprio nel sentire tutti i passi che facciamo per barcamenarci tra le faccende della vita, passi che presi da soli possono essere faticosi e dolorosi, ma nell’insieme tracciano il disegno dell’esistenza nel suo scorrere tra alti e bassi. La terapia, allora, diventa il contesto in cui stare nell’incontro e fare spazio affinché le cose possano stare insieme e trovare posizioni utili alla costruzione di storie che aiutino a sentirsi meglio. Il terapeuta si prende cura della relazione entrandoci dentro e lasciando che quello che sente si faccia metafora, immagine, ipotesi, intonazione, accento attraverso cui montare e smontare diverse versioni del mondo, permettendo di sintonizzarsi col pensiero della metamorfosi dell’esistenza, il suo passare da un caos all’altro. E fa questo in base alla sua ecologia di idee, colorando di tenerezza la sua responsabilità di sapersi parte di un processo ricorsivo che gli chiede di interrogarsi costantemente su quello che sta succedendo nell’interazione.

Si tratta, quindi, di abbandonare la preoccupazione, peraltro illusoria, di curare sintomi e trovare soluzioni lineari ai problemi, per trasformare la terapia in uno spazio ospitale e generativo, in cui le persone che si rivolgono a noi possano prendere il ritmo e sperimentarsi nella danza, sentire di poter provare altri passi, sentire di poter ballare e prenderci gusto.

In questo senso, forse, in questo prendere il passo ed errare, la bellezza ha a che fare anche col perdono, con la possibilità di inciampare. È “l’estetica dell’esser vivi” che cita Bateson in Mente e natura (1979, pag. 191) e che spesso smarriamo perché troppo concentrati sul perfezionare i singoli passi.

E allora, quando le persone ci dicono che facciamo un lavoro difficile, quello che pensiamo è che facciamo soprattutto un lavoro entusiasmante, che ci permette di vedere quali percorsi sghembi può prendere l’esistenza e come, improvvisamente, può risollevarsi, invitandoci a tenere vivo il gusto per la vita, il nostro e quello delle persone che incontriamo.

Bibliografia

 

  • Bateson G., 1972. Verso un'ecologia della mente. Tr. it. Adelphi, Milano, 1988 (ottava ed.).

  • Bateson G., 1979. Mente e natura. Tr. it. Adelphi, Milano, 1984.

  • Bateson G., 1991. Una sacra unità. Altri passi verso un'ecologia della mente. Tr. it. Donaldson, R.E. (a cura di), Adelphi, Milano, 1997.

  • Bateson G., Bateson M.C., 1987. Dove gli angeli esitano. Verso un'epistemologia del sacro. Tr. it. Adelphi, Milano, 1989.

  • Bateson N., 2021. “Aphanipoiesis. Una nuova parola per descrivere un aspetto dei sistemi vi-venti”. Tr. it. in Quaderni dell’AIEMS, 3, 2023.

  • Bianciardi M., Galvez F., 2012. Psicoterapia come etica, Antigone, Torino.

  • Bianciardi M., Telfener U., 2014. Ricorsività in psicoterapia, Bollati Boringhieri, Torino.

  • Blixen K., 1937. La mia Africa. Tr. it. Feltrinelli, Milano, 1959.

  • Cecchin G., 1988. Revisione dei concetti di Ipotizzazione, Circolarità, Neutralità: un invito alla Curiosità. In Ecologia della Mente, 5, pp. 29-41.

  • Cecchin G., 2004. Ci relazioniamo dunque siamo. Curiosità e trappole dell'osservatore. In Connessioni, 15, pp. 57-61.

  • Han B.C., 2020. La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite. Tr. it. Einaudi, Torino, 2021.

  • Madonna G., 2003. La psicoterapia attraverso Bateson, Franco Angeli, Milano, 2013.

  • Ruesch J., Bateson G., 1951. La matrice sociale della psichiatria. Tr. it. Il Mulino, Bologna, 1976.

  • Tiezzi E., 1998. La bellezza e la scienza, Raffaello Cortina, Milano.

  • Yalom I.D., 2002. Il dono della terapia. Tr. it. BEAT Edizioni, Vicenza, 2016.

A.I.E.M.S. - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche

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