L’esperienza della bellezza nel TeatroNatura
Foto di Manuela Cannone
Foto di George Jorin
Sista Bramini
Ha fondato nel 1992 O Thiasos TeatroNatura. Come regista, narratrice orale e formatrice m'immergo nei luoghi naturali per incontrare la vita che li abita.
Sommario
O Thiasos TeatroNatura, immerge il suo teatro in luoghi naturali dove la presenza umana è marginale rispetto a quella di altri viventi. Agire senza il supporto di dispositivi tecnologici ma solo attraverso tecniche incarnate quali il canto, la danza, il racconto orale, l’azione teatrale, comporta già una scelta estetica orientata ad affinare una certa sensibilità e a sviluppare una particolare ricerca di bellezza.
Parole chiave
bellezza, esseri viventi, teatro natura, coscienza spaziale, sapienza incarnata, canto, danza, racconto orale, mito, anima mundi.
Summary
O Thiasos TeatroNatura, immerses its theater in natural places where human presence is marginal compared to that of other living beings. Acting without the support of technological devices but only through embodied techniques such as song, dance, oral storytelling, and theatrical action, already involves an aesthetic choice oriented toward refining a certain sensitivity and developing a particular quest for beauty.
Keywords
beauty, living beings, nature theatre, spatial consciousness, incarnate wisdom, song, dance, oral tale, myth, anima mundi.
“Tutta la bellezza della natura, nell’arte e nella personalità è musica silenziosa. Ogni anima è nata sulla terra per amare ciò che è bello e la bellezza è il suo unico sostegno.”
Hazrat Inayat Khan, Il misticismo del suono, Edizioni Mediterranee, Roma 2010, pag. 180 (1a ed. The Sufi Message of Hazrat Inayat Khan: MUSIC - SOUND, 1931)
“I sentimenti profondi si esprimono con il movimento di tutto il corpo.”
Ivi, pag. 90. William Butler Yeats, Magia, Adelphi.
“Il modo più̀ giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo (qualunque cosa ciò̀ voglia dire) come una danza di parti interagenti.” (Bateson, Mente e natura, pag. 27)
“Le figure parlano perché vogliono parlare” Mary Watkins
“Il mondo è come un’opera d’arte che si auto genera” Nietzsche
“L’atto della vita è un’arte, come di chi si muovesse danzando: il danzatore è simile a questa vita e l’arte lo muove come fa la vita stessa” Plotino
Un teatro nel paesaggio
E’ stato mettendo in scena il primo spettacolo di Teatro Natura, Aspettando Godot di Samuel Beckett (quando ancora non avevo individuato il mito antico come strumento drammaturgico della ricerca), che ho compreso qualcosa che è poi diventato centrale nella nostra ricerca: grazie anche alle impressioni degli spettatori di cui ero avida, ho compreso che assistere sotto un grande albero ad una scena performativa, in cui chi agisce sa di stare sotto quell'albero e ne percepisce la presenza, significa anche assistere alle continue relazioni che le performer intessono con quell'albero: rapporti spaziali di movimento, di suoni e significati studiati, previsti cioè nella loro partitura scenica, ma anche relazioni non consapevoli o né teatralmente esplicite. In uno spettacolo senza microfoni, luci o palchi, in cui i silenzi beckettiani lasciano lo spazio alle incursioni acustiche dello stormire delle foglie al passare del vento tra i rami, del canto degli uccelli e del loro improvviso tacere, la presenza di quella quercia si fa concreta e comincia a dialogare con lo svolgersi della vicenda drammatica, un dialogo che la mente (i neuroni specchio) di chi assiste , ora divenuta estetica cioè poetica, impara a percepire come pertinente al dramma in atto. Naturalmente senza una competenza attoriale queste relazioni possono non essere colte o risultare addirittura un disturbo. Quando però lo spettacolo funziona può accadere che il pubblico cominci a vedere quell’albero in modo non ordinario. Le foglie mosse dal vento, gli uccelli che si posano sui suoi rami e improvvisamente cantano proprio in quel momento del dramma, la luce che filtra tra le fronde, trascolora e si sposta inserendosi nel ritmo della vicenda teatrale, illuminando con modulata intensità ora le attrici e i personaggi che incarnano, ora i diversi dettagli del luogo… : tutto ciò può aprire in chi assiste una visione poetica, in cui, senza l’uso di alcun “effetto speciale”, si ritrova ad essere parte di un quadro vivente: quell’albero cessa allora di essere un generico albero, un oggetto etichettato dal cervello, ma si rivela un soggetto, anche solo per alcuni attimi, meraviglioso: un vivente misterioso, ondeggiante nel vento e nella luce, fatto della sostanza di tutto ciò che anima il paesaggio intorno, di cui i/le performer e il pubblico stesso sono parte.
Non è facile scrivere e ancor più riflettere sull’aspetto percettivo, e in particolare dell’esperienza della bellezza, in O Thiasos TeatroNatura, il progetto teatrale a cui mi dedico da trent’anni e che vivo come un processo che si precisa, si trasforma e continua ad evolvere. Ogni descrizione infatti, e ancor più ogni concettualizzazione, ci allontana dall’esperienza diretta e in particolare dall’esperienza percettiva della bellezza che, per sua natura, anche se non ce ne rendiamo sempre conto, è di fatto una sospensione del linguaggio discorsivo della mente, persino del pensiero stesso. Ed è dovuta a una sorta di misterioso stupore che il pensiero poi, in base ai suoi costrutti culturali, basandosi sul ricordo dell’esperienza stessa, spera di ricostruire per riviverla e condividerla. Spesso questo racconto finisce per sostituirsi al ricordo dell’esperienza stessa, per sua natura intraducibile. L’animale umano però ne tenta continuamente la traduzione attraverso un linguaggio che fatalmente è anche un tradimento. In particolare il linguaggio scritto ricostruisce l’esperienza scorporandola e descrivendola analiticamente in elementi separati. Ma ogni esperienza è una percezione sensoriale estremamente complessa: vi si s’intreccia una moltitudine di diverse relazioni solo in piccola parte consapevoli, e che vivono tutte in un tempo differente dalla linearità del linguaggio verbale orale o scritto. È una dimensione percepita come unica e irripetibile, eppure gravida della risonanza di esperienze passate e di presentimenti.
Nel caso dell’esperienza della bellezza questo tempo di meraviglia è caratterizzato da una speciale fragranza. Attraverso la pratica del TeatroNatura ho compreso che l’esperienza del mondo e quella della bellezza del mondo sono la stessa cosa, in quanto è la bellezza la sostanza che sostiene la possibilità dell’esperienza stessa. Ma (forse per altre culture è diverso) è comunque difficile reggere l’esperienza della bellezza del mondo anche se è ciò che maggiormente ci avvicina alla gioia. In modo chiaro e frequente, quest’incapacità di restare nella meraviglia si manifesta nel commento verbale immediato (Guarda che bel tramonto!) e nel giudizio che etichetta, che ogni volta di fatto interrompe e spegne in noi quell’incantata sospensione del pensiero proprio nel momento in cui la comunica e proprio perché la de-finisce. Nel caso della poesia questo tradimento è percepito come felice (nel senso che i classici danno a questa parola e cioè fecondo) perché in essa vengono attivati quegli slittamenti di senso, quelle metafore e quei rivolgimenti del linguaggio stesso che alludono e ci ricordano appunto l’indicibile sinestesia e ineffabile complessità dell’esperienza stessa. Per questo la meraviglia di fronte alla bellezza del mondo è muta, in noi come negli altri animali, e si esprime come un intenso piacere di vicinanza alle cose, una specie di quiete gioiosa. Mi sono convinta che gli animali sono silenziosi perché immersi la maggior parte del loro tempo in questa quiete viva e così lo sono gli alberi, le pietre, il fuoco, il cielo… Quando riusciamo per qualche istante a entrare in quel silenzio ci ritroviamo nella stessa dimensione di tutti i viventi. Forse la vera iniziazione è apprendere la libertà di poter entrare e sostare sempre più a lungo nella profondità e vastità di questa meraviglia. Ogni forma d’arte, come ogni pratica spirituale, si ingegna su come accedere a questo spazio fatto essenzialmente di presenza. Per questo, ad esempio, a teatro gli spettatori, eredi inconsapevoli degli iniziandi, sono muti. La vita ordinaria è continuamente in fuga da quel vitale spazio silenzioso.
Non si tratta di recitare lo stupore sia ben chiaro, ma risvegliare l’attenzione alla realtà e dilatarla temporalmente. Per imparare quest’arte è necessario ridimensionare il nostro ego che l’educazione ha paradossalmente innescato per far fronte alle difficoltà e frustrazioni create dalla stessa civiltà.
Il teatro, come ogni linguaggio umano, filtra, traduce e in parte modella l’esperienza stessa ma, in quanto linguaggio corporeo e orale, resta più vicino all’esperienza vissuta di quanto non lo sia il linguaggio scritto. Per millenni il teatro è stato non solo uno strumento di comunicazione ma anche e soprattutto una forma di conoscenza. Questo modo di conoscere in realtà precede il teatro come forma artistica codificata culturalmente e forse esiste prima ancora di ogni forma di rituale. Parlo di quel corpo-teatro che è alla base di ogni atto culturale perché consustanziale all’animale umano che soprattutto immedesimandosi e imitando gli altri viventi, in particolare i suoi predatori ma non solo, ha imparato a comprendere il mondo intorno a sé e a sopravvivere costruendosi quegli strumenti di cui mancava copiando quelli di cui la natura ha dotato gli altri viventi. Da questo corpo-teatro l’animale umano ha tratto il linguaggio per accordarsi in gruppo e far fronte all’aggressione di animali più potenti e all’oppressione di una natura sconosciuta e minacciosa. Si tratta però di quello stesso corpo-teatro di simulazione giocosa che quello straordinario nucleo organismico di apprendimento che è l’infanzia di ogni epoca, utilizza istintivamente per conoscere sé e il mondo. Questo corpo-teatro si risveglia anche nelle partiture teatrali dei nostri giorni ogni volta in cui, mentre comunica, sta in realtà simulando per conoscere. Jerzy Grotowski, il celebre regista polacco, ci diceva che è davvero espressivo solo chi sta cercando. In sostanza questo corpo-teatro si attiva per incarnare, e così esperire, quelle diverse forme di vita che lo spettatore chiama personaggi. (Attisani A., 2024) Queste figurazioni carismatiche, che il teatro come lo conosciamo chiama appunto “personaggi”, e che la psicologia del profondo riconosce, in alcuni casi, come realtà psichiche, fanno transitare, condensano e declinano in “caratteri” diverse correnti, qualità e direzioni dell’energia vitale e, ciò che più conta, sono più vicine alla complessità dell’esperienza della vita di ogni concettualizzazione razionale. Nel nostro TeatroNatura queste figurazioni sono risvegliate grazie all’incontro con il mito antico che ho sempre considerato nella sua essenza un racconto orale radicato in un corpo-teatro primordiale che anche la letteratura nelle sue forme poetiche più alte riesce a evocare. Un’arte performativa in natura, proprio perché incarna l’essere umano nella sua relazione col mondo vivente, mentre eredita quell’evocazione, la invoca. Negli anni mi sono convinta che un racconto vivo del Mito può ancora oggi essere un formidabile strumento in grado di rigenerare quello spazio poetico in cui corpo, mente e emozione, fusi, sognano ancora insieme e ancora al cospetto degli altri viventi. A differenza dei personaggi borghesi del teatro moderno in cui tutto accade negli appartamenti o del teatro contemporaneo in cui vivono in spazi astratti, i personaggi archetipici del mito ci danno l’inedita sensazione di uscire direttamente dalla natura e già predisposti per rientrarvi. Basti pensare alle “Metamorfosi” di Ovidio.
Nel Il lamento dei morti, l’illuminante dialogo tra James Hillman e Sonu Shamdasani sul “Libro Rosso” di Jung, si riconosce alla psicologia e alle altre discipline umane la funzione di aver contribuito ad aprire in noi l’intuizione sulla natura profonda della nostra vita: ma più che le analisi statistiche e le descrizioni scientifiche dei casi clinici, nulla come il romanzo è capace di fornire quel ricco giacimento di articolazioni dell’esperienza in cui gli individui possono riconoscere se stessi e gli altri. Una tale ricchezza di possibilità riecheggia l’incommensurabile creatività della Natura stessa nella meraviglia dei suoi intrecci e connessioni.
Se il Mito giunge a noi attraverso le opere letterarie, affonda comunque le sue radici vive in una epoca orale primordiale, legata alla sapienza corporea, in cui l’esperienza della realtà è condensata in forme archetipiche e, proprio in quanto scaturigine di ogni metafora, riesce a evocare ancora un immaginario in cui l’umano è ancorato agli altri viventi. Contagiata attraverso il corpo-teatro, quest’immaginazione apre e riattiva i nostri sensi e può contribuire all’opera di trasvalutazione, come la chiamerebbe Nietzsche, che la nostra cultura deve necessariamente compiere. Sempre ne Il Lamento dei morti i due dialoganti notano come, già secondo Jung, il mondo contemporaneo abbia perso l’interesse per l’idea di cosmo come ordine universale nel quale, come tutte, è irrelata e dipendente anche la nostra vita. Per incontrare la nostra anima, muoverla, toccarla ci sono ancora questioni come l’amore, la morte e la bellezza, ma l’organizzazione del cosmo non conta più. Nell’umano contemporaneo serpeggia la sensazione che l’ordine ci sfugga, così come ci sfugge il pensiero su ciò che è più importante. Nella parola cosmo c’è anche il senso dell’appropriatezza. Continuiamo comunque a fare esperienza del mistero e della sensazione che, anche senza riuscire ad afferrarla, una cosa sia giusta nel senso in cui l’arte dà a questo termine: la parola giusta, il colore giusto, la pennellata, il suono, il gesto giusto. Il pittore Wols diceva: “Non spiegate la musica, non spiegate i sogni. L’inafferrabile pervade tutto. Bisogna sapere che ogni cosa fa rima.”. (Wols, 1996)
Uno sguardo sistemico ci insegna ad allargare maggiormente la nostra visuale sulle innumerevoli relazioni che fanno la vita di un fenomeno: ma resteremo comunque ciechi se non riusciamo poi a percepirne l’unità che le sottintende. Percepire e sostare in quell’unità, è appunto entrare in contatto con il sacro. In Una Sacra Unità G. Bateson ci indica come proprio l’Arte, un certo modo di intendere l’Arte, possa contribuire all’esperienza della Sacra Unità che connette tutto ciò che vive. In questa direzione il corpo-teatro, oggi declassato dalla nostra cultura tecnologico-digitale tanto come “corpo” che come “teatro”, agendo in contatto con la Natura, può riscoprirsi come un essenziale dispositivo somatico per percepire qualcosa di quella complessa interconnessione di movimento continuo tra gli elementi che costituisce l’esperienza dell’unità della vita in tutta la sua concretezza e mistero. Il primo veicolo vivo, più vicino a noi di noi stessi, è la misteriosa vita del corpo stesso nelle relazioni che intesse ed è intessuto, e in cui è convocato. Potremmo definire questa sua caratteristica una sacra flessibilità.
Per O Thiasos TeatroNatura, immergere il teatro nei luoghi naturali significa domandarsi come agire in modo performativo in spazi dove la presenza umana è marginale rispetto a quella di altri viventi: animali e piante. Incontrare quei luoghi senza il supporto di
dispositivi tecnologici ma basandosi unicamente su tecniche somatiche quali il canto, la danza, il racconto orale, le azioni teatrali, è già di per sé una scelta estetica orientata ad affinare una certa sensibilità e sviluppare una particolare ricerca di bellezza. Questo ritorno all’oikos, questo rientro nella nostra casa originaria, comporta una solida spinta poetica e pratiche specifiche in grado di trasformare la nostra percezione creando processi estetici e conoscitivi condivisibili. Va perciò ribadito che questo rientro non ha a che fare con un reazionario volgersi indietro: bensì con una scelta poetica e politica che presuppone che all’umano sia ancora possibile creare situazioni in cui lo spazio naturale sia sottratto allo sfruttamento economico, consumistico ricreativo e persino allo studio scientifico, per essere vissuto nella pura condivisione con altri viventi. Attraverso un’arte essenzialmente organica, e tutta sua, all’animale umano è forse consentito di esporsi di fronte agli altri esseri vivi per così dire alla pari, e di incontrarli in quello spazio vivo e riscoperto. Oggi forse potremmo finalmente permetterci di diventare l’animale umano che siamo, liberandoci dall’oppressione, il terrore e il senso di inadeguatezza di fronte alla natura che ci ha spinti a trasformarci da prede a predatori e poi a predatori di tutti i predatori. Questo comporta evidentemente un profondo cambio di prospettiva non solo intellettuale ma percettiva: riconsiderare l’essere umano e la sua storia come quella di un animale destinato naturalmente, dal suo stesso apparato biologico, alla cultura e che, per compiersi ed evitare il pericolo di una nuova estinzione dovuta alla sua stessa azione, deve imparare destinarsi culturalmente alla natura. La Natura non più intesa come mero contenitore da cui difendersi e da sfruttare, ma come origine e destino, scaturigine e destinazione. Nel mito del Viaggio dell’Eroe, che come è proprio del mito non siamo noi a raccontare ma che ci racconta, siamo giunte e giunti alla fase del Ritorno, quella dell’Odissea dopo l’Iliade, la fase considerata dal punto di vista sapienziale la vera impresa.
Per tornare all’esperienza della bellezza nel TeatroNatura e sintetizzarne i temi, bisogna muoversi perciò su almeno cinque perni tra loro continuamente e sostanzialmente collegati:
1. Il corpo umano con il suo particolare apparato psicofisico e sensoriale collegato ad alcuni assi fondanti e imprescindibili per la nostra esistenza, come, ad esempio l’essere immersi, come ogni vivente, nel ciclo determinato dal sole che sorge e tramonta, dalla presenza dell’aria, di piante e animali, e da un destino di mortalità. Il mondo della vita con le sue relazioni a noi conosciute e sconosciute, tutto ciò che viene considerato mero “istinto di sopravvivenza” e dato per scontato, va rivalutato esistenzialmente o meglio trasvalutato quale elemento irrinunciabile, fondante di ogni pensiero umano e di qualunque forma di linguaggio si voglia sviluppare.
2. La cultura in cui siamo immersi e la sua storia che determina ciò che immaginiamo e vediamo della nostra esistenza e del fenomeno “natura”. Va ben compreso che ciò che percepiamo come “oggettivo”, perché ci hanno educato a
pensarlo come tale, non lo è, né mai lo può essere. Siamo parte di un tutto che non siamo in grado di osservare da fuori. Non possiamo che partire da noi stessi/e, dalla unicità della nostra storia e dalla storia della cultura in cui siamo immessi e immesse, ma che può e deve ulteriormente allargarsi alla storia tutta della cultura umana nella sua relazione con la natura e la vita. Questo viaggio di conoscenza non solo intellettuale, ma esperienziale, deve poter inglobare tutte le culture che si sono relazionate alla Terra, al Pianeta come sistema. Tali culture, anche quelle oggi considerate “perdenti”, hanno in loro germi utili per la costruzione di un nuovo mondo. In un mondo globalizzato, in cui è necessario trovare nuovi equilibri geopolitici e culturali, va indagato come riscoprire la profondità dell’attitudine dell’animale umano prima della sua differenziazione in culture diverse. Non per cancellarle, che sarebbe stupido e inutile, ma per immergerle in una nuova sorgente. L’apporto dell’ingegno femminile in questa nuova cultura è cruciale.
3. Il linguaggio artigianale/artistico incarnato in pratiche teatrali riconsiderate e lavorate per essere declinate in natura. Pratiche che modificano la nostra percezione immergendola nella bellezza del mondo. E, circolarmente, capaci di mutare, proprio in vista delle trasformazioni culturali necessarie al nostro mondo che cambia, la stessa pratica teatrale, la stessa idea di teatro e di società.
4. Un contesto naturale: per quanto modellato in gran parte dall’umano, è irriducibile alla visione antropocentrica, nell’ esuberanza di esseri viventi che lo abitano non presuppone al suo centro l’esposizione performativa dell’umano. Proprio tale contesto ci fornisce un terreno d’esperienza più vasto di quello solo interumano e ci spinge ad allargare la nostra attenzione, lo stesso nostro corpo percettivo rendendoci disponibili verso nuove intuizioni culturali. La presenza della natura riduce il carattere “finzionale” dell’arte teatrale spostandola maggiormente verso l’esperienza del fenomeno reale.
5. Il mito antico trasmesso come racconto orale in grado di portare alla luce elementi archetipici (strutture emotive, spaziali, di pensiero e dell’immaginazione) non attraverso concetti intellettuali ma in un pensiero incarnato in figure evocate da ritmi, immagini, toni di voce, musicalità dei movimenti. Attraverso questi elementi che gli sono propri, il Mito rivela la sua natura prismatica e attiva, una molteplicità di interpretazioni grazie alla stratificazione culturale che ancora lo sostiene e all’attrazione proiettiva che sprigiona. Una delle sue funzioni, se trattato come elemento vivo e non accademico, è quella di risvegliare l’immaginazione della persona oggi colonizzata da immagini continue che le provengono solo dall’esterno, che ne catturano l’attenzione, ma non la rigenerano.
L’animale scenico negli spazi naturali: confluenza tra contemplazione e azione
Nei nostri atti performativi e nei percorsi di formazione in natura, chi canta, danza e parla lo fa in ascolto. Per ascolto s’intende una capacità d’attenzione sviluppata attraverso un esercizio, praticato con costanza, che diviene col tempo un’attitudine inconscia e naturale. Si tratta di prendere consapevolezza delle coscienze sensoriali di cui siamo dotati, da quella visiva a quella uditiva, olfattiva, tattile, cinestetica, spaziale. Mentre si attraversa silenziosamente un paesaggio si tratta di osservare, senza etichettare alcunché, quale di queste direzioni dell’attenzione prende di volta in volta il sopravvento sulle altre e quando alcune si fondono o slittano una nell’altra. Fluttuare con consapevolezza dentro la danza di queste coscienze sensoriali può essere un modo di descrivere questa attenzione: essa può volgersi o al continuum ininterrotto della sinfonia globale dei suoni, delle forme e dei colori ecc. o spostarsi sull’emergere, lo svilupparsi e poi l’estinguersi di un elemento, per esempio uditivo, nel paesaggio, per tornare all’attenzione verso l’insieme dei suoni.
Nella formazione dell’attore e dell’attrice nel chiuso della sala teatrale tutto - illuminotecnica, amplificazioni audio, acustica e forma dello spazio- è ideato e realizzato per mettere l’artista al centro della scena. In natura invece non esiste nulla di tutto ciò. La pratica del camminare, ad esempio, mutuata in parte dalla meditazione camminata Vipassana, applicata con l’intento di allenare la/il performer in natura, lavora contemporaneamente a trasformare l’idea, la percezione e la relazione con l’ambiente naturale della presenza umana tout court.
Nel TeatroNatura gli stessi confini del nostro corpo sono ripensati in base alle azioni e relazioni messe in campo tra le/i performer e l’ambiente circostante. Un canto, ad esempio, si espande nello spazio anche a grande distanza come sanno i contadini e le contadine di sessant’anni fa che sentivano i loro canti risuonare nelle valli. O ancora, l’azione del coro allarga la percezione del singolo a quella del gruppo. Attraverso il ritmo, il movimento, il suono, la voce, non formalmente coreografati ma allenati ad una spontaneità organica e armoniosa, si riscopre quella possibilità di pulsare insieme che hanno gli animali umani. Questa sensibilità acuisce un’attenzione vigilante, espande il singolo nel gruppo senza che questi perda la sua singolarità ma anzi essendone potenziato, non in senso egoico, ma come capacità di essere presenti, nel flusso di un’azione, a ciò che accade intorno e con la possibilità di modificarla in ogni momento. Quest’attenzione vigilante del coro si espande al paesaggio intorno e a ciò che vi accade. Grazie al lavoro costante e raffinato di Camilla Dell’Agnola, che nella nostra compagnia sviluppa questa linea di ricerca, il coro acquista una speciale qualità in grado di far emergere di volta in volta un solista libero dalle tensioni egoiche: il risultato vivo di un insieme in contatto con la luce, il terreno, il fruscio degli alberi, lo scorrere del ruscello. Chi dopo, un periodo di formazione di alcuni anni, si trova a incarnare questo linguaggio fa una speciale esperienza di bellezza, in una sorta di meraviglia in azione fatta di attenzione amplificata, sospensione del pensiero ordinario, fluidità di movimento e di vocalità, creatività spaziale e di una soddisfazione profonda nell’agire qui ed ora senza predeterminazione ma con decisione fiduciosa. In queste creazioni agite in un luogo naturale può accadere di ritrovarsi improvvisamente immersi in una sorta di sogno lucido dove ogni cosa respira di una sua luce vivente.
Siamo stati nomadi per millenni, esploratori di mondo sconosciuto, terrorizzante, misterioso e pieno di bellezza. Certamente quegli umani e quelle umane erano molto diversi da noi, percepivano il mondo e se stessi in un modo per noi inimmaginabile. Ma come si scopre nello studio del nostro DNA, costoro sono ancora in noi, in una qualche memoria del nostro corpo, in qualche impressione o insight a cui non attingiamo in modo razionale, e che possono affiorare se ci distacchiamo da alcune abitudini corporee e mentali.
Condizionamenti culturali nella percezione della natura
Siamo condizionati da concetti, abitudini mentali e percettive consolidate, determinate dalla cultura in cui viviamo, come ad esempio quella di contrapporre la cultura alla natura, l’opera umana alla vita organica. Molte demarcazioni e polarizzazioni culturali: uomo cultura/donna natura, vita contemplativa/vita attiva, scienza/arte/, terapia/spiritualità, arte/educazione, etica/estetica forse sono state utili per la sopravvivenza della nostra specie, per la costruzione della nostra civiltà e la condivisione dei suoi valori e dei suoi scopi. E tuttavia oggi, in tempi in cui è urgente una trasformazione culturale, si rivelano riduttive, parziali e vanno riconsiderate. Come ci ricorda G. Bateson: “L’arte è l’abile uso di ciò che è già noto, di ciò che è già nella testa dell’ascoltatore, per dargli modo di aggiungere particolari mancanti. [...] comunque sia, quanto vale per le parole e le storie che si scambiano le persone, vale anche per l’organizzazione interna delle cose viventi.” (Bateson G., Bateson M.C., 1989, pag. 244). O Thiasos TeatroNatura si muove all’interno di questa necessaria trasformazione del modo di pensare, immaginare, vivere “la natura”. Una trasformazione percettiva di noi stessi, delle relazioni interumane e di quelle con gli altri viventi, significa anche modificare i nostri parametri di pensiero. Questo comporta un cambiamento del mandato stesso dell’arte teatrale nella società e delle priorità nei suoi processi creativi. In questo trapasso culturale anche il senso delle parole che usiamo oscilla nell’ambivalenza tra vecchi e nuovi significati. Non potendo trovare parole nuove in poco tempo, la poesia delle forme artistiche è necessaria per indicarci e abituarci a ripensare il senso di quanto diciamo. È vero che l’arte, e ancor di più questo modo di intenderla, ha ben poca influenza in un mondo che sembra andare in tutt’altra parte: e tuttavia è una realtà da non sottovalutare e tenere viva, senza di che diventerebbe impossibile agire e scriverne. Questo aspetto cruciale meriterebbe un’altra approfondita riflessione che qui non abbiamo lo spazio di fare. Intanto la seconda parte della citazione di Bateson, anch’essa formidabile, quella che crea il nesso tra le storie che ci scambiamo e l’organizzazione dei sistemi viventi, va più che mai ripensata oggi. Siamo sempre più proiettati verso l’esperienza virtuale eso - somatica, in un mondo diffusamente mediato dai dispositivi tecnologici digitali da cui siamo sempre più dipendenti e al cui funzionamento tendiamo ad assimilare il nostro. E allora la ricerca di un nuovo radicamento nel corpo vivo dell’esperienza diretta del mondo, la ricerca di una presenza antica e allo stesso tempo nuova, sembra necessaria come antidoto ad una caduta sempre più vertiginosa e per lo più inconsapevole in abitudini che ci sradicano dal contatto con l’anima mundi e i suoi processi vitali. Questi dispositivi tecnologici non vanno e non possono certo essere aboliti, ma vanno riconsiderati all’interno di un nuovo modo di pensare la Vita dentro la quale si svolge la nostra. È necessario incarnare quanto più possibile anche in pratiche percettive il pensiero di Bateson.
Negli anni 80, molto prima di Papa Francesco, è stato Alexander Langer a parlare di “conversione ecologica” interpretando in senso laico l’idea religiosa del “pentimento” insita nell’espressione “conversione”. È cioè necessario riconoscere prima di tutto in noi le tracce operanti del “peccato”, e cioè di quel pensiero antropocentrico che in molte forme ci separa con crudeltà dalla vita del mondo. Questa consapevolezza ha bisogno del nostro dolore per “purificarsi”, cioè per emergere chiaramente nella coscienza non solo intellettualmente. Non abbiamo più bisogno di un senso di colpa legato al retaggio religioso patriarcale autoritario e opprimente, ma è necessario scoprire in noi con dolore i segni di una cultura consumistica che riduce la Natura a un’irreale e bel contenitore con cui confezionare merci, è necessario svelare un’immaginazione di natura con la quale decoriamo e compensiamo la mancanza di vita della nostra esistenza. L’unica verità è che anche se sappiamo che gli alberi sono vivi, non siamo più capaci di percepirli come tali. Sarebbe utile comprendere come lo stesso termine “natura” abbia la funzione di separarci dagli altri viventi, renderli oggetti, chiudere in noi la via per scoprirli come soggetti da incontrare nella vastità dell’esuberanza selvatica, di cui comunque facciamo parte, e non solo come creature addomesticate, ostaggi dei nostri appartamenti.
Un ostacolo al cambiamento è la confusione tra gli atti e le percezioni ordinarie, basati sulle abitudini psicofisiche e culturali che consideriamo “naturali o spontanee”, e gli atti che recuperano una naturalezza primaria sopita, culturalmente inibita, il cui emergere può spaventare o generare resistenze proprio perché mette in discussione un nostro apparato mentale e percettivo consolidato. Il lavoro artistico e formativo del nostro TeatroNatura si pone come tramite, come strumento per traghettarci da una percezione inconsapevolmente addomesticata e programmata ad una sensibilità più istintuale e organismica. Non si tratta affatto della nostalgia del buon selvaggio ma della rigenerazione di un corpo attento, pronto, consapevole. La bellezza nel TeatroNatura si sprigiona da questa presenza che attraverso il canto, la danza, il racconto orale e l’azione performativa apre canali percettivi sopiti e riattiva in noi, ostaggi del display, la coscienza di uno spazio vivo in noi e intorno a noi.
Rispetto alle demarcazioni e definizioni frutto di strutture culturali più o meno profonde e praticate, il compito dell’arte è aprire dei varchi, creare corrispondenze inedite che mettano in moto la nostra immaginazione, riattivino diverse combinazioni neuronali e ci facciano accorgere di aspetti inascoltati. A volte è l’immaginazione ad aprire canali percettivi, a volte sono le pratiche percettive a rigenerare l’immaginazione. Esiste una biologia che non è solo scienza nel senso riduttivo del termine, ma è il vasto mondo del
vivente in cui cultura e natura sono estremamente connesse e desiderose di manifestarsi creativamente e specchiarsi una nell’altra. Questo discorso ne apre un altro, di cui qui non abbiamo lo spazio sufficiente, ancor più interessante relativo ai percorsi atti a orientarci verso l’Apprendimento 3 di cui parla G. Bateson e che Zygmunt Bauman rende con queste parole: “... apprendimento a violare la conformità̀ alle regole, a liberarsi dalle abitudini e a prevenire la loro formazione, a ricostruire le esperienze frammentarie in modelli precedentemente sconosciuti e nel contempo a considerare accettabili tutti i modelli solo ‘fino a nuovo avviso.’ ”.
Un linguaggio artigianale e artistico, e il genius loci
Quando arrivo in un luogo naturale per ambientare uno spettacolo spesso non devo farmi sopraffare dall’ansia legata alla sensazione che il luogo non sia fatto per la mia idea teatrale e che, sotto la sua patina di bellezza, non la presupponga, quasi la respinga: non c’è abbastanza spazio per gli spettatori, qui le attrici avranno il sole in faccia, là lo scorcio è deturpato da quel traliccio, qui si sente l’autostrada da lontano, lì è troppo scosceso ecc. A questa sensazione, più radicata culturalmente di quanto non sembri, si può reagire piegando la natura presente ai propri scopi: tagliando, spianando, portando praticabili, amplificatori ecc. Oppure si può ascoltare il luogo: allora cammino, sosto, esploro random, lo vedo da più punti di vista, in orari diversi, finché in me si apre, non so bene come, una sensazione diversa: il luogo stesso, non è che si faccia addomesticare come un animale, non si tratta affatto di questo, ma inizia a cedere, prima a una specie di possibilità di accordo e poi, quasi per magia, comincia a rivelare delle sue potenzialità teatrali e scenografiche adatte proprio a quel progetto, facendomene vedere aspetti inediti. Il genius loci, così lo chiamavano gli antichi, si manifesta scegliendo di collaborare. E a volte, durante lo spettacolo sprigiona un carisma e un carattere quasi esibizionistico che ricopre la scena di incanto. Quanto dico può sembrare visionario e irrealistico, ma è invece frutto di ore di attesa, esplorazione, di una sorta di artigianato della sensibilità che si sviluppa entrando in un tipo di attenzione diversa da quella ordinaria, sviluppata nel tempo. Oggi aprire questo dialogo (Bramini S., 2015, 2020), che comunque in un modo o nell’altro passa sempre per una prima fase di sconforto, mi richiede meno tempo perché il mio sistema nervoso negli anni ha imparato per così dire la strada per stabilire il contatto con il luogo e il suo genius.
Se nel creare una scena non posso fare tabula rasa dei concetti di scena che ho ereditato culturalmente dal teatro che ho visto e studiato, devo però trasformare quelle idee per adattarle a quello spazio naturale che ogni volta mi viene incontro diverso. Queste trasformazioni nel fitto di un bosco, su un altipiano a contatto col cielo o sulle rive di un lago riverberano impressioni e sensazioni diverse che si intrecciano poeticamente con i significati delle azioni fisiche e verbali delle artiste e dunque sul pubblico. L’ interrelazione polifonica di questi elementi: lo scorrere della vicenda drammaturgica, le figure mitiche incarnate o evocate dalle/dai performer, lo spostamento e le soste di un pubblico assorto e attento attraverso i luoghi, il passare del tempo con lo scolorare della luce, tutto questo allarga la sensazione di finzione teatrale a un’esperienza di partecipazione condivisa ad un fenomeno reale. Questo è anche ciò che Grotowski chiamava la trasformazione dello spettatore in testimone. La scena si fa veicolo di una riscoperta della relazione con il vivente.
Come spesso dicono sia i performer che persone del pubblico: “E’ qualcosa di diverso da un semplice spettacolo sia pur bello. È più di uno spettacolo”. Si è ancora in cerca delle parole per esprimere un’esperienza vissuta: la sensazione di una speciale qualità della partecipazione personale, di aver vissuto un’esperienza estetica e umana particolare, legata alle incursione di un vivente circostante (fruscio tra gli alberi, canti di uccelli, trasmutare della luce ecc.) che nella vita ordinaria vengono date per scontate ma durante lo snodarsi dello spettacolo finiscono per imporsi disvelando l’aspetto “presente e vivo” del luogo e proponendo quasi un loro linguaggio dialogante con quello del dramma in atto. E ciò che importa è che questo fenomeno è vissuto, sia da chi agisce, sia da chi ne è testimone, come un’esperienza vivificante.
Dal punto di vista del/della performer l’esperienza non è tanto che sono “io” a cantare o raccontare, quanto che attraverso il canale del mio corpo-voce scaturisce un canto o un racconto che s’irradia nel paesaggio risuonando dell’acustica circostante fatta di rocce, umidità e incursioni di suoni di uccelli, atmosfera stagionale, mormorii di ruscelli. L’incontro sensibile con questi elementi vivi, tra loro interconnessi, modifica la qualità e le caratteristiche vibratorie del mio corpo – voce, e questo processo produce un senso di commossa vitalità. Questo lavoro, che qualcuno ha definito non ego centrato ma eco centrato, non modifica materialmente i luoghi, la loro visione e acustica con costruzioni scenografiche, impianti illuminotecnici o audio, ma trasforma innanzitutto la qualità dell’agire delle artiste e degli artisti che operano in quel contesto naturale e che, in ascolto dei viventi che lo abitano, contagiano, con la sensibilità della loro arte, la percezione del pubblico presente. Nei momenti in cui lo spettacolo, o una particolare pratica formativa, raggiunge una speciale qualità, questo contagio della presenza tra performer, pubblico e esseri viventi circostanti diventa circolare, creando la possibilità di sperimentare un allargamento spaziale della coscienza percettiva in cui forme di vitalità dimenticate si rigenerano.
La parte felice dell’arte dal vivo è l’incontro presente e cioè, dentro la trama di una struttura fissata, il poter improvvisare: la tecnica va affinata per essere dimenticata; ma va da sé che tutto ciò non lo si può ottenere in modo ripetibile solo improvvisando, è necessario allenarlo in un corpo ricreato per questa impresa, in ogni parte e, contemporaneamente, nell’unicità della sua interezza. È altresì evidente che in una performance di TeatroNatura, come in qualsiasi altra, accade anche molto altro di quanto qui trattato. Il mio corpo-voce esprime contenuti e storie che ho intenzione di esprimere e che ho strutturato e provato per quello scopo, ma rivela anche ciò che si esprime al di là delle le mie intenzioni: la mia storia, la storia della mia epoca e del linguaggio teatrale, la mia capacità con i suoi limiti, il passaggio particolare di vita che sto attraversando,
aspetti che sono tutti convocati in una performance e a volte sono i più reali. La nostra poetica di TeatroNatura immerge tutto ciò dove in realtà già si trova: nello spazio vivo tra viventi di un particolare luogo naturale, che il linguaggio artistico trasforma in luogo emblematico del Pianeta in cui viviamo, e di quell’aspetto fa la propria chiave di volta.
Mi sembra fosse Oscar Wilde a dire che un tramonto ci sembra bello perché imita un’opera d’arte rivoltando con un aforisma l’idea consolidata che sia il fenomeno a ispirare l’artista, stupire e commuovere l’essere umano. Ponendo così una questione sulla percezione della bellezza nella società colta inglese della fine dell’800 Wilde ci informa provocatoriamente, ma non troppo, che senza la mediazione dell’arte ormai non percepiremmo e non saremmo in grado godere la bellezza del fenomeno “tramonto”.
Attraverso la concretezza della nostra pratica artistica mi sono trovata a dover riflettere sulla relazione percettiva della nostra epoca con il fenomeno naturale. Dallo stupore/terrore/fascinazione di fronte alla potenza e alla bellezza della natura che le arti contribuivano a contenere e in certo senso addomesticare, siamo passati al bisogno contrario, quello di ritrovare il contatto con quel fenomeno da cui la civiltà contemporanea ci distanzia sempre più. Certamente ci sarebbe bisogno di una nuova educazione che insegnasse a andare oltre l’impatto di fastidio, paura, o noia che un luogo naturale, per mancanza di intima frequentazione, ispira. Ma la domanda è: l’arte, nel nostro caso quella teatrale, può aiutarci a risvegliare quel selvatico che, soffocato in noi, potrebbe indirizzare la nostra meraviglia verso il fenomeno reale-naturale, aiutarci a ritrovare quel contatto esperienziale perduto, insegnarci ad ascoltare e soprattutto a sostare in esso? Dai tempi di Oscar Wilde ci siamo ulteriormente allontanati dalla percezione diretta del fenomeno, in particolare di quello naturale, anche a causa dei dispositivi tecnologici che incrementano l’esperienza virtuale. La sensazione è che la complessità dei nostri linguaggi abbia depotenziato la percezione dei fenomeni allontanandoci dalla consapevolezza che la complessità stia nel mondo e nei problemi che affrontiamo, e che questi vadano descritti nel modo più chiaro e palpabile possibile. Sembra invece che i vasti sistemi ermeneutici agiscano come se il mondo si sia impoverito e sia necessario conferirgli significato...
Anche il linguaggio artistico così dipendente dalle realtà mediatiche ed economiche, tende a chiudersi e reiterare sé stesso affrontando solo concettualmente la contrapposizione e l’incomunicabilità tra arte e vita, arte e natura, continuando a farci languire nella solitudine di un mondo solo umano. Per affrontare i temi della crescente disumanizzazione e dell’ingiustizia sociale, più che mai pressante al cospetto delle terribili catastrofi che caratterizzano la nostra epoca, non basta più fissare lo sguardo solo alla realtà interumana. Giustizia sociale e ambientale sono sempre più strettamente connesse. L’impulso alla conversione ecologica aperta dalla pandemia, si è subito violentemente richiusa con l’avvento delle guerre in corso che distruggono vite umane e producono terribili disastri all’ambiente vivo di altri esseri. Così si cerca di compensare il disorientamento di uno stato vitale atterrato dalla frustrazione e dalla paura pompandolo con l’odio, la vendetta, il potenziamento della forza e delle armi.
La bellezza del mondo con le sue incredibili forme e l’amore misterioso che le genera è il presupposto di ogni pensiero, ogni manifestazione creativa e scientifica, chi la incontra sente il suo stato vitale alzarsi. Questa bellezza è intuizione e percezione dell’armonia e cioè della relazione in movimento tra tutto, dell’anima mundi che avvolge e muove il mondo della vita. Parlare di bellezza in tempo di catastrofi sembra osceno come se nella necessità si considerasse qualcosa di superfluo. Ma sappiamo che la sensazione di bellezza arriva ovunque, anche nei luoghi più disperati ad aiutare le persone a restare in vita. Il compito dell’artista non è abbellire la realtà, ma svelare l’irriducibile presenza della bellezza anche laddove è meno credibile.
La parte più vasta della nostra realtà, anche se non ci sembra, è la Natura stessa quale fondamento irrinunciabile della conservazione della vita del mondo e di ogni vita. Di questo potere vitale facciamo parte come tutti gli altri viventi. Come escludere che anche il gatto, il cervo, l’ape e il leone non percepiscano, secondo i loro sensi, la bellezza che pervade il mondo? Senza il senso della bellezza ci saremmo allontanati dalla fonte del desiderio di vivere e ci saremmo estinti. Oggi che ci ritroviamo in una realtà in cui la nostra estinzione sarebbe di nuovo possibile abbiamo più che mai la necessità di connetterci con la bellezza, che non è che un’eco della creatività misteriosa e infinita dell’universo, della Mente che tutto connette di G. Bateson, il potere che, se glielo permettiamo, ci salverà.
Trans-contestualità, i dati wild di Nora Bateson
Il mito antico incarnato in azioni, canti, movimenti concorre ad immergere performer e pubblico in una dimensione olistica che si schiude a quella rituale. Ho trattato questo aspetto in un altro saggio (Bramini S., 2024) dove convocavo la trans- contestualità di G. Bateson in relazione al nostro TeatroNatura, che nasce appunto dall’esperienza simultanea del contesto teatrale, con la sua poesia e le sue tecniche, e quello naturale, con la sinfonia delle sue presenze vive. Proprio questa trans-contestualità permette la creazione di particolari risonanze e slittamenti di significato esperienziali ed esistenziali da un contesto all’altro, allargando la coscienza estetica, rendendola capace di sintonizzarsi con le ansietà profonde della nostra epoca, tali che la nostra psiche generalmente le rimuove, non riuscendo a tollerale. Penso alle angosce relative all’incapacità della nostra civiltà di far fronte alla crisi climatica in atto, all’incombenza di nuove devastanti guerre e alla terribile distruzione di biodiversità da noi stessi causata. Nora Bateson (2021), che oltre a essere una studiosa è un’artista e ha continuato a indagare e sviluppare il pensiero di suo padre, dice che per sua natura “l’evoluzione non sa dove sta andando” e ci ricorda che tutti noi, comprese le stelle marine, le sequoie e i trilioni di organismi che vivono nel nostro corpo, per adempiere al più profondo comune obiettivo e cioè la continuazione della vita basata sulla complessità ecologica, dobbiamo esistere in continua relazione tra noi. Il tratto vitale più importante in questa rete di relazioni simbiotiche necessarie è la flessibilità degli organismi che la compongono: è questo che permette all’ordine del sistema vivente di trasformarsi adeguandosi all’imprevisto che caratterizza la vita. Queste relazioni pronte al cambiamento, cambiano continuamente, e i cambiamenti devono rimanere selvaggi (wild). Non sono tracciabili esplicitamente perché sono risposte sfaccettate a relazioni che avvengono in diversi ordini di vitalità ecologica: lasciano in noi tracce che si faranno sentire quando sarà necessario, ma non possiamo dire quando e come ciò avverrà. Proprio come accade nel corso dell’improvvisazione all’interno del TeatroNatura, con le reazioni e proiezioni che sollecita nel pubblico. Un’esperienza è ricevuta e percepita, spesso senza che ce ne accorgiamo, simultaneamente attraverso più contesti, e le informazioni trans contestuali, attraverso forme di comunicazione dirette o indirette, combinano i contesti stessi. “Dettagli e specificità che si mescolano producono un aggregato di variabili per un possibile cambiamento o flessibilità [...]”. (G. Bateson, 2000, pag. 318).
Ciò che qui interessa maggiormente è che questi “dati selvaggi”, non prevedibili o non misurabili dalla nostra scienza, appartengono tanto al mondo della vita quanto al dominio dell’arte, in special modo all’arte teatrale dal vivo immersa nei luoghi naturali. La mente estetica, sintonizzata sull’intuizione di una struttura connettiva tra noi e le altre forme della vita, può aiutare sia nell’individuare corrispondenze tra le strutture viventi, sia nello sviluppare una percezione capace di viverle e riconoscerle. Attraverso pratiche incorporate e sapienti da attivare in noi stessi possiamo arrivare a stati di benessere e di lucidità profonda, più adeguata alle esigenze attuali della nostra speranza di vita sul pianeta.
Anche se sempre più giovani vi si avvicinano, il nostro TeatroNatura è ancora una realtà marginale, una sorta di “rivoluzione romantica” guidata da un ottimismo strategico, un’esperienza impegnativa ma vivificante, una ricerca creativa e spirituale, un’esperienza pilota verso la fonte della bellezza.
Bibliografia
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Bramini S., 2022. L’animale scenico e lo spazio naturale in “Animal Performer Studies”, a cura di Laura Budriesi, raccolta di saggi, Mimesis Journal books.
Bramini, S., 2024. Ritualità in O Thiasos TeatroNatura. Antropologia E Teatro. Rivista Di Studi, 14(17), 39–64.
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