Foto di Nathan J Hilton da Pexels
Insegnante, è stato docente di Epistemologia della storia presso l’Università La Sapienza di Roma e l’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Invitato a parlare in convegni nazionali e internazionali, ha tenuto lezioni e conferenze in Brasile, Canada, Germania e Francia. Ha pubblicato più di 10 libri e circa 200 articoli scientifici.
Sommario
A partire da un’esperienza particolare realizzata insieme agli studenti, il testo s’interroga su cosa sia la bellezza in tutti i suoi complessi aspetti. Ci si interroga anche su cosa significa propriamente insegnare e come si possa insegnare la bellezza. Si stabilisce che la bellezza dell’insegnare consiste nell’esperienza di una bellezza che appartiene a un senso e uno spazio comuni di cui non si è sempre consapevoli.
Parole Chiave
Bellezza, insegnare, esperienza, conoscenza, comunità, relazione.
Summary
Starting from a particular experience carried out with my students, the text questions what beauty is in all its complex aspects. It also questions what it means to teach beauty and how beauty can be taught. It establishes that the beauty of teaching consists in the experience of a beauty that belongs to a common sense and space of which we are not always aware.
Keywords
Beauty, teaching, experience, knowledge, community, relationship.
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà” Peppino Impastato
L’esperienza è stata questa: con una classe di 25 ragazze e ragazzi siamo andati nel parco del Colle Oppio, al centro di Roma, proprio davanti al Colosseo e sotto i cui prati si celano ancora gli ampi spazi della Domus aurea neroniana (quella dove i pittori del primo Rinascimento si calavano per copiare le meravigliose grottesche). Attraversato il parco ci siamo fermati su una piccola sua propaggine, al di là dei cancelli d’ingresso, con dietro un muro di cinta e sulla destra i palazzi del quartiere. Un piccolo triangolo di prato sovrastato da un albero immenso che appese ai rami, penzolanti a mezz’aria, aveva una decina di paia di scarpe. Sull’erba ci aspettavano due persone. Un uomo e una donna senzatetto, gli abiti sporchi e strappati, con accanto un carrello pieno dei loro poveri averi e per terra un mucchio di cartoni, di quelli che usano la notte per dormirci sopra. Ma questa volta i cartoni li avevano raccolti per noi. Ragazze e ragazzi si sono seduti per terra, in semicerchio, sopra quei cartoni gentilmente raccolti “per non fari sporcare”. Così ci hanno detto, rivelando un’attenzione inattesa.
Avevamo organizzato quell’incontro per un progetto destinato a sensibilizzare gli studenti al problema dei senzatetto, drammatico nella nostra città persino in luoghi così battuti dal turismo di massa. Seduto anch’io accanto alla coppia, sul mio cartone, ci siamo presentati e l’uomo ci ha spiegato il significato dell’albero con le scarpe, di quel piccolo pezzo di prato, della vita senza un riparo, della pulizia tanto desiderata e purtroppo quasi impossibile e della sicurezza. Poi la donna ha aggiunto alcune riflessioni accompagnate da lacerti della sua storia personale che l’aveva condotta a vivere così. Gli studenti hanno ascoltato con interesse, hanno posto le loro domande e hanno fatto le loro osservazioni. Dopo più di un’ora ci siamo congedati arricchiti e commossi. Tutti. Con un legame in più, inaspettato, verso persone che abitualmente schifiamo per strada quando le incontriamo, di cui si ha paura o pietà, che nessuno però rispetta (la pietà è il contrario del rispetto), né riterrebbe capaci d’insegnarci qualcosa.
La prima cosa che viene in mente quando si parla di bellezza è l’aspetto esteriore delle cose e delle persone. Parliamo di estetica della visione, pensando che senza il guardare la bellezza ci sarebbe preclusa. Al ritorno dall’esperienza con i senzatetto una ragazza mi ha confessato che fino ad allora ne aveva sempre avuto molta paura, ma che da quell’incontro ormai non ne avrebbe avuta più. Poi aveva aggiunto che era contenta, ma che quello che aveva visto era l’aspetto più brutto e triste della vita delle persone.
Uno studente a quel punto è intervenuto dicendo che no, che era stata invece una bella cosa incontrare quelle persone. Un’altra ha aggiunto che le erano sembrate delle belle persone, quei due, malgrado l’apparenza. E la prima studentessa si è sentita in dovere di spiegarsi, perché il suo non voleva essere un giudizio, ma l’espressione di un’emozione molto forte. Non era bello quel prato disseminato di cartoni e rifiuti. Non erano belli loro, con quegli abiti laceri e sporchi, le loro mani luride, i volti anneriti. Eppure, eppure…
Ne è seguito un bel dibattito, una volta tornati a scuola. Perché nessuno si sognava di sostenere che quel tipo di vita fosse “bello”, né che avrebbe fatto a cambio col loro modo di vivere, ma tutti erano convinti di aver partecipato a un bell’incontro e di aver fatto una bella esperienza. Di fronte alla bellezza del Colosseo, in una giornata di ottobre quando il sole colora di luce alberi e cose, quegli studenti hanno imparato qualcosa fuori dalle mura scolastiche. Qualcosa di bello e d’inapparente.
Ma cosa? gli ho chiesto. Era la stessa bellezza dei monumenti antichi e del parco? Non erano certo belli quei vestiti che portavano, quella bocca sdentata di lei, quella giacca logora e bisunta di lui, la puzza del suo alito, le mani nere di sudiciume? E l’albero con le scarpe? E il carrello pieno di povere cose?
No, hanno reagito in molti. L’albero no. Era bello con quelle scarpe appese, soprattutto ora che ne conoscevano il significato (rappresentava l’andare, il vagabondare che trovava rifugio sotto i suoi rami, un’isola dove chiunque avrebbe trovato riparo e protezione, così gli avevano detto). Ora che lo sapevano, che ne conoscevano il significato, l’albero gli sembrava persino più bello. Perché la conoscenza può garantire un incremento di bellezza. Però non per tuto. Con i cartoni per esempio no, non c’era verso di trovarli belli. Neppure con la sporcizia per terra.
Cos’era allora che definivano bello? L’incontro?
Sembravano brutte persone – di cui alcune alunne avrebbero avuto paura incontrandole – e invece si erano rivelate tutt’altro. Nei giorni seguenti li erano andati a trovare. Un paio di ragazzi gli aveva persino fatto un’intervista, un pomeriggio, per il giornalino scolastico, senza che io gli avessi chiesto niente, semplicemente di loro iniziativa.
Era nato qualcosa di bello. Accanto a uno dei monumenti più famosi e visitati al mondo, sopra le grottesche per le quali Pinturicchio, Signorelli e Raffaello avevano perso la testa, nel cuore delle sontuose ottobrate romane qualcosa che all’apparenza non sembrava tale si è come rivelato agli occhi e nelle emozioni di quel gruppo di giovanissimi studenti. Poi, ragionandoci insieme, abbiamo scoperto anche altra bellezza, di altro genere.
Cosa ha vissuto quella coppia di senzatetto in occasione del nostro incontro? Ragazze e ragazzi lo hanno capito immediatamente: per una volta, in quella loro vita non certo invidiabile, sono stati protagonisti e non vittime. Sono stati ascoltati, sono rimasti al centro dell’attenzione, hanno avuto qualcosa da raccontare e da spiegare, come se fossero diventati quasi degli insegnanti, con studenti intorno a seguirli e imparare da loro. Per qualche tempo, da vittime che erano, bistrattate, schifate e ignorate, sono diventati protagonisti importanti, irrinunciabili. Bello! Bellissimo! Hanno concordato unanimamente tutti, persino i genitori cui gli studenti hanno poi raccontato l’esperienza.
Per loro – mi hanno rivelato qualche giorno dopo i due senzatetto – è stato bellissimo essere stati ascoltati e soprattutto guardati con quegli occhi attenti e curiosi di giovani affascinati e innocenti. Una bellezza che ha illuminato per un po’ quella loro giornata. Occhi diversi, con una luce particolare che li animava da dentro, con cui nessuno li aveva più guardati da tempo immemorabile. “Una sensazione bellissima” mi ha detto lui.
Non è forse questo ciò che fa la bellezza? Illuminare qualcosa in quel modo particolare che va oltre il vedere e persino oltre il guardare. Qualcosa che prende da dentro e da fuori. Una forza potente in grado di trasformare le cose, le azioni, i pensieri e le emozioni. Non è forse questa la bellezza che si rivela in quella straordinaria forma di relazione che è l’insegnare? Qualcosa che ci appare oscuro o ignoto e poi ci si dispiega e apre davanti rivelandosi in tutta la sua magnificenza. Un incremento d’essere, come diceva H. G. Gadamer.
Il bello dell’insegnare è aprire alla bellezza delle cose, dove per “cose” s’intende tutto, senza escludere alcunché. Persino il vuoto, il buio o il nulla (pensiamo alla sublime bellezza del numero zero, che neppure è un numero). L’incontro con un quadro, un insieme di versi o un senzatetto. Un oggetto, una storia, un’idea, una parola, un ricordo, una speranza, un gesto, un’azione… e spesso più di uno, un insieme che naturalmente è sempre inevitabilmente un rapporto, un tessuto di relazioni. Noi la chiamiamo “esperienza”: c’è bellezza dappertutto in un’estetica che deborda i propri limiti sensibili. Bisogna però saperla cogliere e crearne le occasioni. Occorre insegnare a riconoscerla, occorre imparare a sentirla.
Quando Marzia e Gianni, questi i nomi dei due senzatetto romani, hanno parlato ai ragazzi raccolti in semicerchio intorno a loro, si sono illuminati. Hanno cominciato a risuonare. E i ragazzi altrettanto. Qualcosa di bello è accaduto, ben oltre ciò che un passante ignaro avrebbe potuto semplicemente vedere. Che sarebbe comunque stato un bello spettacolo, quei ragazzi e ragazze in ascolto di due cosiddetti “poveracci”.
Da millenni sappiamo che l’insegnamento non si limita alla sfera della conoscenza, ma che implica la vita in tutti i suoi aspetti e la relazione asimmetrica fra chi “sa” e chi ancora “non sa”. Sotto questo aspetto già Socrate sosteneva l’analogia fra insegnare e donare. E il dono è sempre qualcosa di bello. Bello è sempre l’oggetto del dono, ma anche il gesto del donare. Persino quando l’oggetto non viene apprezzato da chi lo riceve, per il donatore – se vero e sincero – resta qualcosa di bello. Così è per il bambino che regala alla madre un rametto raccolto per terra, un sasso o un disegno abbozzato su un foglio strappato, bellissimo ai suoi occhi, degno appunto di un dono. Così è persino per la celeberrima mela avvelenata che la strega dà a Biancaneve, quando la fanciulla lo riceve felice perché ancora ignara del suo contenuto letale e del significato nascosto, per cui dopo quel dono non sarà più tale, trasformato in inganno, trappola, violenza.
Insegnare apre alla bellezza, se la bellezza è dappertutto. Una delle prime cose da insegnare è proprio lei, per riconoscerla ovunque. Più facile quando siamo di fronte al Colosseo, a un cespuglio fiorito di rose, al viso della persona amata, più difficile di fronte alla miseria, alla sporcizia o all’ingiustizia. Più ardua di fronte all’aridità di certe regole (il codice civile, l’aritmetica, la grammatica), indecifrabile dinnanzi al dolore e alla morte. Eppure l’esempio dei senzatetto illumina proprio questa possibilità, che ogni maestro conosce bene, e ri-conosce come la vera essenza dell’insegnare.
Perché la potenza della bellezza – alcuni mistici sparsi per il mondo lo avevano capito – insiste anche malgrado il dolore e l’orrore. Nessuno vi è insensibile, persino nelle situazioni più atroci: il carcerato che decora la sua prigione, l’abitante di una favela che innaffia il suo vasetto di fiori, certe piccole viole notate da Simone Veil nel campo di sterminio di Auschwitz, la tendina di pizzo montata sulla finestra di una baracca per terremotati in Belice (ne ho spiegato la forza nel mio libro Cerca sempre la bellezza).
Aprire alla conoscenza un sapere non si riduce alla mera utilità. Il sapere non è l’istruzione per l’uso di qualcosa (o qualcuno). È molto di più. Quando insegno a un bambino come allacciarsi una scarpa non mi limito alla mera funzionalità del fiocco che gli permette di far aderire per bene la calzatura al suo piede. E quando lui, dopo innumerevoli tentativi ed errori, riesce finalmente a farlo da solo, l’esclamazione che gli esce dalla bocca è “Che bello! Ho imparato!”. I lacci della scarpa, pedalare su una bicicletta, decifrare le lettere e poi le parole su un libro, disegnare una mano, interpretare una carta geografica e poi, naturalmente, comprendere una poesia o un quadro, saper risolvere un’equazione, capire una lingua straniera: non possiamo esimerci da quell’esclamazione, nel momento in cui ne diventiamo capaci. È un piacere che permea il sapere, l’emozione di aver imparato qualcosa. Togliete quell’emozione e avrete ucciso l’insegnare.
Un’emozione che accomuna il maestro e l’allievo, quando il dono diventa la condivisione di qualcosa che uno possiede e l’altro no: trasmissione come partecipazione, non come consegna funzionale. Il piacere di Marzia e Gianni quando hanno scoperto di poter loro stessi donare qualcosa, condividendola con quei ragazzi, invece di essere schiacciati nella condizione del bisogno e della richiesta, è stata una bella esperienza. Condivisione della sua bellezza. Insegnamento nella reciprocità di un donare inatteso. Il dono di Gianni e Marzia ai ragazzi. Il dono dei ragazzi a Gianni e Marzia.
Ciò presuppone un’estensione della bellezza oltre i limiti dell’estetica, pur restando nell’ambito estetico del sentire e del percepire. Non nel senso che il bello sia qualcosa che esula per esempio dal mero vedere, ma nel senso che tramite il vedere, nel vedere stesso si vada oltre il vedere. Kant lo aveva spiegato indicando la necessità di un altro giudizio per l’esperienza estetica, differente da quello determinante che agiva nell’ambito della conoscenza. Un giudizio che implicava un sentimento di piacere e dispiacere, vale a dire una reazione immediata e irriducibilmente psico-corporea insita in quel tipo di esperienza. Platone aveva per questo definito a suo tempo “difficile” la bellezza, perché incomprensibile ne era il segreto del pur comune sentire e indecifrabile la formula compositiva: qualcosa di così comune e riconoscibile di cui non si sapeva né poteva stabilire alcuna regola. L’attributo “bella” non aggiunge nulla alla conoscenza della cosa che abbiamo di fronte, né al suo eventuale funzionamento, eppure di quella bellezza non potremmo fare a meno senza con questo perdere qualcosa. Adorno si è interrogato a lungo su questo qualcosa che pur essendo riconoscibile non è mai del tutto identificabile o definibile. Come Hegel, ma in una prospettiva del tutto differente e sotto certi aspetti opposta, l’ha chiamata “libertà”.
Come tale, quindi, come potrebbe essere insegnata? Se la bellezza si sottrae alla conoscenza, alle sue leggi, regole e concetti, come può essere trasmessa, tramandata e condivisa? Se non è mai perfettamente definibile, come si può educare qualcuno a riconoscerla o produrla?
La bellezza appartiene a una sensibilità che abbiamo tutti in comune, ha scritto Kant, quando questa si combina liberamente con le nostre facoltà intellettive e le nostre idee. Per questo la ri-conosciamo facilmente anche se nessuno effettivamente la conosce nel vero senso della parola. Ma – si sono chiesti i filosofi – come possiamo ri-conoscere qualcosa che non si conosce? Non staremmo forse in un paradosso? Eppure ne facciamo esperienza di continuo. E questa esperienza si può trasmettere proprio nel senso di condividere. Nell’espressione quasi istintiva “Che bello!” sta la forza di questa trasmissione che comunica ciò su cui si presuppone la condivisione. Della bellezza possiamo solo fare esperienza, vivendola direttamente. Ma la conoscenza è capace d’incrementarla e di svelarla: l’albero delle scarpe.
Quando un paesaggio ci si apre davanti all’improvviso, inaspettato, oppure quando una coppia comunica agli amici o ai genitori di aspettare un bambino, quando ritroviamo qualcosa che credevamo perso per sempre, quando uno studente torna a casa con un bel voto, quando si riceve un regalo gradito, quando s’incontra casualmente qualcuno per strada cui vogliamo particolarmente bene e che magari non vedevamo da tempo, quando dalle analisi sanitarie scopriamo di essere finalmente del tutto guariti da una malattia, quando vediamo un quadro, uno spettacolo, un monumento, un tramonto o lo sbocciare inaspettato di un fiore su una pianta che reputavamo ormai sterile, l’esclamazione “Che bello!” prorompe irrefrenabile dalla nostra bocca. Quasi un istinto della condivisione che ce la fa pronunciare ad alta voce. Perché siamo convinti che sia così anche per chi ci sta attorno e resteremmo storditi, sconcertati e offesi se qualcuno ci rispondesse che no, per lui quello non è affatto bello.
Diamo per scontato che per gli altri sarà così. Il “Che bello!” diventa infatti spesso un richiamo alla partecipazione. Istintivo e perentorio. Di fronte a uno spettacolo naturale invitiamo gli altri a goderne anche loro, richiamandone l’attenzione con la frase “Guardate che bello!” Diamo per scontato che per loro sia così. Non possiamo fare a meno di dirlo. Non possiamo tollerare che quel piacere resti solo nostro, privato, chiuso, esclusivo.
Ecco perché un insegnante non può fare a meno di condividere con i suoi studenti la bellezza di quanto giudica tale. Quando gli studenti non “sentono” la pulsione alla condivisione dell’insegnante, quando non odono il grido del “Guardate che bello!”, quando non percepiscono il desiderio di partecipazione ma solo l’imposizione di un potere e un dovere (o semplicemente la tecnica professionale di una mera trasmissione di informazioni), allora smettono di ascoltare, si distraggono, si allontanano. Perché insegnare non è solo condividere, ma anche esercitare un potere. Quando il potere dell’istruire prevale sul sentire scompare ogni condivisione, ogni comunità, e rimane solo la divisione senza più alcun con. La comunità viene imposta, non concordata e vissuta. Non se ne riesce allora a fare esperienza. Perde bellezza.
Il bello dell’insegnare appare quando l’inevitabile esercizio del potere viene diluito nel desiderio che accomuna a una partecipazione, dove le parti, seppure asimmetricamente, costruiscono un senso comune e i rapporti di potere si equilibrano. Per un verso il potere di evadere da parte degli studenti (quello che a scuola chiamano “distrazione”), quello della rivolta e del rifiuto; per un altro verso quello istituzionale, autoritario o autorevole dell’insegnante. A queste due forme estreme di potere si aggiunge però anche quella della costruzione comune, della scoperta reciproca, dello scambio: un potere potente e sensibilissimo alle circostanze. Bello è l’incontro dell’uno con l’altro, quando scompare ogni forma di dominio e di obbedienza. Bello è il rapporto, quando la relazione, per quanto sproporzionata come quella che lega un adulto a un bambino o a un giovane, diventa costruzione di uno spazio in cui tutti si possono ri-conoscere. Comune per questo. Cui si accede non come estranei oppure ospiti, ma come artefici e protagonisti. Ciò che è comune non appartiene a nessuno, non risponde a diritti di proprietà, non tollera accessi limitati o privilegiati. Il sapere detenuto dal maestro non è di sua proprietà: per questo il suo dovere è quello di trasmetterlo. Bella è la trasmissione che viene sentita come il dovere di vivere insieme, come un’impellenza irrinunciabile, un impulso e una forza irrefrenabile. Bella è la sete che desidera e cerca questa trasmissione, il cui nome spesso è riassunto dal termine “curiosità”. Bello è il potere che permette e nasce a un tempo dallo scambio, quando questo non si riduce alla semplice forma merce: diventa il potere condiviso della costruzione comune, la scoperta che anche nell’asimmetria può esserci reciprocità.
Si dice, talvolta, che la riuscita migliore del rapporto fra un maestro e il suo allievo sia quando questi supera quello. Ecco il senso dello scambio dei poteri: il potere di assorbire e imparare, e quello di insegnare e donare. Quando l’allievo supera il maestro il rapporto in qualche modo s’inverte. Il potere non resta a senso unico, ma si distribuisce nella relazione sottraendosi alla dominazione.
La relazione è alla radice della bellezza. L’impulso del “Che bello!” è tutto relazionale, come lo è ciò che lega il sentimento del piacere alla cosa. Nessuna bellezza senza le cose della realtà; nessuna bellezza neppure senza il sentimento che le vive. Per questo è cosa umana, mai sovrumana. Nella bellezza la relazione di potere si annulla, o meglio si equilibra. Quando viene insegnata una cosa bella, la bellezza redistribuisce il piacere come un bene comune. Non è mai la regola della bellezza, ciò che viene insegnato. Chiunque ci abbia provato – e nella storia occidentale lo si è fatto fin troppe volte, come nel caso delle accademie d’arte – non è mai riuscito né ad afferrare l’oggetto né a spiegarlo in modo tale da poterlo replicare. Di fronte a una poesia, un quadro, un balletto o un brano musicale (come di fronte a un paesaggio o a un gesto) ciò che si può insegnare è il piacere dell’esperienza come condivisione di qualcosa che annulla la gerarchia. Nel momento in cui il maestro riesce a far partecipare l’allievo del piacere di fronte a una cosa bella, il loro rapporto non è più definibile in termini di esercizio di potere.
Ciò che viviamo come bello e per cui proviamo un piacere la cui impellenza ci spinge al grido del “Che bello!” non teme il tempo e la storia, perché è sempre nell’uno e nell’altra; ma ha il potere in certi casi di travalicarli. Si tratta di un potere strano, inafferrabile in ultima istanza, che non ha nulla a che fare coi rapporti di dominio (ma è tutto nella partecipazione senza gerarchie): si manifesta soprattutto in quelle che chiamiamo “opere d’arte”. Cos’è la bellezza, perché possa parlarci nelle opere d’arte oltre il tempo e la storia che l’ha portata a essere? Come possiamo chiamare questa potenza che ci permette di ammirare la bellezza di qualcosa che è stato creato 400, 1000 o 3000 anni fa, e di cui le circostanze, la cultura, gli autori, i linguaggi, i costumi e così via sono scomparsi? Perché certe opere ci parlano ancora? Quando siamo andati a parlare con Gianni e Marzia ragazze e ragazzi non sono rimasti insensibili alla bellezza del cielo o a quella del Colosseo. Ne percepivano la potenza. E dopo l’esperienza dell’incontro coi senzatetto hanno capito che la bellezza – che non è solo nelle cose e nelle apparenze, ma può celarsi anche negli incontri, nelle emozioni e ben oltre le apparenze – è qualcosa che va al di là dei limiti che abitualmente le si assegnano.
È bello insegnare cose belle nella misura in cui ci si emancipa dal mero estetismo. Ecco allora che ci si può spingere a cercare insieme cosa accomuna un monumento, un paesaggio e un incontro. Una bella esperienza, oppure un bel gesto, hanno in comune qualcosa con un bel viso o un bel quadro che va oltre i limiti delle nostre considerazioni abituali: insegnare a cercare in questa direzione è il bello di un’attività che non potrà mai ridursi a mero mestiere. La catastrofe del tempo storico in un’opera d’arte che di un preciso tempo storico è stata il prodotto è qualcosa che si può pensare, se ci si apre la strada per farlo.
Insegnare cose belle permette di fare entrare in uno spazio comune chi ne era escluso o viveva ai suoi margini. I tempi e le esperienze s’intrecciano. La bellezza ha la sua intima complessità che si rivela nelle pieghe più recondite del complesso in cui si manifesta. Io posso ammirare la bellezza di una tela di Kandinskij, ma se qualcuno m’insegna a capirne le intime ragioni, i dettagli, le scelte e i significati dei cromatismi e dei segni, nuova bellezza mi si apre davanti, e con lei il piacere di ri-conoscere quegli elementi di cui prima non sapevo nulla. Posso farne esperienza. Allo stesso modo le emozioni, l’articolazione del dolore, le vicissitudini e le attenzioni di Marzia o di Gianni, come di chiunque altro, ci permettono di riconoscere e riconoscerci in qualcosa che ci accomuna e di cui sentiamo il piacere di fare parte. Per questo ci commuovono ancora le storie raccontate nell’Iliade o nell’epopea di Gilgamesh, gli amori e i tormenti dell’Ariosto e di Shakespeare, quelli raccontati da Hugo o da Tolstoj.
Ri-conosciamo degli aspetti in comune quando cogliamo la bellezza di qualcosa, e questo si trasmette e si può trasmettere proprio in virtù di quest’essere comune e condiviso. Insopprimibile e insistente bellezza del nostro essere umani. È bello riuscire a insegnare proprio questo.