Compositrice diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma. La sua musica viene eseguita presso importanti istituzioni concertistiche italiane (il Festival Nuovi Spazi Musicali di Ascoli Piceno, gli Incontri di Musica Sacra Contemporanea con l’Orchestra Sinfonica di Lecce e del Salento, la rassegna Assoli dell’Accademia Filarmonica Romana). È cofondatrice dell’Associazione Musica Del Vivo, nata per promuovere brani originali di compositori emergenti, e autrice e redattrice presso la rivista di musica classica Quinte Parallele.
Sommario
È possibile risolvere il problema della definizione della bellezza in ambito musicale?
Il saggio illustra alcune soluzioni proposte storicamente dall’estetica della musica, mettendone in luce i limiti e passando per l’analisi di un capolavoro della letteratura orchestrale del Novecento: il Concerto per violino di Alban Berg.
Parole chiave
Bellezza, musica, estetica, Beethoven, Eduard Hanslick, formalismo, Alban Berg, dodecafonia, tonalità, Bach, intelligenza artificiale.
Summary
Is it possible to define beauty in musical terms? The essay illustrates the solutions that have been historically offered by musical aesthetics, discussing the limits of the theories and analyzing a twentieth century orchestral masterpiece: Alban Berg’s Violin Concert.
Keywords
Beauty, music, aesthetics, Beethoven, Eduard Hanslick, formalism, Alban Berg, twelve tone theory, tonality, Bach, artificial intelligence.
Introduzione: l’aspirazione alla bellezza nell’organizzazione formale
Nel 1826, a conclusione del suo ultimo lavoro, il Quartetto op. 135, Beethoven si domanda: “deve essere?”
Al quesito, che nel manoscritto è posto sotto tre note che corrispondono alle parole “muss es sein?”, il compositore risponde infine con una ferma asserzione, ribadita più volte: “Es muss sein! Es muss sein!” (“Deve essere! Deve essere!”)
Beethoven mostra in questo modo il dialogo interiore che avviene nella sua mente nell’atto creativo. Come sostiene Giovanni Bietti in Ascoltare Beethoven, scrivere musica rappresenta, per il compositore in questione, un percorso di ricerca, di esplorazione, di crescita (Bietti, 2021, pag. XVI).
Comporre significa cercare un sentiero da percorrere, sondando di volta in volta tutte le strade possibili, per poi escludere quelle meno convincenti e stabilire quella che “deve essere”.
Il Quartetto op.135 di Beethoven, così come molti altri capolavori musicali, “deve essere”, non può essere altrimenti, qualsiasi combinazione alternativa degli elementi che lo compongono non potrebbe dare luogo a una pari bellezza.
Nel processo compositivo, è l’aspirazione alla bellezza a guidare e regolare l’organizzazione dei frammenti della costruzione musicale. Ma è possibile definire una volta per tutte la bellezza? Cosa possiamo dire del bello se non che tende ineluttabilmente verso la propria forma, fino a risultare inevitabile?
L’estetica della musica dalla teoria degli affetti al formalismo
La riflessione sulla bellezza, da quando è possibile averne testimonianza, ha accompagnato la storia dell’umanità nella sua produzione artistica. Il tema è stato oggetto di speculazione da parte di filosofi e artisti prima ancora dello sviluppo autonomo della disciplina che si occupa dell’arte come manifestazione sensibile e la cui nascita si può far risalire alla pubblicazione del trattato Aesthetica di Baumgarten nel 1750.
L’estetica, che comprende ciò che riguarda l’aisthesis, ovvero la sensazione, la percezione, ha voluto prediligere in un primo momento il senso della vista, rivolgendosi innanzitutto alle arti dello spazio, come l’architettura, la pittura, la scultura.
La musica, dunque, che differisce da queste arti poiché non si manifesta nello spazio, ma nel tempo, e riguarda il senso dell’udito, più che quello della vista, è stata inizialmente esclusa dalle indagini estetiche, nonostante le meditazioni sulla sua natura, nel corso dei secoli precedenti, fossero state numerose.
La caratteristica peculiare della musica di non delineare e descrivere oggetti o concetti definiti, al contrario delle arti visive o del linguaggio verbale, l’ha relegata, fino a un certo momento storico, alla sfera della rappresentazione di qualcosa di apparentemente ineffabile come le emozioni.
Infatti, la storia della musica è intrisa dell’idea, antichissima, che le varie combinazioni dei suoni possono avere effetti specifici sull’emotività: la dottrina degli ethos di Damone (V secolo a.C.) e la successiva teoria degli affetti rinascimentale associano a diversi elementi melodici, armonici e ritmici, differenti stati d’animo, che inducono a determinati comportamenti.
Fino ai trattatisti che operano tra il XVI e il XVIII secolo, come Zarlino, Rameau, Leibniz e Cartesio queste credenze affondano le loro radici nell’idea pitagorica del numero come sostanza di tutte le cose, e di conseguenza sostanza tanto della musica quanto dell’animo umano. Dalla fine del XIX secolo, la diffusione della psicoanalisi, della sociologia e dell’antropologia hanno utilizzato nuovi e molteplici strumenti di lettura per analizzare il rapporto tra l’universo sonoro e l’emotività.
L’idea del legame tra musica ed emozioni è stato, oltretutto, il presupposto che ha dato origine al melodramma, dalla Dafne di Jacopo Peri (1598) fino al dramma wagneriano, che con le sue costellazioni di leitmotive, ovvero temi musicali usati per descrivere personaggi e situazioni, l’ha portata alle estreme conseguenze.
Ogni considerazione sulla bellezza della musica, in quest’ottica, è inevitabilmente ancorata all’efficacia con cui una specifica combinazione di suoni riesce a rappresentare e a provocare un certo stato emotivo.
Questo modo di concepire l’estetica della musica cambia soltanto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dopo la pubblicazione del trattato ‘Il bello musicale. Contributo alla revisione dell’estetica musicale’ (1854) da parte del musicologo tedesco Eduard Hanslick.
La bellezza della musica, per Hanslick, non ha a che fare con l’esattezza con cui la musica esprime un contenuto slegato da sé, ma risiede soltanto nella varia combinazione dei suoi elementi costitutivi, ovvero la melodia (la successione diacronica delle altezze musicali), l’armonia (la simultaneità delle altezze) e il ritmo (la scansione delle altezze nel tempo).
Soltanto i “suoni e il loro artistico collegamento”, le “forme sonore in movimento” (Eduard Hanslick, edizione del 1978, pp. 48-49), quindi, sono oggetto della musica, il cui obiettivo è quello di esprimere idee prettamente musicali. La citazione del passo del IX capitolo dell’Enciclopedia di Herbart, contenuta nel saggio di Hanslick, è, in questo senso, particolarmente significativa:
“Ma che cosa avrebbero inteso esprimere gli antichi artisti, che svilupparono tutte le possibili forme della fuga? Assolutamente nulla volevano esprimere; i loro pensieri non erano diretti verso l’esterno, ma verso l’essenza interiore dell’arte” (Eduard Hanslick, edizione del 1978, pag. 17).
Questa corrente di pensiero, che identifica nella forma il contenuto della musica, fu definita non a caso “formalista” e vi aderirono nel tempo numerosi musicisti e filosofi (basti pensare che Stravinskij, molti anni dopo, avrebbe affermato che “la musica non esprime altro che se stessa”).
La relatività dei criteri estetici
L’estetica della musica fondata sull’espressione del sentimento e l’estetica formalista possono essere degli strumenti di interpretazione del bello musicale, ma nessuno dei due fornisce criteri di giudizio assoluti.
Se la prima, infatti, si fonda su percezioni e reazioni soggettive, per quanto culturalmente influenzate, anche la seconda, che si poggia esclusivamente sugli elementi costituitivi del linguaggio musicale, è destinata a continui cambiamenti. L’uso degli elementi musicali, infatti, varia e si trasforma a seconda del contesto storico, geografico, sociale, per una molteplicità di motivi complessi e articolati.
Basterebbe esaminare le diverse accordature che si sono succedute in una limitata porzione della storia della musica occidentale, o osservare il percorso della tonalità (ovvero il sistema di principi armonici e melodici, basati sul concetto di tensione e risoluzione, che disciplina un certo tipo di strutture musicali), dalla sua alba al suo declino, per comprendere la velocità con cui si sono affermate ed esaurite differenti concezioni estetiche.
Si potrebbe tracciare una storia della musica fatta di predilezioni e di divieti che dimostra che l’estetica musicale è in perenne mutamento. Come è stato ben compreso a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con la nascita della musicologia e della sociologia della musica, figlie innanzitutto della mentalità positivista, la trasformazione dell’estetica della musica è continua perché continuo è il mutamento della funzione della musica nella società e continuamente diverse sono le concezioni del mondo che di volta in volta emergono all’interno delle varie comunità umane.
I differenti parametri di giudizio della bellezza musicale si susseguono o convivono, si sviluppano esattamente come la scienza si sviluppa all’interno dei paradigmi scientifici secondo la concezione di Thomas Kuhn.
Traendo soltanto alcuni esempi dalla storia della musica, in una forma riduttiva ed estremamente semplicistica, possiamo pensare alle cattedrali polifoniche del Quattrocento fiammingo, che glorificano il divino con la loro magnificenza e complessità, o alla melodia accompagnata e la sua successiva evoluzione nel melodramma, che si preoccupano di esprimere la vasta gamma emotiva dell’uomo, nella speranza di muoverne gli affetti, o ancora ai suoni elettronici che, essendo espressione di un mondo industrializzato e tecnologizzato, dal Novecento entrano a far parte del tessuto musicale.
Soltanto tenendo in considerazione la complessità della concatenazione di questi fenomeni possiamo provare a comprendere il senso di bellezza che possono suscitare in noi opere anche molto differenti tra loro, lontane temporalmente e stilisticamente.
Inoltre, spesso la bellezza di un’opera non è riconducibile a un modello unico, ma è frutto di una fertile elaborazione della sovrapposizione di diverse correnti.
A titolo esemplificativo, possiamo analizzare brevemente un lavoro particolarmente significativo della storia della musica del secolo a noi precedente.
Il Concerto per violino di Alban Berg – Alla memoria di un angelo
Scritto nel 1935 e commissionato dal violinista Louis Krasner, il Concerto per violino fu l’ultima composizione di Alban Berg. L’“angelo” a cui è dedicato è Manon Gropius, figlia di Alma Mahler e di Walter Gropius, tragicamente morta, adolescente, di poliomelite.
Il concerto è suddiviso in due movimenti, a loro volta ripartiti in due micromovimenti interni (Andante-Allegretto e Allegro-Adagio) e l’organico prevede, oltre al violino solista, un’orchestra di medie dimensioni, con tanto di arpa.
La bellezza toccante di questo concerto non deriva dall’adesione completa, da parte del compositore, a determinati parametri stilistici e formali. Al contrario, il Concerto per violino è il risultato di una perfetta combinazione di elementi linguistici differenti, addirittura teoricamente contrastanti: la tecnica dodecafonica, che Berg aveva appreso direttamente dal suo inventore, Schönberg, e il sistema tonale.
Nonostante fosse stato allievo di Schönberg, infatti, Berg utilizzò sempre liberamente la dodecafonia, cioè il processo compositivo basato sull'equivalenza armonica dei 12 semitoni della scala temperata.
La dodecafonia nacque nel contesto della progressiva emancipazione della dissonanza che aveva caratterizzato gli ultimi sviluppi della musica tonale – lo scopo della sua affermazione era quello di costituire un’alternativa a un sistema che era stato ampiamente sfruttato, apparentemente esaurito nelle sue possibilità espressive.
D’altronde, lo Zeitgeist dell’epoca non poteva che dar luce a una tecnica compositiva del tutto nuova, diffusasi soprattutto in seguito all’assoluto e traumatico distacco dal mondo precedente al disastroso evento della guerra mondiale.
Alban Berg, però, seppe tenere insieme i due mondi: quello della tradizione, seppure raso al suolo, e quello dell’innovazione. Nella musica di Berg, infatti, i legami con il mondo tonale sono forti e voluti, nonostante la tecnica dodecafonica preveda la costruzione di serie (ovvero successioni ordinate, stabilite dal compositore, dei 12 suoni della scala cromatica), che non ricordino in alcun modo le funzioni tonali.
Nel Concerto per violino, in particolare, Berg utilizza una serie costituita dalla successione di quelle che nell’universo tonale possono essere interpretate come triadi (Sol minore, Re maggiore, La minore e Mi maggiore), seguite da un tetracordo esatonale (ovvero quattro note a distanza di tono).
Serie dodecafonica utilizzata da Alban Berg per la composizione del Concerto per violino
Il tetracordo che compone l’ultima parte della serie deriva dal corale Es ist genug della cantata O Ewigkeit, du Donnerwort BWV 60 di Bach, un testo fortemente drammatico che ben si presta alla dolorosa circostanza della morte di Manon Gropius, alla quale è dedicato il Concerto.
Il corale comparirà citato nella sua interezza nella seconda parte del secondo movimento (Adagio), rievocato innanzitutto dal violino e in seguito dai 3 clarinetti e dal sassofono, in uno dei momenti più struggenti della letteratura orchestrale del Novecento.
Tutti gli elementi tematici del Concerto sono formati da alcune note selezionate di volta in volta dalla serie (il primo, ad esempio, è costituito dagli intervalli di quinta Sol-Re-La-Mi in successione, che corrispondono alle corde vuote del violino, protagonista del brano). Le note estrapolate dalla serie vengono eseguite da uno strumento o da un gruppo di strumenti, a patto che il resto dell’organico provveda a completare l’esecuzione delle note della serie rimanenti.
Con questo principio è costruito il Concerto per violino, passando dalla prima atmosfera sospesa, affidata, oltre che al violino, all’arpa e ai clarinetti, fino all’Allegro molto concitato del secondo movimento, che vede l’elaborazione del materiale musicale fino a un momento culminante (höhepunkt) che conduce all’Adagio e alla commovente apparizione del corale bachiano.
Potremmo ascrivere il senso di bellezza che proviamo nell’ascolto del Concerto per violino di Berg tanto alla sua organizzazione formale, profondamente coesa, nonostante la convivenza di sistemi differenti, quanto alla sua capacità di esprimere il dolore del lutto e di sublimarlo.
Comprendiamo, attraverso opere di questo tipo, che l’orizzonte della bellezza non si esaurisce nella “nobile semplicità e quieta grandezza” di Winckelmann, ma, in certi casi, include l’orrore, il tormento, l’inquietante.
La bellezza è, anche, catarsi: possiamo rifiutare l’atrocità soltanto assumendola, vivendola attraverso la sua rappresentazione. Per questo motivo l’arte e la bellezza sono strumenti di conoscenza, non espedienti di fuga dalla realtà alla ricerca di un mondo ideale e artificiale, ma, al contrario, espressioni di assoluta presenza nel mondo.
Come scrisse lo stesso Schönberg, nella prima decade del Novecento: “l’arte è l’invocazione angosciosa di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità. Che non se ne appagano, ma si misurano con esso. Che non servono passivi il motore chiamato ‘oscure potenze’, ma si gettano nell’ingranaggio in moto per comprenderne la struttura” (Enrico Fubini, 2001, pag. 334).
Tuttavia, né il portato espressivo ed emotivo della musica del Concerto per violino di Berg, né una minuziosa analisi della sua struttura e dei suoi elementi costitutivi bastano, di per sé, a procurarci una spiegazione esaustiva e puntuale della sua bellezza.
Conclusioni
Nell’affrontare il tema della bellezza nella musica, quindi, può essere interessante partire non dall’opera finita, ma dalla genesi dell’opera, dal momento di perplessità e di rivelazioni che precedono il “deve essere!” che Beethoven arrivò ad affermare con convinzione a conclusione del suo Quartetto op. 135.
È in questo tortuoso procedimento di ripensamenti e di scoperte, infatti, che risiede la bellezza.
La bellezza ha un valore epistemologico, tanto per gli ascoltatori, quanto per i compositori stessi, che nel processo di scrivere, conoscono, inoltrandosi in territori talvolta inesplorati.
Se si potesse svelare la ricetta della bellezza con un calcolo preciso di proporzioni e di simmetrie a seconda del risultato che si vuole ottenere, per produrre opere belle basterebbe affidarsi, ad esempio, a un sistema di intelligenza artificiale. Molto più rapidamente della mente di un essere umano, un sistema può incamerare informazioni e fare propri i princìpi costitutivi, dal punto di vista tecnico, di una serie potenzialmente infinita di opere precedenti, per poi condensarle in un nuovo lavoro nella maniera più efficiente.
Rischieremmo di semplificare un problema estremamente complesso, di cui si stanno occupando scienziati, filosofi ed esperti di tutto il mondo, se sostenessimo che la ricezione delle informazioni da parte di un sistema intelligente avviene al di fuori di ciò che tradizionalmente intendiamo per “esperienza” e che possiamo considerare un vissuto personale.
Certamente, però, il processo creativo del sistema è stato messo a punto per scongiurare il rischio dell’imperfezione, per evitare l’errore rispetto a parametri selezionati a priori.
Eppure, l’errore è il territorio fertile che spinge alla ricerca, è il problema che costringe il compositore a pensare a soluzioni che non aveva previsto. La bellezza è frutto, anche, della deviazione, della messa in discussione, della scoperta, della curiosità, si nutre di ciò che nasce nell’oscillazione tra la determinazione e il caso.
La mancanza di questi presupposti comporterebbe l’assenza del mistero nella produzione e nella percezione della bellezza. È il mistero a provocare in noi, di fronte alla bellezza, l’esperienza del thauma aristotelico, che è allo stesso tempo incanto e orrore, un patire la meraviglia di essere vivi, secondo una felice definizione di Edoardo Camurri nella sua Introduzione alla realtà (Camurri Edoardo, 2024, pag. 29).
Se la bellezza non può essere ridotta e circoscritta a norme immutabili, non dovremmo interrogarci sulla sua natura, ma soffermarci sul suo scopo, che è quello che Henry Miller, in The Wisdom of the Heart, attribuisce alla vita, e cioè quello di “essere consci, gioiosamente, ebbramente, serenamente, divinamente consci.”
Bibliografia
Fubini Enrico, 2001. L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino.
Fubini Enrico, 1973. Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino.
Bietti Giovanni, 2021. Ascoltare Beethoven, Editori Laterza.
Hanslick Eduard, edizione del 1978. Il bello musicale, Giunti-Martello Firenze.
Camurri Edoardo, 2024. Introduzione alla realtà, Timeo.
Miller Henry, 2016. The Wisdom of the Heart, New Directions.