Foto di Gaia Bonanomi
Psicologa e pedagogista, fa ricerca intorno ai sistemi prossimali di cura attraverso metodi narrativi, estetici e partecipativi.
Sommario
Come scrivere di bellezza rispettando la complessità del suo enigma? Comporre per frammenti consente di dire pur lasciando dei vuoti, come fanno i poeti. Il metodo composizionale ricerca la trasformazione accostando parti diverse, in interazione tra loro: il sapere esperienziale, auto/biografico, incorporato, si combina con l’immaginazione, generando idee provvisorie e suggerimenti per l’azione. Quello che posso fare è “girare intorno” alla bellezza, sapendo che potrò afferrarla solo per qualche istante.
Parole chiave
Esperienza, memoria, relazioni, auto/biografia.
Summary
How can I write of beauty respecting the complexity of its enigma? Composing by fragments allows to say yet leaving empty spaces, as poets do. The compositional method seeks transformation by drawing together different parts, in interaction: experiential, auto/biographical, embodied knowing, combines with imagination, producing provisional ideas and tips for action. All I can do is “turning around” beauty, knowing that I will only be able to grasp it for a few moments.
Keywords
Experience, memory, relationships, auto/biography.
Oscurità e luce
“Due sono infatti i volti della bellezza, tutti e due necessari, perché noi siamo impastati di oscurità e di luce, e la bellezza è anche nell’oscurità, è persino all’interno del «male», del dolore, della lacerazione. Lo scrittore francese ottocentesco Alfred de Musset diceva che i canti più belli sono i canti più disperati” (Ravasi, 2013).
Mi risulta difficile, quasi ostico, scrivere di bellezza quando tutto intorno parla di violenza, stupidità, indifferenza ed egoismo. Il chiacchiericcio continuo ottunde i sensi. La bellezza superficiale, patinata, creata per un godimento puramente esteriore e consumistico, domina la quotidianità. Così, per lasciarci toccare – ferire, scrive Ravasi – dalla bellezza profonda dobbiamo fare uno sforzo. Lavorare sull’ascolto, sulla capacità di vedere, di risuonare. Non solo con la luce, ma con l’oscurità che è dentro e fuori di noi.
Vertigine
Per scrivere di bellezza bisogna riconoscere la vertigine. La mancanza di parole o concetti per contornare l’ineffabile, per dire di un’esperienza che è preverbale, riconosciuta dal corpo e dai sensi prima che dalla mente corticale, un’esperienza che ci prende sempre un po’ di sorpresa, proprio quando eravamo impegnati a fare altro. Oppure avevamo prefigurato una reazione che poi non c’è stata.
E allora mi accosto a questa vertigine cercando di essere fedele a ciò che sono e che so. Non spiego, ma mostro. Procedo a tentoni. Accosto frammenti, come Barthes (1979). Il discorso è amoroso, assolutamente sì, ma anche autobiografico, pedagogico, epistemologico. Avevo scritto un intero libro così, qualche anno fa. Fu giudicato impubblicabile.
Cura, unità, appartenenza
“Io e il mio testo – scrittura femminile
Non sei ancora nato. Ma ti sento pulsare in me come un cuore che scandisce un ritmo ancestrale, un ritmo che non è mio, appartiene ai secoli, al tempo immoto della specie.
Sei un accenno di forma e io sono al tuo servizio. Io ti aiuterò a prendere la tua forma. Le mie mani hanno preso e dato. La mia mente ha accolto e si è lasciata andare. Nessuna asperità, nessun giudizio può impedirmi di realizzare l’opera.
Si può comporre il sopra e il sotto, il dentro e il fuori. Il mio confine non è la mia pelle. Io non esiste. Si può.
Tu nascerai. E sarai rotondo, appassionato, seduttivo, concentrato, attento al ritmo del respiro. Si scrive con il corpo. Un capitolo teorico scritto con il corpo. Un sogno bellissimo. Il corpus teorico della cura deve essere carne e sangue. […]
La lama del pensiero è tagliente, ma io so essere ri-compositiva. La soddisfazione di una buona teoria sta nella rotondità delle sue forme.
Danzare con le parole, in un’armonia che si trasmette da chi scrive a chi legge. Far star bene il lettore anonimo, che non conosco. […] Accompagnarlo. Guidarlo con dolcezza nel senso. Rassicurarlo sulle sue presunte incompetenze.
Il lettore merita rispetto. Posso rinunciare alle asperità concettuali per invitarlo/a dentro la festa della cura. Per sedurlo/a a una visione che solo l’animo placato può apprezzare. E se il suo animo sarà sofferente? Se si chiuderà, come posso prevenire la sua fuga, la sua insofferenza, la critica distruttiva? Posso? Forse no. […]” (Formenti, 2009, pp. 327-328).
Era il 2008. Mi sentivo ispirata nello scrivere l’epilogo di Attraversare la cura. Con gli altri argonauti - Caterina Benelli, Salvatore Catalano, Tiziana Ciampolini, Leo Cupane, Gianni D’Elia, Loredana Gambuzzi, Ilaria Mignanti, Beppe Pasini, Anna Maria Pedretti, Silvana Pelusi, M. Gabriella Pavarotti, Vanna Puviani, Barbara Sangiovanni, Isabella Venturi, Giulia Zecchi – avevamo navigato “relazioni, contesti e pratiche” della scrittura autobiografica, condividendo uno spazio di sperimentazione e riflessione per poco più di un anno. In quei mesi avevamo unito menti e corpi in un processo che aveva generato un fortissimo senso del Noi, dell’unità. Potevamo riconoscerci, emozionarci insieme, criticarci, allontanarci e ritrovarci, senza timore di perderci. Nel lavorare tra corpo e parola, biografia e mondo, avevamo generato bellezza, cura e appartenenza. Certo, ognuno tornava poi al suo fare, alla realtà quotidiana. Ma quei weekend nel verde, nella bellezza di un borgo toscano, nella qualità dei gesti condivisi, offrivano una base sicura per tirare avanti, per aprire possibilità. Per sentirsi sicuro e uscire dalla comodità di pensieri e azioni già note, l’umano, anche adulto, ha bisogno di uno spazio sufficientemente buono, transizionale (Winnicott, 1993). Nello scrivere l’epilogo di quel libro collettivo mi ero ispirata alla pratica del “dialogo delle voci”, proposta da Isabella Venturi nel suo capitolo e in un lungo weekend di danza, scrittura poetica e letteratura, tra miti antichi e archetipi. Il femminile e il maschile abitano dentro ciascuno di noi e danno forma al nostro muoverci nello spazio, che è un pensare con il corpo.
Nello scrivere quel testo sentivo il bisogno di accantonare per un attimo la voce accademica, così greve di premesse, spiegazioni e razionalizzazioni, per lasciar fluire una scrittura organica, in contatto con la mia parte femminile, morbida, relazionale. Rileggendo, riconosco che ogni frase è densa di teoria, di epistemologia, ma anche altro – e qui una parola che mi manca.
Regole
I testi collettivi sono “carta straccia” per la nostra accademia. Le rigide regole di valutazione della qualità della ricerca premiano opere di autori singoli. Prodotti standard: introduzione, metodologia, risultati, conclusioni. Il lavoro collettivo vale solo tra accademici riconosciuti, possibilmente dottori di ricerca, purché ciascuno sia in grado di certificare esattamente quali pagine ha scritto. La valutazione tra pari premia la mediocrità, la standardizzazione, il pensiero dominante. Costruire sapere con i professionisti della cura va bene, ma non rientra nella ricerca. Semmai, nella “terza missione” – un ambito residuale, “terzo” appunto.
A distanza di anni mi interrogo sugli effetti delle nuove regole del gioco accademico sulla mia scrittura, sul mio desiderio di scrivere. I vincoli strutturali plasmano le nostre scelte, menti e possibilità. Ho coordinato un dottorato in educazione, ho valutato e valuto costantemente i “prodotti della ricerca” (già questo linguaggio produce effetti perversi), ogni giorno vivo sulla mia pelle il dilemma tra “pensare sistemico” e “agire lineare”, ma anche tra autenticità, risonanza, respiro e alienazione, conformità, accelerazione (Rosa, 2016).
Pollice verde
E allora ripenso alle parole di Bateson sulla bellezza: “A me sembra che, pur senza alcuna analisi esauriente dei relativi fattori cibernetici, certe persone si astengano dalle azioni che produrrebbero bruttezza, e che esistono persone col «pollice verde» nelle loro relazioni con gli altri sistemi viventi. Sono incline ad associare questo fenomeno a una sorta di giudizio estetico, a una consapevolezza dei criteri dell’eleganza e di certe combinazioni dei processi che portano all’eleganza anziché alla bruttezza” (Bateson, 1997, pag. 388).
L’idea di bellezza in Bateson ha a che fare con l’esperienza estetica, la responsività, la composizione. Una risonanza tra dentro e fuori. Tra Io e mondo. Il giudizio estetico di cui parla non è un’operazione razionale o intellettuale, ma una risposta integrata alla differenza che genera altra differenza, una danza nella quale non c’è giusto o sbagliato, bello o brutto, c’è il danzare. In un mondo che sembra andare inesorabilmente verso la bruttezza, la violenza, la dis-connessione, fare bellezza è un’azione politica, di resistenza e accoglienza.
In un altro, più recente, libro collettivo sulle regole della bellezza nel lavoro pedagogico-sistemico (Formenti, 2024), scritto con Antonella Cuppari, Marcella Lisi, Silvia Luraschi, Sonia Mastroeni, Mara Pirotta, Andrea Prandin e Alessandra Rigamonti, la citazione di Bateson è stata un faro per riflettere sulle scelte quotidiane e incorporate, sui posizionamenti e valori di chi lavora con le persone, con i contesti a rischio, nei servizi per le famiglie vulnerabili, con la dis-abilità (un termine da decostruire, interrogare, reinventare), con i cittadini e le cittadine non visti, non pensati, maltrattati dal sistema, dalle istituzioni. Prendersi cura della bellezza pur tra mille contraddizioni, “senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo” (Dolci, 1974). Perché tutti citano solo l’ultimo verso di questa poesia, “Ciascuno cresce solo se sognato”? Perché l’assurdo, il conflitto, la crepa ci terrorizzano. E la bellezza diventa ricerca irenica, come dirò più avanti.
Connessioni
Bellezza è cercare il pattern che connette. Creare ponti tra parti del sistema. Ricucire legami sfilacciati, tra ricamo e rammendo. È anche creare idee inedite attraverso l’ipotizzazione sistemica (un concetto dei Fab Four milanesi, Selvini, Boscolo, Cecchin e Prata, 1980), unita però all’immaginazione e al dialogo. Fare ricerca con i professionisti mi piace, mi convince, dà senso al mio lavoro. Praticare con loro nei laboratori, in aula con gli studenti, mi dà grande gioia. Cura, appartenenza, lavoro condiviso creano un sapere di qualità, in movimento. Non credo di avere il pollice verde delle relazioni, come i miei compagni e compagne di viaggio, ma mi piace pensarmi come elemento connettore, catalizzatore. Persone a cui voglio bene, a cui ho insegnato qualcosa, da cui ho imparato tanto, ce ne sono, per fortuna.
Urlo
“Io e il mio testo – scrittura maschile
Gettare un seme. Che cosa significa costruire una buona teoria? Esistono cattive teorie? Una teoria, se è soddisfacente per chi l’ha formulata, è buona per definizione. Ma fragile, si spazza via al primo alito di vento. Rafforziamo le nostre teorie perché sopravvivano a lungo, se crediamo nel loro valore.
Ti scriverò con cura e con rigore. Terrò gli occhi ben aperti perché la passione non mi offuschi la vista. Dovrò argomentare ogni singolo passaggio. Rifarmi alla tradizione. Rispettare le gerarchie i saperi accreditati. Non per sottomettermi o diventare compiacente, ma per assicurarmi che tu, mia futura creatura, possa attecchire e un giorno camminare le strade del mondo.
Devo assumere una responsabilità grande, verso me stessa e chi ha avuto fiducia in me, verso le teorie, verso i Maestri che mi hanno formato e per i quali ho un debito di riconoscenza. Devo fare un esame di realtà. I limiti, meglio riconoscerli. Vivo in un contesto sociale che mi fa vivere, non mi vincola soltanto. Saprò distinguere i vincoli sensati, utili, accettabili, da quelli autoimposti, inutili [o] improduttivi.
[…] E poi c’è la sensualità di un pensiero forte, ben detto, una parola che per un attimo può darti un pugno nello stomaco, un brivido, un sussulto. Non voglio scrivere in modo sdolcinato: la chiacchiera femminile del quanto stiamo bene, quanto siamo buoni, e l’ascolto come melassa che ti avvolge e ti soffoca.
Ecco, voglio scrivere «da urlo»” (Formenti, 2009, pag. 329).
Qui c’è parecchia materia di riflessione per la psicoanalisi e anche per la me femminista che oggi vede con sospetto e maggiore chiarezza gli stereotipi maschili e femminili interiorizzati. Però, al di là di questo, continuo a riconoscermi nel lavoro interminabile di com-posizione tra animus e anima, tra razionalità ed emozioni, tra la parte socializzata di me e quella selvaggia, primigenia. La bellezza è disordine e ordine, scomposizione e ricomposizione, riconoscere i binarismi e trovare una cornice che possa rap-presentarli. Non sempre per superarli. Il dilemma va anche abitato, e l’arte ce l’insegna.
Saggezza
Per presentare il metodo sistemico uso “Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva” (Bateson, 1967, in Bateson, 1976, pp. 160-188), che esplora le condizioni della saggezza sistemica e le esemplifica attraverso l’analisi di un quadro balinese. È sorprendente quanto sia attuale e generativo questo testo, scritto per un congresso di antropologi in un momento storico nel quale il mondo stava per esplodere in un tripudio di proteste, ribellioni, proposte, canzoni, manifestazioni, desideri, unioni e disunioni, alla ricerca della pace, della libertà, della fratellanza e del riconoscimento di nuovi valori. Ripenso molto agli anni ‘60 e ’70, un po’ come tutte le persone mature che tornano con la memoria alla loro giovinezza – sto facendo ancora i conti con un’adolescenza non proprio felice, ma mi accorgo di quanto la mia generazione sia stata plasmata dalla speranza di un futuro… Vorrei invecchiare in saggezza, in contatto con me stessa, gli altri e le cose. La dimensione biografica mi aiuta. È il mio scrigno dei tesori. La radice di tutto ciò che sono e che posso pensare.
Poesia
Un serto delicato è la mente
che ondeggia la prima stagione,
la primavera è il pensiero.
Tu Laura se pensi
avrai primavere ogni giorno,
tu Laura se ami
perderai le tue foglie (Alda Merini, 16 marzo 2003)
Tu Laura
se attendi l’oscurità della notte
irrazionale e caotica
potrai vedere
con la luce delle stelle
le opportunità e le persone
misteriosamente più belle (Vanna Puviani, 16 marzo 2009)
Lo sedici dell’anno sessantuno
Al mese di dio Marte, dio guerriero
Nel giorno fausto a Giove, per Nettuno!
Al mondo venne fulgida davvero
Bimbetta tutta rosea a paffutella
Bella come niuno vide al mondo intero.
Laura era nomata, questa stella
[…]
Nel mezzo del cammin della tua vita,
- non mi sovvien chi disse questa cosa,
ti dico, e spero a te cosa gradita,
che t’amo tanto e sopra ad ogni cosa.
Se qualche volta ti ho testé ferita
Non è per cattiveria o volontà
Sei il miele, dolce amor della mia vita” (Roberto, 16 marzo 2011)
Ricevere in dono poesie. Che strana circostanza! Dicono qualcosa di me vista dall’altro. Mi interrogano, mi richiamano a una relazione. Le conservo e le rileggo di tanto in tanto.
Come vorrei saper scrivere in modo poetico!
Catturare l’altro con le mie parole, con un racconto ben scritto, una canzone, un gesto, un disegno. Ci ho provato. Se “ogni uomo è un artista” (Beuys), non è perché i suoi prodotti siano eccelsi, ma perché ognuno di noi è capace di sentire, soffrire, relazionarsi con sé stesso e con il mondo. La ricerca della bellezza non è produrre una cosa bella e nemmeno essere riconosciuti. Azione, non opera. L’opera, scrive Arendt, è qualcosa di solido, di reificato, che parla della nostra addomesticazione. Si riferisce “all’ebbrezza provata per l’esercizio violento di una forza con cui l’uomo si misura contro le forze soverchianti degli elementi” (Arendt 2008, pag. 100).
La ragione strumentale, che scambia i mezzi con i fini, domina il nostro mondo. Ha dominato a lungo anche il mio. Praticare i linguaggi estetici mi ha cambiato.
Spiragli
A partire dall’Ottocento, l’arte occidentale prende sempre più le distanze dalla riproduzione del reale. Dopo una lunga fase storica che premiava la capacità di rappresentazione naturalistica, dopo l’invenzione della prospettiva che celebrava l’epistemologia umano-centrica (anzi: la centralità del maschio bianco dominatore e colonizzatore, imperatore, papa o mercante, al quale l’arte si indirizzava e si piegava), gli artisti delle nostre latitudini iniziarono a sperimentare altre forme di rappresentazione, anche ispirandosi all’arte primitiva (effetto imprevisto del colonialismo). Cominciò dall’arte, dunque, l’uscita dal quadro, simbolica e letterale, che caratterizza la contemporaneità nei Paesi ad alto sviluppo tecnologico. “Varcare i confini della composizione figurativa non significa abbandonare i limiti del quadro, ma vuol dire al contrario ampliare il contenuto del quadro, dando a quest’ultimo un contenuto meno ovvio, più raro di quelli espressi dal naturalismo” (Iacono, 2005).
La bellezza non è più quella del canone, delle proporzioni classiche, della celebrazione del potere e della gloria (di Dio, dei Signori della Terra). Vedere la cornice è come squarciare il velo di Maya. Il proprium dell’arte contemporanea è dare accesso alle premesse per cogliere ciò che resta al di là della soglia di percezione, in un mondo addomesticato e anestetizzato. La costruzione moderna di un mondo adulto, razionale, convenzionale, serviva a creare l’illusione di aver compreso tutto. Bateson direbbe che nutriva la hybris dell’uomo occidentale medio. Ma noi non funzioniamo così: “normalmente noi viviamo in mondi intermedi. Quando ci immergiamo in un universo di significato non abbandoniamo gli altri universi, è come se li percepissimo con la coda dell’occhio” (Iacono, 2005, pag. 10).
L’arte ci offre spiragli su questi mondi intermedi, ci invita a esercitare pienamente la capacità umana di percepire e di stare nel molteplice. Iacono (2005) cita Paul Klee (1959), un artista, ma anche Winnicott (1993); lo spazio transizionale è quello che consente di spostare la prospettiva, fare un’esperienza nuova, sopportare lo spiazzamento che comporta e che può essere doloroso o terrificante. E invece è la certezza, la rappresentazione “naturale” delle cose che dovrebbe spaventarci, perché il mondo in cui viviamo – e il modo umano di viverlo - non è come ce lo dipingono.
Spiazzamento
Scrivere ha riportato alla memoria tante conversazioni con Donata Fabbri e Alberto Munari, che hanno fatto della ricerca della bellezza uno dei pilastri del loro modello di formazione e di ricerca sulla condizione umana. Nell’epistemologia operativa (Fabbri, Munari, 2005) la bellezza è via maestra per lo spiazzamento cognitivo, per l’esplorazione del nostro rapporto con il sapere e per generare una riflessione sulle premesse che mettiamo in atto in ogni operazione mentale, in ogni interazione con gli oggetti, gli altri e il mondo. Lo starter, ovvero la prima azione di un Laboratorio di Epistemologia Operativa, deve essere bello e spiazzante, attrarre e sorprendere, generare un riposizionamento rispetto ai luoghi comuni, alle aspettative. Donata passava notti intere a cercare immagini, oggetti o domande per creare la perturbazione che, a contatto con la struttura cognitiva del singolo e del gruppo, avrebbe avuto una buona probabilità di innescare la differenza che fa differenza.
Bateson era il suo ispiratore principale: la Regina di Cuori di Alice, la differenza tra un sasso e una conchiglia, la domanda dello specchio in Mente e natura (1984) diventavano così spunti per generare meraviglia e interrogazione. Niente è più bello della mente umana al lavoro.
Disturbo
L’idea dominante di bellezza è irenica, estetizzante, pacificante. Prescinde dal disturbo, dalla messa in discussione delle premesse. Quanto rassicura trovare una bella immagine da appendere in salotto o da inserire nel frontespizio di una tesi! Quanto ci soddisfa, a noi adulti istruiti e beneducati, ascoltare un brano musicale di nostro gusto (qualsiasi esso sia) o leggere dei versi che risuonano con l’emozione del momento. Non sto parlando (solo) della bellezza classica, della tradizione estetica del canone, delle regole matematiche della sezione aurea (Corbalán, 2012) (o forse sì, visto che tali regole appaiono universali, valide per una varietà sorprendente di fenomeni, la sezione aurea c’entra sempre, anche in ciò che sto scrivendo).
Sto parlando dell’azione che espone l’assurdo, che mette in piazza i panni sporchi dell’umanità, che mira a generare consapevolezza della bruttura. Sono estremamente grata a chi sa farmi pensare con un atto creativo. Banski. La poetessa Chandra Livia Candiani (e la Merini ovviamente). Le attiviste iraniane Atena Farghadani, Zoya Shokooi, Sahar Ajdamsani. O Sayeh Kazemi, che in una sera d’estate di due anni fa è riuscita a spiazzarmi davvero, profondamente, con una delle sue docce gelate (letteralmente!).
Cantare
Ricordo una scritta su un muro di periferia: Fight for beauty. In nero con la vernice spray, bello grande. Qualcuno con il rosso aveva sovrascritto la parola sing sopra fight. Sing for beauty. Mi ero immaginata un dialogo a tre. Prima, il writer innamorato della bellezza e pronto a combattere per portarla al centro dell’attenzione. Un valore condiviso per il quale lottare, a qualunque costo. Trasgredire. Lasciare un segno. Quel muro scrostato parlava di un mondo dal quale la bellezza era bandita. Per riconquistarla, la via era la lotta. Il secondo passante aveva visto la scritta e tentato una risposta. Non è scontato: quante volte passiamo e non vediamo? O ci limitiamo a scuotere il capo per l’atto di vandalismo (un attentato alla proprietà, illegale, esecrabile). Quante volte ci viene inviato un messaggio che non cogliamo? Invece questa persona era attenta: ha colto il messaggio e lo ha fatto suo modificandolo. La sua risposta è: non si tratta di imporre un nuovo valore con la forza, ma di fare qualcosa che celebri la bellezza, la mostri nel suo farsi. E allora canta. E io, che arrivo terza, come mi posiziono tra questi due personaggi? Tra la strategia attivista, ingaggiata, e quella estetica? Forse hanno ragione entrambi (Sclavi, 2003). O forse c’è una terza via, da ricercare.
Quando canto con il coro, la mia voce di mescola alle altre. Più pratico, e più riesco a sentirle tutte e a godere del loro amalgamarsi, sia quando è imperfetto (e ridiamo insieme dei nostri errori), sia quando, anche solo per qualche istante, sperimentiamo l’unità, l’armonia. Il canto è sperimentare “la libertà della grazia” (Giannini, Marabini, 2014), ma questo richiede ascolto, di sé e degli altri.
Voci
Grazie all’incontro con Serena Ferrara, Germana Giannini (Giannini, Marabini, 2014) e Domitilla Melloni (2022) ho imparato a liberarmi dall’idea che avevo della mia voce, dall’aspettativa su come dovesse essere e quindi dal giudizio. Ho iniziato, con Serena, a sentire il mio corpo che canta. La voce è respiro, postura, movimento. Grazie a Germana ho iniziato a collegare il canto alla concentrazione, all’ascolto di tutto ciò che sta intorno, alla cultura, al mito. Ho anche capito che in una società afona, che ha perso il rituale collettivo del canto per piegarsi alle regole della competizione e del talento, la bellezza dell’esperienza canora è estremamente sottovalutata. Ho imparato che se canti da solista sopra un bordone che ti sostiene puoi vivere un’esperienza di trascendenza: la tua voce non conta più, conta come si armonizza il tutto. E allora comprendi perché tutti i popoli hanno canti, danze e musiche che si fanno insieme. Domitilla è il ponte con le pratiche filosofiche, la cura di sé, dell’altro e del mondo. Voci. Donne alle quali mi sono affidata in percorsi di conoscenza, esplorazione, trasformazione. Donne diversissime, in ciascuna di loro si rispecchia una parte di me. Io sono tutti quelli e quelle che ho incontrato.
Coerenza
Esiste una profonda coerenza tra quello che siamo e diveniamo, cosa e come lo facciamo. Il ‘cosa’ è importante: parlare di bellezza, usare parole belle, specialmente laddove meno ce le aspettiamo, fa parte della ricerca. Ma se il cosa diventa prodotto perdiamo la barra del timone, c’è della bruttezza anche nei prodotti apparentemente più belli. È nascosta, va stanata. La domanda che mi pongo è: con quale postura mi avvicino a un concetto così misterioso, per dire di una delle esperienze umane più ineffabili, più inafferrabili?
L'azione non è separabile dal concetto. Dichiarare la bellezza senza praticarla è un nonsenso. E allora ti chiedo e mi chiedo: Che cosa fai? Quali azioni/interazioni metti in atto per generare bellezza nel quotidiano? La citazione di Bateson sul “pollice verde” porta le relazioni in primo piano. Non c'è bellezza senza relazione, anzi l'esperienza della bellezza nasce proprio dalla nostra capacità di relazionarci, di risuonare.
Significato
Dalla relazione nasce il significato. Bellezza e significato sono epifenomeni dello stesso processo, il funzionamento del nostro corpo-mente. L'esperienza estetica, nella quale il dentro e il fuori coincidono, dipende dai sensi e dal funzionamento del cervello (Gallese, Morelli, 2024), ma la biologia non è sufficiente a contenere tutta la complessità di questa esperienza. Non c'è sguardo sistemico senza complessità, senza la consapevolezza dei livelli – micro, meso e macro – e allora il significato della bellezza, la sua forza nel generare nuovi significati, emergono dalle connessioni tra biografie individuali, sistemi prossimali (famiglia, gruppo, organizzazione) e sociali, nell’epoca storica e cultura/culture che attraversiamo. Tutti questi livelli concorrono nel dare senso all’esperienza della bellezza e della bruttezza e ai loro effetti nelle vite umane.
Biografia
Ciascuno dovrebbe poter ripercorrere la sua personale relazione con la bellezza, con la capacità o incapacità di vedere i dettagli, di risuonare con essi in una certa situazione, in relazione con un fiore, un animale, una persona, una storia, un'opera d'arte… Certo, l'arte aiuta, aiuta moltissimo se fin da bambini si viene esposti e immersi nell'esperienza artistica, non come una materia scolastica ma come qualcosa di biograficamente incarnato.
Nel mio caso, fu mio padre il primo coltivatore di bellezza. Nel 1972 ci portò tutti a Firenze per tre giorni indimenticabili, nei quali - da autodidatta come era - cercò di insegnarmi come usare gli occhi per osservare la Venere, la Primavera del Botticelli, la Madonna della seggiola e il Tondo Doni. Quest’ultimo mi colpì particolarmente, la sua madonna bellissima, carnale, per me aveva i capelli corti non so dire perché. Mi sembrò una donna vera, dei nostri giorni, erano gli anni '70 e le ragazze cominciavano a mostrare un lato diverso della propria femminilità.
Mio padre era molto appassionato della tecnica pittorica. Fu lui a mostrami come dare il senso della profondità in un paesaggio colorando gli oggetti più lontani in azzurro leggero, effetto dell’aria che ci sta in mezzo. Che sorpresa! Nel Tondo Doni, il cielo in lontananza, le montagne, si scolorano. Devi alleggerire molto la pittura per creare questo effetto. A casa, mi dedicò un lungo pomeriggio sottraendolo al suo lavoro per aiutarmi a realizzarlo. Volle iscrivermi alla Scuola d’arte applicata organizzata dalla Società di Mutuo Soccorso, la sera per gli adulti, il sabato per noi ragazze e ragazzi.
La pittura è stata mia compagna nell’infanzia, ma tutte le arti erano valorizzate nella mia famiglia. Poco istruiti, i miei sono stati grandi consumatori culturali. E così musica, teatro e naturalmente la fotografia, arte minore che diventò il lavoro di mio padre.
Non riesco a capire chi può vivere senza arte. Quando iniziai a frequentare altre famiglie dei compagni di scuola dei miei figli, scoprii che molte non avevano nessun rapporto con la musica. Perfino una delle maestre, quando la conobbi meglio, non aveva in casa una libreria, non vidi un libro, un disco o un CD. Mi colpì tantissimo. Come si fa a insegnare se non si coltivano interessi, emozioni, sensazioni che solo la fruizione dell'arte ti può dare?
Opportunità
Non viviamo in una società che crea opportunità uguali per tutti. Moltissime persone non hanno modo di avvicinarsi all'arte, di sperimentare quel tipo di bellezza. Persone che non sono mai entrate in un museo, in una mostra, che non riescono a godere di un'opera semplicemente perché è mancata loro l’esperienza. Il luogo comune dice che per apprezzare la bellezza delle opere devi essere colto, conoscere la Storia dell’Arte, le regole, la teoria che ci sta dietro. Questa pesante eredità culturale, molto forte nel nostro Paese, riserva il godimento dell’arte alle élite e celebra la tradizione antica rispetto al nuovo. Mi viene in mente Pretty Woman, la scena in cui la protagonista piange ascoltando un'aria lirica perché la tocca nel profondo. Internet è pieno di video di bambini molto piccoli che si commuovono ascoltando una canzone, si emozionano, ballano, ridono. Questa risonanza non dipende da quanto conosci le regole, la tecnica, la teoria. Devi avere innanzitutto l’opportunità.
Risorse
Mi ritengo fortunata ad aver vissuto in una famiglia di artisti, un artigiano di provincia come mio padre, un concertista affermato come mio fratello, ma anche l’arte silenziosa e invisibile di mia madre, grande creatrice di opere uniche. I miei figli hanno colto questa possibilità, scegliendo linguaggi che permettono l’espressione di sé e la costante ricerca personale. Mi accorgo che l’esperienza della bellezza è un potente motivatore, la risorsa principale che metto in campo per continuare a divenire. Per stare bene.
Sono grata alla mia storia e alla possibilità di raccontarla, perché mi ha formata, mi ha preparata ad affrontare i momenti di pesantezza, di bruttezza e di dolore, che richiedono la capacità di stare, di ascoltare, di comprendere. Trovare l’energia per stare nelle difficoltà mie e delle persone amate, cantando, leggendo una poesia, depositando un’emozione negativa nel foglio bianco. Con l'età queste esperienze aumentano, si tocca con mano la fragilità, la vulnerabilità e la perdita.
Non è solo un fatto personale. L’epidemia di bruttezza è grave. Peggio del Covid. Vengo interpellata sempre più frequentemente da professionisti e agenzie, enti e associazioni per recuperare gruppi di operatori che sembrano sull'orlo del naufragio, sballottati dalle onde d'urto di un mondo sempre più crudele, ingiusto e violento. Il lavoro pedagogico, sociale, di cura, perde significato. L’insegnare e l’apprendere non sono più valori universalmente riconosciuti (se mai lo sono stati). Le relazioni conflittuali non evolvono, esplodono. Le guerre riverberano nei corpi, nelle menti, nelle anime delle persone, cittadini e famiglie infragiliti da contesti mortiferi. Gli operatori del sociale - educatrici pedagogisti assistenti sociali psicologi - e i loro coordinatori e responsabili perdono i riferimenti, smettono di essere faro, porto sicuro, qualcuno che è lì per darti il messaggio che non sei solo, che non siete soli, che c’è speranza.
E poi vedo un video di circensi che fanno ballare i bambini a Gaza.
Organizzazione
Quali azioni e interazioni hanno maggiore probabilità di generare bellezza e significato? Quali organizzazioni sono più vicine alla bellezza? Nel libro Le regole della bellezza (Formenti, 2024), dieci pedagogisti raccontano i loro movimenti tra servizi e ruoli diversi: coordinamento, consulenza, formazione, supervisione e valutazione. La dimensione organizzativa non viene generalmente collegata alla bellezza, eppure l'organizzazione è il fondamento delle relazioni umane, senza organizzazione non c’è società, non c'è collettività e quindi appartenenza e identità, che sono la base per la bellezza e il significato, per l'arte, la musica, il lavoro, la cura, l'educazione…
Quando proponi l’organizzazione come tema di un incontro di formazione ti accorgi che molte persone la vivono con pesantezza. Una parola fredda, arida. Come organo, organismo e organico, l’organizzazione è un’azione collegata alla sensibilità, al corpo. Prendersi cura della bellezza dell'organizzazione e dell’organizzare, è coltivare luoghi organici, spazi pensati per accogliere le persone che li devono abitare, fatti perché le persone che li abitano sentano che lì si può partecipare, risuonare, danzare (metaforicamente e letteralmente). Il pollice verde di cui parlava Bateson non è un dato intrinseco all'individuo, certo può essere alimentato dall'esperienza biografica e alcuni paiono avere una speciale sensibilità per le relazioni, superiore alla media. Ma ci vuole un contesto organizzato, capace di togliere la media delle persone da uno stato permanente di alienazione.
Dispositivo
La bellezza è una qualità emergente da una complessità organizzata: combinazioni di stimoli, processi interni ed esterni, dimensioni consce e inconsce, modi diversi di stare in relazione gli uni con gli altri e con l’ambiente. Recentemente in un Comune vicino al mio è stato esposto il Narciso di Caravaggio. Una serie di circostanze fortuite mi ha portato a incontrare quest’opera in uno spazio vuoto, intimo, per un tempo prolungato. Se fossi arrivata cinque minuti dopo avrei avuto la fila, l’entrata in gruppi di 8-10 persone, la guida che ti spiega anche quello che non vuoi sapere. La fretta. Come cambia la nostra esperienza quando il dispositivo assume caratteri di organicità? Il bello non ha fretta. Il bello si appoggia sul respiro. Il bello è sacro. Si entra in punta di piedi, come in chiesa. L’organizzazione è questo per me.
Disorganizzazione
Il cervello umano, il corpo, la natura non ha solo funzionamenti armonici. Non c’è sistema vivente senza entropia, disorganizzazione, asimmetria, frammentazione… come un momento di pausa che ci permette di tirare fiato o di traballare, per poi tornare nell'organicità. Cicli. Composizione di movimento e stasi. Le discese ardite e le risalite. Momenti apparentemente piatti che ci danno tranquillità o ci annoiano, ci mettono a nostro agio per poi poterci scardinare con una provocazione. Perdite dolorose che annunciano una nuova nascita. Dis/organizzazione come complementarità cibernetica.
La bellezza è movimento. Nei contesti in cui lavoro, vedo la mancanza di movimento o la sostituzione del movimento organico con un moto imposto, un ritmo che non è quello degli umani. Ritmo tecnologico procedurale burocratico fatto di tanti piccoli compiti disconnessi gli uni dagli altri, di cui non si vede la fine. Siamo ancora nella catena di montaggio di Chaplin, ha solo un aspetto diverso. Si perde il senso della singola azione quando non si vede il tutto nel quale è inserita. Non si riesce a prendere il ritmo. La risposta alla disorganizzazione non è l’aumento parossistico delle procedure, della rendicontazione, del controllo, ma la ricerca della complessità organica, il pattern che connette.
Macrosistema
Viviamo grandi contraddizioni: un mondo che a parole sembra celebrare la bellezza ma poi non la coltiva. Siamo all'apice della bruttezza, anche in Europa, come avvenne prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, come avviene in molte parti del mondo ogni giorno da sempre… perché le guerre non sono mai finite e la bruttezza della guerra è nella fine di ogni organicità, di ogni possibilità. Sentirsi impotenti, schiacciati dal Golem è un attimo.
Coltivare
Bellezza, significato e partecipazione mi appaiono oggi come i vertici di un unico triangolo generativo che può sostenere la pratica, la ricerca e le politiche in ambito educativo. La relazione tra queste tre parole è nel verbo “coltivare”: alimentare quei processi che generano e diffondono bellezza, significato e partecipazione. Insieme. Un po’ come liberté, égalité e fraternité: hanno senso solo insieme. L’una senza le altre diventa sterile, astratta, illusoria. Diventa la negazione di sé stessa. La generatività dei processi educativi e formativi dipende da molti fattori: le condizioni di partenza, gli strumenti usati, i modelli di riferimento, ma sopra tutto la coltivazione di quei processi che, nel tempo, possono sviluppare connessioni. Non controllabili, rizomatici, imprevisti. Non so se la bellezza salverà il mondo, ma processi educativi che provano a coniugare bellezza, significato e partecipazione possono cambiare le vite delle persone.
Conclusioni
Ho provato a superare la vertigine cercando punti d’appiglio nell’esperienza, nella riflessività, nell’attrazione per alcune parole/concetti. Ho “girato intorno” alla bellezza, più che prenderla di petto. Ho usato la coda dell’occhio (Iacono, 2005) per provare a cogliere la bellezza dello sconfinamento, dell’attraversamento di realtà multiple, della contraddizione e del dilemma, della relazione. Tra le cose come sono e le cose come dovrebbero essere, voglio ricordarmi sempre che c’è uno spazio creativo che rende la vita sopportabile.
Bibliografia
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Foto di Gaia Bonanomi