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È un fisico teorico ed epistemologo presso l'Institute for Scientific Methodology (ISEM), di Palermo, la School of Advanced International Studies on Theoretical and Nonlinear Methodologies of Physics, Bari, e l’International Institute for Applicable Mathematics and Information Sciences (IIAMIS), B.M. Birla Science Centre, Hyderabad, India. Le sue ricerche riguardano i fondamenti delle teorie fisiche, la cosmologia quantistica, la fisica dell’emergenza, teoria dei sistemi e reti neurali. Ha oltre 200 pubblicazioni tra articoli di ricerca e curatele.
Sommario
La bellezza viene in genere considerata come concetto definibile all'interno dell'esperienza estetica. Qui offriamo al lettore, senza alcun obiettivo di esaustività, alcune riflessioni sulla bellezza intesa come esperienza legata a tutte le sfere dell'agire umano. Proponiamo alla fine una considerazione sull'evento bellezza in relazione ai qualia.
Parole Chiave
Emergenza intrinseca e computazionale, Dipolo soggetto/oggetto, Qualia.
Summary
Beauty is generally considered as a concept definable within the aesthetic experience. Here we offer the reader, without any aim of exhaustiveness, some reflections on beauty understood as an experience linked to all spheres of human action. Finally, we propose a consideration on the event of beauty in relation to qualia.
Keywords
Intrinsic and Computational Emergence, Subject/Object Dipole, Qualia.
1. Un'equazione
All'uscita da una conferenza un'amica filosofa mi ha chiesto: “Come si fa a dire che un’equazione è bella? In che senso?”. Ho capito subito di non poterne uscire con le argomentazioni standard dei fisici, spiegazioni confuse che in genere sovrappongono “bellezza” ed “eleganza” in un gioco di prestigio che tende a nascondere la ben più impegnativa dimensione della “bellezza” sotto la facile coperta dell'eleganza. Quest'ultima, molto usata per equazioni della fisica teorica o della matematica, è un modo per dire quanto una sorta di semplicità sintattica riesca ad esprimere un alto e complesso numero di concetti. Si tratta dunque della via più diretta tra A (una questione concettuale) e B (l'equazione che la contiene, e risolve). E' possibile che molti dei lettori di queste note trovino in effetti in questa “eleganza” qualcosa di efficace nel cogliere la “bellezza” di un'equazione. Qualcosa ci dice però che le bellezza è altro, non riconducibile ad una strategia che realizza a colpi di rasoio di Occam una struttura formale. Ad esempio gli
informatici riconoscono eleganza ad un algoritmo che con poche righe di codice riesce a produrre una gran quantità di informazione, e realizza dunque un'altissima compressione algoritmica. Ma la bellezza dovrebbe contenere altro, e liberare molto di più. Un algoritmo elegante realizza un principio di economia sintattica, ma non mette in gioco nuova informazione, semplicemente la zippa in poche righe. Facendo girare il programma l'informazione contenuta dentro l'algoritmo si libera e prende forma esplicita. Un caso ben noto a tutti è la sorpresa di uno schermo che si riempie di frattali in un dispiegarsi progressivo di scale e particolari. Ma non c'è nulla in quella spettacolare esplosione che non sia già presente nel programma che la genera, è un caso di quella che si chiama emergenza computazionale, un fatto di calcoli insomma, dove tutto è enumerabile, calcolabile passo dopo passo, e soprattutto dove non si manifestano nuovi livelli di informazione e dunque nuove sfide di significato rispetto all'informazione sintattica di partenza. Siamo lontani dalla bellezza, che dovrebbe essere piuttosto una qualità, qualcosa che si rivela.
Negli anni 20 del XX secolo David Hilbert definì un programma assiomatico per indagare natura e struttura della matematica. Prendendoci con un po' di irriverenza qualche grado di libertà dalla forma originale del dibattito sui fondamenti della matematica, possiamo illustrare l'approccio assiomatico dicendo che il programma consisteva nell'indagare la possibilità di ridurre tutta la matematica ad una sequenza numerabile di proposizioni di partenza, gli assiomi appunto, e regole di inferenza, una sorta di gigantesco programma che girando produceva tutte le proposizioni valide della matematica. Quella di Hilbert era una sfida ambiziosa volta a controllare la struttura dell'intera matematica per evitare incongruenze e paradossi, tutto doveva essere calcolabile in ogni passo e snodo. Era realizzabile? E' noto che la risposta definitiva fu un sonoro no espresso dai due formidabili teoremi di incompletezza che Gōdel realizzò nel 1931: ogni tentativo di comprimere la matematica in un sistema d'assiomi avrebbe lasciato qualcosa fuori, non sarebbe stato possibile dimostrare la coerenza del sistema e si sarebbero prodotte proposizioni indecidibili, non dimostrabili all'interno del sistema. La dimostrazione di Gōdel tocca i più alti livelli della raffinatezza formale, ma per i nostri scopi ci soffermeremo sul senso delle proposizioni indecidibili. E' quasi incredibile che un sistema assiomatico sufficientemente potente, cioè in grado di generare almeno la teoria dei numeri, possa generare proposizioni non dimostrabili che restano nodi isolati nella rete logica della matematica. Un simile risultato somiglia ad un algoritmo che dà risposte impredicibili per le quali non è stato progettato, un esempio di emergenza intrinseca non computazionale, qualcosa di inaspettato che sembra venir fuori dal nulla. I teoremi di Gōdel non hanno carattere coistruttivo, non ci dicono nulla su queste proposizioni, ma in effetti in matematica esistono. Sono proposizioni apparentemente innocue, facilmente costruibili con i materiali sintattici del sistema assiomatico, ma che si rivelano inaccessibili quando si tenta di dimostrarle. Un esempio ben noto è l'ultimo teorema di Fermat
dove a, b, c ed n sono numeri naturali e l'espressione è vera soltanto per n maggiore o uguale a 2.
Dal 1637 al 1994 questa proposizione, evidentemente vera, restò indimostrabile. Si può pensare ad una straordinaria eccezione, ma già il grande Gauss scriveva: “Vi confesso che il Teorema di Fermat come proposizione isolata mi interessa veramente poco, perché potrei facilmente buttar giù una moltitudine di proposizioni del genere, che uno non possa né dimostrare né trattare”. Ricordiamo che in matematica la dimostrazione non indica soltanto la connessione logica di una proposizione con altre che la giustificano logicamente, ma in quanto tale è anche il significato di quella proposizione, che viene collocata così in una posizione del reticolo di conoscenze. Con il tempo le dimostrazioni di un teorema possono arricchirsi, moltiplicarsi o cambiare forma e in tal modo rivelarne la natura profonda. Una proposizione indecidibile è dunque una forma alla ricerca di un significato. La matematica è piena di questo tipo di proposizioni, come l'ipotesi di Riemann che riguarda la “regolarità” dei numeri primi celata sotto la loro irregolarità.
La dimostrazione di Andrew Wiles dell'ultimo teorema di Fermat fa uso di rami della matematica che non esistevano ai tempi di Fermat, e sembra mostrare che le terre emerse del sapere matematico sono talmente forti da vincolare la struttura di un arcipelago di là da venire. Fu questo il motivo che spinse Gregory Chaitin a riformulare il contenuto dei teoremi di Godel come una rivelazione sulla natura della matematica come sistema logicamente aperto, un sistema che mentre si evolve modifica la sua organizzazione informazionale. Detto in modo più semplice, ogni congettura, per quanto innocente e costruita con gli stessi strumenti sintattici del sistema, può sbilanciare l'intero assetto della costruzione verso l'indecidibile. Il suggerimento per una comprensione intuitiva di come ciò può accadere viene dal considerare che l'intera matematica è permeata, e sospinta, dall'infinito. Scrive Hermann Broch: “...senza la preventiva conoscenza di un'incognita nessun problema ... potrebbe venir posto, né la matematica fa eccezione. E' appunto la precognizione dell'infinito e del continuum a spingere la matematica verso una costruzione via via sempre più complessa dell'infinita molteplicità degli enti” (Broch, 1965). L'infinito introduce una sorta di polisemia degli enti da cui prendono le mosse le ipotesi e le strategie dei matematici.
E così, dovendo indicare alla mia amica filosofa un esempio di bellezza matematica, posso evitare disquisizioni sull'equazione di Dirac e sulla fusione delle simmetrie relativiste con la meccanica quantistica (cosa, appunto, molto elegante!), salto in blocco l'identità di Eulero (poco più di un cocktail di trigonometria) e indico direttamente il teorema di Fermat, o una delle tante proposizioni simili di cui è piena la teoria dei numeri, per mostrare come l'apertura logica della matematica si svela anche nelle formule più semplici, come il mistero dell'infinito soffia su pochi simboli facendoli assurgere a enigmi indecifrabili e sorprendenti. Abbiamo detto che la bellezza è più una qualità che una quantità; azzardiamo dunque che l'infinito è un'entità che trasforma la quantità sintattica in qualità semantica. A questo punto so bene che mi si potrebbe far notare che il teorema di Fermat regala bellezza soltanto agli occhi di chi conosce il suo backstage. Dobbiamo allora interrogarci sul legame tra una cosa bella e chi quella bellezza sa vedere.
2. Di chi sperimenta la Bellezza
Uno dei problemi con la bellezza consiste nel gran numero di definizioni che sono state tentate. Le più diffuse sono quelle che fanno un vago riferimento alla nozione di simmetria, e si traducono poi nell'idea di una geometria efficace sulla corteccia mediale orbitofrontale. La nostra capacità di vedere pattern. Il limite di questi tentativi non riguarda soltanto il primato del visuale, ma l'idea che la bellezza è contenuta in una ricetta e che perciò è riconoscibile, replicabile e, alla fine, calcolabile. Peggio: che la bellezza è contenuta in un ente X, e da lì si propaga universalmente verso ogni osservatore. Che dire di quest'idea del bello “oggettivo” e dunque “universale”? Viene smentita quotidianamente dall'esperienza di ciascuno, in disaccordo con gli altri e persino con se stessi! Ricordo la volta in cui riuscì a vedere la Dama con l'ermellino dal vivo - quadro da me amato anche se visto prima soltanto in foto, riproduzioni o filmati. Restai imbarazzato dall'incapacità di provare qualcosa anche soltanto di paragonabile a ciò che in tanti anni di devozione a quest'opera avevo provato. Il rapporto tra l'ente X e la bellezza che offre ad un osservatore non è mai acquisito e definitivo. Piuttosto non si smetterà mai di sottolineare abbastanza l'unicità irreversibile e l'impermanenza dell'esperienza del bello. Una volta che la bellezza viene esperita, l'universalità si afferma come ricordo del bello, memoria individuale o narrazione collettiva, che non sono il bello ma ne celebrano la dimensione valoriale come storia. Gran parte delle perturbazioni dichiarate durante le visite al museo sono conferma di ciò che si sa, e non esperienza genuina.
Per accedere ad una visione globale bisogna spostarsi in altri ambiti che meno devono all'esperienza sensoriale. Si può facilmente concedere che l'occhio (come l'orecchio) vuole la sua parte, accettando un radicamento biologico forte della bellezza, ma per ragioni che vanno ben oltre lo stimolo sensoriale e il gioco di configurazioni. La bellezza ha sempre una sua tonalità erotica che riflette la fusione locale e instantanea tra osservatore e opera, un'intensa risonanza per cui soggetto e oggetto perdono i confini predefiniti. Questo coinvolgimento totalizzante accade sempre nell'esperienza autentica del bello. Per inciso, stiamo affermando che il bello non è un giudizio- magari costruito su definizioni-, ma l'esperienza di un evento, qualcosa che potrà poi essere custodita in una definizione come avatar dell'esperienza originale.
Lasciamo le opere d'arte (in genere lo study case dell'estetica) e guardiamo la scrittura, un territorio lontano dalla fruizione sensoriale ma che può offrire l'esperienza del bello persino in misura maggiore di ciò che accogliamo con l'occhio e l'orecchio, e che ci suggerisce come l'evento bellezza riguarda dinamiche soggettive interiori che possono arrivarci in modo diverso rispetto all'essere investiti da forme, colori e suoni. La bellezza è un'esperienza fisica e intellettuale insieme. Sui libri (ma possiamo estendere questa intuizione ad ogni scrittura) c'è un suggerimento interessante di Proust che Gustav Lanson riassume così: “Secondo lui non ci si aspetta un libro, ma sempre una mente che reagisce al libro, e vi si mescola” (Compagnon, 2000). Il riferimento a quella forma di telepatia che è la letteratura è il modo più diretto per comprendere il ruolo di chi percepisce la bellezza. Un libro non letto non è né brutto né bello e forse non esiste neppure, ma un libro letto ha tante vite quante sono i lettori, perché la lettura non è soltanto una mise en scene di ciò che la scrittura racconta, ma è al tempo stesso un'interpretazione del testo o meglio un atto di appropriazione semantica. Anche questa esperienza può non rinnovarsi più, restare unica o nella debole aura di un ricordo. C'è un verso bellissimo di Wallace Stevens che dice di questa straordinaria fusione:
La casa era quieta e il mondo era calmo.
Il lettore diveniva il libro; e la notte estiva
era come la vita cosciente del libro.
Il riferimento alla “notte estiva” ci ricorda che la bellezza non è nel libro in sé, ma è un evento sospeso sulla lettura, e vive il tempo della risonanza tra libro e lettore. La musica offre un'esperienza simile. Ancora una volta è importante posizionare l'evento al di sopra delle immediate seduzioni sonore, proprio come accade con i libri e le opere d'arte, che producono bellezza su un orizzonte che vede rispettivamente gli aspetti sintattici del linguaggio o le forme e i colori come un piano portante elementare di quell'esperienza globale che si realizza nella lettura o nell'ascolto. Benedetto Croce aggiunge molto opportunamente che se è possibile pensare un oggetto come la quinta sinfonia di Beethoven, impossibile è incontrarlo se non nella forma di una specifica interpretazione, es. la quinta di Herbert Blomstedt alla guida della Staatskapelle di Dresda, registrata per Eterna nel 1978. Per la natura peculiare della musica abbiamo a che fare con due interpretazioni, quella del direttore e della sua orchestra e quella dell'ascoltatore, cosa che rende plurale la possibilità dell'esperienza musicale proprio perchè la musica è il farsi di un flusso sonoro e non esiste in astratto. Ricordo di aver ascoltato Paul Badura Skoda nell'esecuzione della sonata per pianoforte n. 32, in Do Min, Op. 111, l'avevo ascoltata altre volte ma quella sera cancellò tutto quello che era rimasto prima, fu il mio vero incontro con questo monumento musicale del tardo Beethoven. Da quell'esperienza di assoluta bellezza trassi una nuova comprensione, non soltanto del mondo del titano di Bonn, ma qualcosa che riguarda la vita nella sua interezza. Non si ripetè più, neppure con Badura Skoda, anche se ne conservo frammenti luminosi della consapevolezza che ne trassi.
Esperienze come questa mostrano che sperimentare la bellezza è sempre un evento unico. Non ci aspetta paziente per l'ennesimo contatto in un quadro o una sala da concerto, nei versi di un poeta, anche se l'illuminazione ricavata resta in noi e nutre il sistema cognitivo anche sui passi nuovi di un cammino da venire. Possiamo anche ammettere che esistono eventi di bellezza di varie categorie. Non tutti provocano una sindrome di Stendhal, ma sempre l'impressione di qualcosa di nuovo e intenso che ci cambia. In questo senso l'esperienza della bellezza corrisponde ai qualia della scienza cognitiva (Licata, 2008), gli stati radicalmente soggettivi della coscienza che emergono dall'incontro tra mente e ambiente catalizzando una tonalità cognitiva altrimenti impredicibile. L'accento sulla soggettività scombina le categorie tradizionali del dibattito sulla bellezza. Se la consideriamo un'esperienza trasformativa dobbiamo fare un passo decisivo e distinguere tra la bellezza come costrutto dell'estetica, che implica dunque una considerazione critico-analitica sulle “cose belle”, e la bellezza come esperienza individuale di metanoia. Le due cose possono sovrapporsi ma restano distinte, il sublime di Kant va in questa direzione (sublime matematico, sublime dinamico).
3. Creare la bellezza
La crisi del bello, rispetto alle sorti magnifiche dello spettacolare, rivela come questa sia un'esperienza assai indocile quando la si consideri come qualcosa di realizzabile attraverso prescrizioni estetiche e ricette metodologiche, un po' come il famoso manuale Pritchard nel film L'attimo fuggente di Peter Weir (1989). Se restiamo nell'ambito di una pratica (matematica o arte o musica...) è possibile aspettarsi bellezza come nuova biforcazione rispetto ai sentieri battuti. Abbiamo citato in apertura la famosa equazione di Dirac la cui bellezza come forma è piuttosto discutibile, ma come concetto richiede tutta la nostra attenzione. Quando fu scritta il problema principale della fisica teorica consisteva nel fondere relatività ristretta e meccanica quantistica nella descrizione degli oggetti particellari. Dirac riuscì a trovare il metodo più semplice (eleganza) e assieme fecondo. In generale può ottenersi bellezza come realizzazione di una soluzione inedita, la mossa più efficace e innovativa in un determinato contesto (Licata, 2022). Analogamente si può pensare al passaggio dall'impressionismo dell'ultimo Cézanne al cubismo di Braque e Picasso, o alle risposte di Joyce e Beckett all'usura delle forme precedenti. Ancora, è esemplare lo sviluppo dell'unica rivoluzione permanente in musica, la capacità del jazz di ricrearsi continuamente. A proposito del jazz, le parole di Ted Gioia sull'anomalia di un'estetica dell'improvvisazione:
“Eppure, nonostante tutti questi ostacoli, l'osservatore, moderno si imbatte spesso in qualcosa di potente e prezioso nel suo rapporto con queste opere. La sua esperienza è tale da indurlo a ribellarsi contro la categorizzazione delle sue reazioni come arbitrarie o puramente soggettive, come risposte basate su arguzie e pregiudizi del momento, come reazioni personali a un oggetto fisico impersonale” (Gioia, 2007).
Il caso del jazz, sul quale ci sarebbe da soffermarsi a lungo, mostra con particolare evidenza come l'esperienza della bellezza musicale si configura come dialogo tra i musicisti e l'ascoltatore all'interno dell'esecuzione che diventa anche uno spazio interpretativo e di co-creazione. Come tale è unico e irripetibile, e per sua natura (del jazz e del bello) l'esperienza non è riproducibile neppure con una registrazione. A questo punto prendiamo atto che il bello è una sorta di entanglement tra un processo (anche un quadro e un libro si inseriscono in un processo socio-culturale) e un osservatore, ed è legittimo chiedersi se sperimentare il bello è qualcosa che ha necessariamente a che fare con le arti oppure è qualcosa di più generale che attiene al nostro rapporto con il mondo. Quello che le arti ci regalano è in realtà un atteggiamento, la capacità di percepire la distinzione di una qualità unificante in un mondo di pratiche quantitative. Questi percorsi preparano la bellezza, ma non la garantiscono. Una frase dell'architetto Mies van der Rohe mi ha sempre colpito per come fissa in modo esemplare la questione:
"Che cos'è in fin dei conti la bellezza?
Certamente nulla che possa essere calcolato o misurato. E' invece sempre qualcosa di imponderabile, qualcosa che si trova tra le cose"
Il “trovare tra le cose” indica che non esiste alcuna via probabile verso la bellezza, non c'è alcun modo di costruirla. Esiste forse un'attesa della bellezza fatta di gradini
d'esperienza e di tecnica, di lavoro critico e immersione pratica, ma l'esperienza della bellezza è come Godot, arriva o non arriva. Se si realizza possiamo gettare via la scala, altrimenti dobbiamo interrogarci sulla qualità della nostra attesa, o restare in balia di una bellezza povera, che si può indicare, enumerare, definire.
4. L' imponderabile
Alla fine a crollare è il concetto stesso di bellezza, almeno al di fuori dei manuali di estetica. Resta una parola che indica un momento diverso dagli altri, unico e irripetibile, qualcosa di complesso, con un gran numero di sfumature e intrecci, che ci guida verso una transizione della visio. E' un istante che non ha esatta definizione perché non ha un confine netto; non possiamo dire mai con sicurezza “il bello, lì” non soltanto per la sua natura diffusa tra l'osservatore e il mondo, ma anche perché, una volta sperimentato l'istante e la trasformazione, non si sa più dire cos'era il bello. Ci si rende conto che è qualcosa fortemente intessuto con altre qualità della nostra esperienza, vero e il buono, anche queste di difficile identificazione. Sono tre strani attrattori dell'esperienza, cose che ci rendono autenticamente e fragilmente umani, tre colori (per dirla con Kieślowski) che illuminano e connotano la nostra esperienza che vivono in un intreccio non locale, e sono quindi inscindibili. Eppure sono tre qualità diverse. Il vero indica che un patto con il mondo è riuscito, un equilibrio omeocognitivo si è realizzato; il buono che quel patto definisce la nostra natura e la nutre. La bellezza, delle tre la più imponderabile e sottile, è quella più difficile da decifrare perché dà al vero e al buono un carattere di perfezione atemporale che è precluso alla nostra esistenza.
Note bibliografiche
Broch, H., 1965. Azione e conoscenza, Milano, 1965.
(citato in) Compagnon A., 2000. Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino.
Gioia, T., 2007. L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea, Excelsior 1881, Milano, 2007.
Licata I., 2008. La logica aperta della mente, Codice, Torino.
Licata I, 2022. La resistenza del mondo. Connessioni (in)attese fra scienza ed arte, Divergenze, Belgioioso.