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Riflessioni Sistemiche n° 31


Bellezza

Il potere estensivo della bellezza

Foto di Vladislav83 da Pixabay

Ugo Morelli

Studioso di psicologia e scienze cognitive, insegna Scienze Cognitive applicate all’Università Federico II di Napoli. I suoi due ultimi libri sono: Indifferenza. Crisi di legame sociale, nuove solitudini e possibilità creative, Castelvecchi, Roma 2023; e Vittorio Gallese, Ugo Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024. 

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Sommario

La bellezza non è solo e non tanto l’aspetto formale ed esteriore delle cose ma, assumendo un paradigma corporeo, si propone come un’esperienza che può emergere da una risonanza particolarmente riuscita tra corpo-cervello-mente e mondo, tale da estendere la sensibilità e favorire l’accesso al mondo interno e al mondo esterno in modi e per vie che senza quella esperienza non si verificherebbero.

 

Parole chiave

Corpo, risonanza incarnata, bellezza, possibilità, accessibilità, esperienza estetica

 

Summary

Beauty is not only and not so much the formal and external aspect of things but, assuming a corporeal paradigm, is proposed as an experience that can emerge from a particularly successful resonance between body-brain-mind and the world, such as to extend the sensitivity and favor access to the internal world and the external world in ways that would not occur without that experience.

 

Keywords

Body, embodied resonance, beauty, possibility, accessibility, aesthetic experience

 

 

“Per un essere umano non c’è altro futuro

al di fuori di quello che l’arte promette”

[Iosif Brodskij]

 

 

1.      Potere estensivo del possibile

Se dalle vene poetiche di Iosif Brodskij è sgorgata la considerazione che la volgarità, intesa come il contrario della bellezza, può distruggere il mondo, alla bellezza si addice un potere estensivo delle nostre possibilità. Un potere salvifico derivante dall’aumentare in noi e verso il mondo i margini di accessibilità, scoprendo di noi e del mondo aspetti e dimensioni che senza l’esperienza di bellezza non sarebbero accessibili.

L’ipotesi di questo contributo, coltivata negli anni in più lavori considera la bellezza non solo e non tanto l’aspetto formale ed esteriore delle cose ma, assumendo un paradigma corporeo, la riconosce come l’esperienza che può emergere da una risonanza particolarmente riuscita tra corpo-cervello-mente e mondo, tale da estendere la sensibilità e favorire l’accesso al mondo interno e al mondo esterno in modi e per vie che senza quella esperienza non si verificherebbero.

Si pone, quindi, una questione di accessibilità.

È per questo, forse, che la volgarità e la barbarie se la prendono soprattutto con la bellezza: per l’insopportabilità del suo turbamento.

Fucilato dalla falange franchista, il 19 agosto 1936, muore Federico Garcia Lorca. A contraddistinguere la barbarie, più di tutto e anche in quel caso, è l’insopportabilità della bellezza. È il duende la dimensione più intollerabile per i massacratori. “La virtù magica del componimento poetico consiste nell’essere sempre intriso di duende”… “con duende è più facile amare, comprendere, ed è certo essere amati, essere compresi…”. Così si era espresso il poeta nella conferenza ‘Juego y teoria del duende’, tenuta a Buenos Aires nel salone della Sociedad de los Amigos del Arte, il 20 ottobre 1933. Quell’energia dionisiaca o forza magica che alimenta l’espressione artistica e che viene dal mondo interno, dai suoi meandri luminosi ed oscuri per esprimersi in creazioni estetiche uniche e straordinarie, estende e fa soffrire, esalta e travolge, al confine tra la vita e la morte. Lorca scrive: "Il duende, quindi, è una potenza, non un’opera. È una lotta, non un pensiero. Ho sentito un vecchio maestro di chitarra dire: 'Il duende non è nella gola; il duende sale dentro di te, dalle piante dei piedi'. Vuol dire questo: non è una questione di abilità, ma di stile vero e vivo, di sangue, della più antica cultura, di creazione spontanea".

L’esperienza del duende è ignota ai più; è invisa a molti, ma porta l’umano sulla soglia delle altezze più sublimi. Nulla la teme come il pensiero totalizzato e tende a negarla in ogni modo con la barbarie. La distruzione del corpo fisico è solo una delle vie che la barbarie pratica per negare e distruggere il duende. Come aveva intuito da par suo Iosif Brodskij, il più lo fa, e diffusamente, la volgarità. Non so se la bellezza salverà il mondo, ci ha lasciato detto; ma certamente la volgarità lo distruggerà. La poesia, secondo Brodskij, è l’unica assicurazione contro la volgarità del cuore umano. Lo è soprattutto quando, nel dolore, ci perdiamo o rimaniamo soli, come negli addii:

 

 

Addio

Addio,
dimentica
e perdona.

E brucia
le lettere,
come un ponte.

E che sia
il tuo viaggio
coraggioso,
che sia dritto
e semplice.

E che ci sia
nell’oscurità
a brillare per te
un filo di stelle
argentato,
che ci sia
la speranza
di scaldare
le mani
vicino
al tuo fuoco.

Che ci siano
tormente,
nevi,
piogge
e lo scoppiettio
furioso

della fiamma,
e che tu abbia
in futuro
più fortuna
di me.

E che
possa esserci
una possente
e splendida
battaglia
che risuona
nel tuo petto.

Sono felice
per quelli
che forse
sono
in viaggio
con te.

Eppure, nonostante la volgarità, il duende vive. Ci riesce sfidando persino la razionalità scientifica che, quando diventa scientista, nega la bellezza e il duende, come guida alla ricerca del senso della verità. È lunga la lista degli scienziati che nella narrazione della propria esperienza scientifica e delle proprie scoperte hanno richiamato l’esperienza estetica e la bellezza come componenti essenziali del loro lavoro e dei loro risultati. Nei resoconti ufficiali e negli articoli delle riviste specializzate questi aspetti non appaiono mai. Valga pe tutti un esempio, quello del premio Nobel Murray Gell-Man. Gell-Man dichiarò in varie occasioni la sua fedeltà al principio platonico dell’intreccio di verità e bellezza; in un discorso informale, per esempio, affermò che la bellezza, la semplicità e l’eleganza sono “un criterio primario per la selezione dell’ipotesi corretta” (Johnson, 1999, p. 239). Fu proprio nella scoperta del quark che gli valse il premio Nobel, che poté sperimentare il ruolo dell’estetica nella formulazione dell’ipotesi che poi sarebbe riuscito a dimostrare. Allora perché nella rappresentazione pubblica della scienza, alimentata dalla maggior parte degli scienziati, la ragione è l’editto della regola ferrea secondo cui conta solo la verifica empirica? Perché nei pensieri intimi e privati la grazia e la bellezza di una teoria concorrono a convincere della sua verità, ma non si citano mai queste qualità quando si comunica ufficialmente la scienza? Detta in altri termini: perché la barbarie della mortificazione della complessità della conoscenza e della scoperta scientifica con la relativa mortificazione dell’esperienza estetica che ne è parte integrante?

 

2.  Ma la bellezza?...

Tra le altre motivazioni se ne possono considerare almeno due. La prima riguarda il modo stesso di intendere la bellezza. In quasi tutte le considerazioni che gli scienziati fanno a proposito del ruolo della bellezza nella loro esperienza, la bellezza è intesa come forma e riguarda gli aspetti formali degli oggetti della ricerca. In tal senso non è difficile comprendere come si giunga a pensare che una simile idea di bellezza possa intervenire o meno nella ricerca e nella scoperta scientifica. A dominare è la barbarie del canone che identifica la bellezza con la sua dimensione formale, storicamente situata. Se per bellezza si giungesse finalmente ad intendere la relazione sensibile che si stabilisce tra il ricercatore e il suo oggetto di ricerca, come si può rilevare in tante storie di scoperta scientifica, allora, forse, non sarebbe difficile riconoscere che l’estetica della relazione con un oggetto di ricerca può estendere il mondo interno e le possibilità di lavoro e scoperta di un ricercatore, per vie che senza quella estetica relazionale non si verificherebbero.

La seconda motivazione che porta a tacere il valore della bellezza nella scienza riguarda, forse, quella che Luigi Pagliarani ha definito la terza angoscia, o della bellezza. Accedere alla bellezza è costoso, così come è impegnativo riconoscere ed elaborare il coinvolgimento estetico che apre la strada alla formulazione di ipotesi originali e generative. Chi si avvicina a quelle dimensioni e avverte o concepisce le possibilità generative, può essere colto da un senso di angoscia rispetto alla possibilità effettiva di riuscita o alla paura del fallimento, fino al punto di giungere a negare quanto prima concepito, depurando così, barbaricamente, la complessità anche estetica della conoscenza scientifica, soprattutto per quanto riguarda la formulazione delle ipotesi. Danzare, come la falena di Gaston Bachelard, intorno alla fiamma di una candela è magnetico e rischioso. E tutto torna, come scrive Musil, a presentare un’immagine della scienza lineare e perfetta, “come in un mondo di fiabe”.

       

3.  Senso del possibile

Se pensare è, forse, una delle attività più difficili per noi esseri umani, pensare l’inedito, oltre le consuetudini e i paradigmi esistenti e dominanti è ancora più impegnativo. Certo non è impossibile, per una specie che compone e ricompone in modi almeno in parte originali i repertori del mondo lungo tutta la propria storia. Come scrive in modo al solito inimitabile Robert Musil: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta, deve tenere presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se c’è il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’ probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è” (Musil, 1996, p.13).

 

4.      Vagabondaggio mentale

Un vagabondaggio mentale (mind wandering), secondo l’ipotesi di Elkhonon Goldberg (Goldberg, 2018), caratterizza la nostra accessibilità ai margini e alle possibilità generative fondate su atti creativi. Nel nostro tempo novità e innovazione sono divenute esponenziali; la creatività umana sembra aver oltrepassato i confini dell'arte per trovare espressione nella tecnologia, chiamando ciascuno di noi a confrontarsi quotidianamente con nuove esperienze. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di creatività? Sinora né le neuroscienze né la psicologia sono riuscite a dare conto di quello che rimane in buona parte un affascinante problema. Le neuroscienze, interagendo con l'antropologia, la biologia dell'evoluzione, la psicologia, la storia e, naturalmente, la psichiatria si chiedono qual è il ruolo della fisiologia e dell’anatomia nella generazione della creatività. Perché il funzionamento delle aree cerebrali è condizione necessaria seppur non sufficiente per cercare di comprendere l’attività creativa. I risultati disponibili, per quanto parziali, ci inducono a parlare sempre di più di creatività condivisa e a considerare la dimensione relazionale ed estesa della mente come humus indispensabile per la creatività e l’innogenesi.

 

5.  Precisione e immaginazione

Filolao, che sembrerebbe essere stato il principale teorico della scuola pitagorica, attorno al 450 a. C., fonda le proprie osservazioni astronomiche su un paradigma musicale. Keplero, nonostante le geometrizzazioni parmenidee e successive, tentò di ricostruire l’“armonia del mondo” ricavandola dalle velocità planetarie osservate. Tutto ciò potrebbe sembrare molto arcaico in confronto ai risultati raggiunti dai tenaci calcolatori babilonesi che avevano preceduto i greci. Ma risultò anche più creativo, in quanto richiamò effettivamente in vita vasti schemi protostorici di pensiero, combinando precisione e immaginazione. A noi che non siamo più in grado di rappresentarci chiaramente che cosa l’antica Grecia intendesse con la parola musiké, essendo ogni forma di pensiero serio formulata in quel “linguaggio poetico” che era proprio, ad esempio, di Anassimandro, risulta rivoluzionario riconoscere l’interdipendenza e l’integrazione tra poiesis e logos. Musiké non era solo un’esperienza estetica, quale noi la intendiamo, ma un’attività strettamente legata a quanto vi è di poetico e di etico nell’uomo: qualcosa che agisce sull’anima e la trasforma. C’è voluta la ricerca neuroscientifica per aprire le porte al riconoscimento, ancora tutto da approfondire, dei fondamenti naturali dell’esperienza estetica, che ne trasforma il senso e il significato. Da una dimensione solo formale ed esteriore, l’esperienza estetica è finalmente riconosciuta come incarnata e strettamente connessa alla risonanza con gli altri e al mondo, in grado com’è di estendere le possibilità individuali e relazionali in modi e per vie che senza quelle esperienze non si verificherebbero. Se verso il IV secolo a. C., soprattutto con Platone, l’antica musiké tende a suddividersi nelle due forme più moderne, separando poiesis e logos, la ricerca scientifica oggi ci indica una strada per andare oltre il dualismo e accedere a una ricomposizione più che mai necessaria.

 

6.  Ragione poetica e vulnerabilità

Potremmo chiamare ragione poetica la via per la quale l’unicità di ognuno risuona con la molteplicità della vita. La risonanza implica la vulnerabilità, la disposizione a farsi raggiungere. Sentire è essere vulnerabili. Se sia possibile accreditare un’interpretazione e una prassi relazionale generativa della vulnerabilità è uno dei temi cruciali del nostro tempo. Qualora almeno per certi aspetti lo fosse, avremmo trovato una via in più per avvicinarci alla ragione poetica, a capire come si esprimono le nostre potenzialità, come cioè manifestiamo le nostre forms of vitality (Stern, 2010), ovvero come accada che riusciamo a generare, creandolo, quello che prima non c’era, elaborando l’angoscia che la bellezza del solo concepirlo ci produce (Pagliarini, 2003); come, insomma, facciamo i conti con l’amore e il timore della bellezza (Meltzer, Harris Williams, 1989). È importante, perciò, domandarci se nell’intersoggettività umana vi siano contingenze, situazioni, processi, momenti, in cui le relazioni possano essere vantaggiose ed emancipative per le persone coinvolte, nel momento stesso in cui si aprono a una certa vulnerabilità e se quest’ultima non abbia a che fare con qualche dimensione costitutiva della relazione stessa, tale da rendere, in fondo, possibile, la stessa relazione. Seppur gli uni agli altri irriducibili, di fatto ci generiamo nelle relazioni intersoggettive, e allora non dovrebbe essere del tutto inutile cercare di comprendere se quella costitutiva accessibilità non sia intimamente connessa a una nostra penetrabilità da parte degli altri, che è accoglienza e violazione allo stesso tempo, e che certo si situa senza soluzioni di continuità con l’estremo della distruttività, che pure dalla vulnerabilità deriva, ma, come si potrebbe tentare di dire, si ferma prima di generare il male e di distruggere, per diventare combinazione generativa di io e altro, dove ognuno di noi è accolto almeno in parte, senza perdersi ed esaurirsi in quella accoglienza, nel ventre cavo dell’affettività altrui. Come musica che ci raggiunge non senza turbare e senza violare in una certa misura il nostro stato emozionale, e che, se fossimo invulnerabili, non troverebbe via per penetrare in noi e fecondarci con la sua fertile armonia, alla stessa maniera nell’articolata e incerta dinamica delle relazioni noi siamo raggiunti dagli altri nell’infinito gioco di autonomia-dipendenza, in quanto apriamo spazi per accoglierli, e in quel vulnus loro entrano per divenire almeno in una certa misura, e magari per un certo tempo,  somiglianti a noi. Entrano in parte incontrandoci e in parte ferendoci, in parte confliggendo e in parte cooperando con noi, laddove non si dà, probabilmente, un incontro senza violazione e non si dà una cooperazione senza conflitto. Se per conflitto si intende l’incontro generativo tra differenze e non l’antagonismo e la guerra, come ci pare opportuno intendere (Morelli, 2014). Nel continuo processo di individuazione del proprio bodily self, ognuno di noi elabora, tra i vincoli e le possibilità dell’alterità costitutiva - attraversando le relazioni che ci precedono e in cui prendiamo forma e ci generiamo - le dinamiche della simulazione incarnata (embodied simulation) che, anticipando e sostenendo i nostri stessi sentimenti e la nostra stessa cognizione, compongono l’evoluzione delle nostre vite (Gallese, 2024). Quel processo di cognizione corporea è il tappeto mobile su cui si muovono le incerte dinamiche del nostro divenire noi stessi e le piccole grandi ferite, insieme alle conferme gratificanti, con cui ci incontriamo nelle relazioni con gli altri, sapendo che le prime e le seconde possono essere emancipative o distruttive per noi, a seconda di come riusciamo ad elaborare la loro ambiguità. Se pensiamo al linguaggio, non è difficile riconoscere come comprenderci significhi dire quasi la stessa cosa. Nel quasi si situa il processo di cooperazione interpretativa (Jauss, 1982), che genera i significati condivisi, approssimativi – nel senso dell’avvicinarsi e dell’accomodare le differenze – e provvisori. In quel quasi alberga la vulnerabilità che rende possibile comprendersi, nel duplice senso della vulnerabilità dei significati e dei limiti invalicabili del linguaggio, unitamente alla relativa combinazione e fusione emergente dei significati condivisi. È probabilmente per quelle vie che si definisce il margine generativo presente in ogni contesto e situazione e capace, se trattato con ragione poetica, di generare l’inedito, realizzando una volta ancora una distinzione specie specifica che ci rende umani (Gallese, Morelli, 2024).

 

7.  Il teatro della bellezza

Parlando di bellezza si avverte di solito un certo tono pedagogico e una trasmissione di atmosfera retorica tali da evocare un canone e raramente il racconto accede alla dimensione estetica del turbamento e delle risonanze corporee. Eppure, dalla bellezza siamo chiamati a cercare e ad accedere non solo ai canoni del visibile, ma anche alle cose nascoste e profonde, alle esperienze emozionali e affettive, in grado di farci sentire e vedere come solitamente non vediamo. Passione ed erotismo, inclusa un’erotica della conoscenza, rimandano con la bellezza, ad esempio, al mito di Eros e Psiche così come Canova li intreccia donando loro un soffio di vita capace di raggiungerci. La bellezza mostra così un potere analogico che può raggiungere la nostra fantasia e sollecitare la nostra immaginazione proponendo soglie di accessibilità al nostro mondo interno mentre accediamo a manifestazioni degli altri e del mondo. C’è una dimensione drammatica, teatrale, performativa nelle esperienze di bellezza e da qui deriva il loro potere trasformativo. Il potere estensivo della bellezza deriva dalla discontinuità che dà vita a un salto qualitativo nel ritmo consueto dell’ordinario. Un viaggio immersivo nei sentimenti, dal desiderio, alla paura, all’incertezza e alla sproporzione, allo sprofondamento nel buio e alla relativa ricerca della luce. Un traslato dalla logica dei fenomeni esperienziali, dalle loro regole alfabetiche e dalla loro retorica discorsiva, verso l’emersione e lo svelamento del senso fino al coinvolgimento del sentire: la bellezza si propone come una metamorfosi del corpo verso i vertici del sensibile. L’attivazione del puer interno che la bellezza genera tende ad essere emozionale, sensitiva e anacronistica, rompendo le regole del tempo mediante processi poietici, capaci cioè di farsi immagine viva, non tanto per accumuli di conoscenza, ma per l’esperienza di incontro con quelli che Maria Zambrano, ad esempio, chiamava i “chiari del bosco”. Del resto, le caratteristiche dei “chiari del bosco”, secondo Zambrano, corrispondono a quelle della 'guida', un genere di testo passato in Spagna dall'Oriente, che è composto di figure alimentate dalla fantasia piuttosto che da argomentazioni, che è insieme comunicativo ed enigmatico, che suggerisce più di quanto non dica perché vuole che le sue verità rinascano e rivivano il più direttamente possibile nell'interiorità di ognuno. Da quella esperienza veniamo condotti, così, non tanto a condividere un sapere, quanto ad assimilare un'esperienza di tipo iniziatico, alimentata da momenti ellittici, lampeggianti, ora fin troppo coordinati ora bruscamente scoordinati, che obbligano a farsene coautori, a esporsi con tutto se stessi azzardando senso e significati che il testo non garantisce. E che confluiscono in un 'logos sommerso' o 'logos del pathos', come la Zambrano ha chiamato questa forma di comprensione inseparabile dalla situazione vitale di quanti si trovano a parteciparne. Di qui il riecheggiare della visione sapienziale dei presocratici, delle religioni salvifiche greche e romane, della tradizione gnostica, dell'idea - mutuata tra l'altro da Nietzsche - della filosofia come 'trasformazione'. Le assonanze con le illuminazioni presenti in quel documento esistenziale che è La mente estatica di Elvio Fachinelli (Fachinelli, 2009) sono particolarmente evidenti. Non solo, ma il richiamo a quella che la stessa Maria Zambrano ha chiamato ragion poetica, e che Luigi M. Pagliarani, come già considerato prima, collocava oltre la ragione raziocinante e la ragione ipotetica, ci porta sul liminale della bellezza così come stiamo cercando di considerarla.

Siamo in una scena nella quale ci avviciniamo alle possibilità di apertura del sipario interno.

 

8.      Di una risonanza con una stonata passione

Sembra di sentirlo ancora l’eco degli acuti improvvisi di Costantino che intona un’aria, della Traviata, dell’Aida o del Nabucco. Sulla qualità dell’esecuzione era meglio non soffermarsi. Certo la voce ce l’aveva e non perdeva occasione per darne prova. Quelle note che squarciavano l’aria nelle sere di frescura sull’aia o negli orti avevano il potere di travolgermi in una singolare avventura. Avevo tante volte ascoltato i suoi racconti, ripetuti senza tregua e in ogni stagione, che vedevo, ma proprio lo vedevo, il suo petto aprirsi come un sipario. Vedevo i drappi di velluto rosso, pesanti e resistenti, separarsi su scene irresistibili, proponendomi gli ori del trono di Radames o un coro verdiano che mi strappava il pianto. Vedevo il mito di Costantino, Enrico Caruso, e sentivo i vetri che tremavano al suo do di petto. Dal torace-sipario di Costantino mi raggiungeva un mondo di sogni, e non aveva le dimensioni del teatro dei pupi che pure mi avevano ammaliato alla festa di Piedigrotta nei paradisiaci settembri napoletani della mia infanzia errante. La dimensione effettiva di quel sipario che si apriva nel suo torace, così come nella mia illusione la vedevo, era quella che Costantino raccontava e ancora raccontava, con ampie circonvoluzioni delle sue braccia per sottolinearne l’immensità, più grande delle volte del duomo di Napoli, insisteva. Ora, quell’uomo era basso di statura e incurvato dagli anni. Biascicava parlando e portava i segni traumatici di una storica negazione. Il fratello maggiore, ricco possidente terriero e usuraio di chiara fama, non aveva tollerato la sua nascita. Un secondogenito tardivo era arrivato a pregiudicare la sua esclusività ereditaria. Quel fratello era arrivato a minacciare la madre mentre era incinta. Laddove i suoi tentativi di offenderlo fisicamente, con prove di menomazione fin dalla culla, erano falliti, riuscirono a raggiungere lo scopo le reiterate aggressioni psichiche, fino a farcela nell’intento di mostrarne e certificarne l’incapacità psichica parziale. Costantino divenne per tutti il fratello incapace e venne infine candidato all’emigrazione per lavoro, in America, a Boston. C’è da dire che non potevano esserci favori che si potessero negare a suo fratello, padrone di quel mondo. Molti erano gli indebitati con lui e dalle sue decisioni dipendeva il loro destino. A quelle condizioni un medico che certifica si trova sempre; un agente di viaggio per l’emigrazione non manca mai; tantomeno è difficile trovare qualcuno che invii il cosiddetto atto di richiamo, sogno di ogni povero che sperava di andare in America a cercare fortuna. Come se non bastasse, senza la possibilità di stabilire se a causa della vita grama, o perché fosse mai accaduto, Costantino soffriva di alopecia, che da quelle parti si chiamava “zella”. Cosicché per tutti era “lu zelluso”.

Quando cantava, però, quell’uomo era un gigante, certamente lo era per me. Mi trascinava in un mondo immaginato più vero di quello reale. Apriva per me un sipario su mondi sconosciuti. E mi chiedevo dove fossero quei mondi. Non ho mai saputo quanto fossero vere le storie di Costantino. Ma proprio per questo non contava tanto il sipario del teatro di Boston dove aveva lavorato come siparista. Chissà com’era quel sipario. E com’era quel teatro. Mi creavo il mio sipario e il mio teatro e li rinforzavo ogni volta. Al punto che da un certo momento in poi si affermò in me una sensazione sempre più chiara: il petto/sipario di Costantino, il suo sipario narrato, avevo finito per interiorizzarlo, era divenuto il mio sipario interiore. Che importanza poteva mai avere l’effettiva forma del teatro e del sipario di Boston se non quella che assumeva nel mondo interno di Costantino? Così più vera del vero era la risonanza che si produceva in me. Mano a mano che il mio sipario interno si apriva, ad estendersi era la mia immaginazione e sognavo, inventavo, mi illudevo, fingevo la messa in scena di opere che, di fatto, rappresentavano me stesso. E intanto mi inventavo, in quelle ore infinite che nei giorni d’estate o nelle sere d’inverno non trascorrevano mai, viaggiando con Costantino che mi portava con sé, guida stonata con passione, nel mondo infinito della musica.  Erano gli acuti di Caruso di cui lui parlava con le lacrime agli occhi, a coinvolgermi, mentre cercava di imitarli. Era la descrizione della scia profumata dell’arrivo del grande tenore in teatro, con l’epopea dello scugnizzo napoletano che diventa un dio. I dettagli delle automobili con cui arrivava, le cromature e i codazzi di giornalisti; la descrizione degli applausi che narrati da Costantino duravano ore; gli svenimenti delle adulatrici. Più di tutto la differenza nell’apertura del sipario, la decisione precisa del movimento, l’entusiasmo di mostrare la scena al pubblico, la sera in cui era il maestro Caruso a cantare. Smettevamo di essere i pezzenti venuti dall’Italia, in quelle sere; eravamo tutti Caruso che cantava prima di tutto per noi, per il nostro orgoglio e il nostro riscatto, raccontava Costantino. E non perdeva l’occasione di intonare un’aria, che conosceva a memoria, con la sua passione stonata.

 

9.      Vagabondaggio creativo

Come si apre al sentire il mondo interno di ognuno di noi? Come lo fa se non entrando e uscendo, errando e vagabondando, tra realtà e immaginazione? È forse in quei movimenti che un sipario si dischiude per condurci in scene che viviamo come esterne, ma sono prima di tutto interne a noi stessi, generate dalle nostre proiezioni, che a loro volta non emergerebbero senza l’introiezione dei segni del mondo che si parano innanzi a noi o che qualcuno pone sulla nostra via. Come Costantino per me, che certamente sta aprendo il sipario del teatro lirico dell’infinito in qualche angolo dell’universo, commuovendosi fino alle lacrime quando deve mostrare al pubblico il suo Caruso. L’influenza che i segnali del mondo esercitano sulla nostra disposizione a selezionarli, cioè a sceglierli o scartarli, agisce al punto d’incontro tra il nostro mondo interno e il mondo esterno con la mediazione della capacità immaginativa. L’incontro tra la personalità e la sensibilità di me bambino con il mondo narrato da Costantino ha concorso, non so dire fino a che punto né precisamente per quali vie, a creare le mie possibilità di accedere all’esperienza musicale e più ampiamente all’esperienza estetica. Costantino è divenuto, e senza che io me ne accorgessi mentre il tutto accadeva, uno dei siparisti del mio sipario interiore. Non sono in grado di dire quanti altri siparisti ci sono stati e ci sono nella mia esistenza. Posso però dire che la regolazione affettiva della mia sensibilità estetica, ovvero la mia disposizione ad accogliere quel che gli altri e il mondo portano in me e ad esprimere quel che il mio mondo interno desidera e riesce a portare agli altri, dipende strettamente dalle presenze significative che ho incontrato e incontro. È dalla intersoggettività e dal campo relazionale in cui mi individuo che apro e chiudo al mondo e agli altri, che accedo al consueto estetico che già conosco, ma soprattutto al perturbante che mi attrae e allo stesso tempo mi inquieta. È grazie alla relativa rassicurazione che mi deriva dal mondo estetico che mi sono costruito, che posso consentirmi di sporgermi sulle soglie delle sperimentazioni artistiche, teatrali, musicali, di arti visive, cinematografiche o performative, in cui mi imbatto, con cui mi incontro e a volte mi scontro. Con che cosa mi incontro o mi scontro, però? Non solo e non tanto con gli oggetti artistici ed estetici, ma soprattutto con le resistenze e la propensione alla conferma del mio mondo interno che tende a ritornare al consueto rassicurante del già noto, del già frequentato, del già goduto. Tendo ad adottare paradigmi, costruisco basi sicure di appartenenza e li assumo come pietre di paragone tutte le volte che il mio sipario interno si apre all’inedito e all’inaudito. Io, siparista di me stesso allora faccio i conti con la tentazione di ascoltare un’opera di un giovane jazzista con il corpo e l’orecchio assuefatti a Kind of Blue di Miles Davis e del suo gruppo, o a A Love Supreme di John Coltrane. Solo un investimento in eccedenza rispetto alla consuetudine mi consentirà, se ci riesco, di ascoltare l’esecuzione del giovane jazzista come matrice e paradigma per ri-ascoltare quei due capolavori del jazz. Posso, per la stessa via, accedere all’incanto di un’opera di Bill Viola, riconoscendo che mi sta fornendo un’inedita e ulteriore porta d’accesso al mio Caravaggio; o accorgermi che Him di Maurizio Cattelan aggiorna il mio sentire consegnato con sacra dedizione a Standing Women o a Homme qui Chavire di Alberto Giacometti; o ancora perdermi nelle assonanze estetiche tra L’infinito di Leopardi e i versi di Agi Mishol :… “poiché sono una poetessa e so / come una formica / scendere agli inferi con una pagliuzza / e risalirne con un chicco di grano”.

 

10.  Una immanente trascendenza

A distinguerci come umani non sono molte cose. Una di queste, forse, è la nostra disposizione a trascenderci pur rimanendo ancorati alla nostra immanenza. È grazie a questa possibilità che accediamo a parti di noi che senza la trascendenza rimarrebbero latenti e mai diventerebbero patenti. Il nostro sipario interno, caratterizzato com’è dalla socchiusura con tendenza prevalente a consegnarsi alla consuetudine, si apre a fronte della sollecitazione estetica e accoglie la discontinuità accedendo all’inedito, educandosi al desiderio della scoperta. Certo, poi si rassicura, ma intanto lo fa da una posizione che ormai e finalmente si avvale di quello che è rientrato di quanto ha selezionato e riconosciuto grazie all’ultima apertura. E così via, di discontinuità in discontinuità, in base al livello e al grado di apertura all’accessibilità che molto dipendono dall’educazione e dall’esperienza. Evidente è che siamo in grado di trascenderci. Siamo gli esseri che non coincidono mai con sé stessi, ma non è detto che l’elaborazione di quella non coincidenza porti ad un aumento dell’apertura verso le discontinuità e a un incremento dell’accessibilità. Può portare, come accade, alla chiusura e alla preferenza di canoni tanto più apprezzati e riconosciuti quanto più sono consueti e ripetitivi. Quella chiusura può addirittura indurre alla prevalenza esclusiva di un solo canone a cui la maggioranza si consegna per le sue proprietà rassicuranti e particolarmente agglutinanti. Si tratta ancora una volta di una delle direzioni che può prendere la capacità di trascendersi. In quella capacità, che è una capacità distintiva di homo sapiens, non c’è niente di positivo né di negativo. Semplicemente, siamo di fronte ad un tratto distintivo specie specifico degli esseri umani che, in ragione dell’avvento del comportamento simbolico, sono divenuti capaci di ricerca di significato e di concepire l’inedito, quello che ancora non c’è o si configura come un mondo parallelo, frutto dell’immaginazione e della creatività. Se siamo capaci, come è evidente, di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori esistenti del mondo, questo vuol dire che a distinguerci, pur stando con i piedi della nostra immanenza, è la capacità di trascenderci.

 

 

11.  La soglia del sipario interno

Noi diveniamo, evolutivamente, capaci di non coincidere con noi stessi. Del resto, tutti gli animali, ma anche i vegetali, generano figli. Solo le mammifere umane, per quello che ne sappiamo, concepiscono figli e a questo concepire il concepimento giungono per via evolutiva, accorgendosene da poco tempo, rispetto alla durata della loro evoluzione come specie.  Altra cosa ancora è scegliere di avere un figlio. Una sospensione exattativa del processo naturale dell’accoppiamento. Un’evidente verifica della ricorsività tra biologia e cultura, tra semiosi e natura; una conferma del nostro essere animali naturalculturali. L’aumento dello spazio della scelta, il riconoscimento e l’affermazione di quell’autonomia, finalmente sottratte pur se ancora a livello di “infanzia simbolica”, scelta e autonomia, alle istanze a cui sono state a lungo consegnate, come il destino o il sacro o la legge, possono divenire la base per una liberazione della propria creatività da parte dell’animale che vive creando sé stesso e il proprio mondo.  Persino l’elaborazione dell’aggressività può essere all’origine di quella particolare terapia dell’anima che conduce al riconoscimento della pienezza di sé e all’esperienza di bellezza. Ancorché disponibile per le possibilità umane, concepire la bellezza, accedervi, è però difficile, anche se la donna e l’uomo sono stati i primi esseri ad avere la presunzione di giudicare cosa è bello e cosa è brutto. Accedere all’estetica delle relazioni e all’esperienza di bellezza sembra voglia dire disporsi ad attraversare la loro “corona”, la selva di ostacoli che le circonda e per certi aspetti le protegge e le impreziosisce, e che tende ad esaltarsi mano a mano che ad essa ci avviciniamo. Aprire il sipario interno all’estetica dell’arte è cercare e praticare l’accessibilità ad una soglia dove si produce una risonanza particolarmente riuscita con l’opera, con gli altri, con il mondo. Nel teatro quella soglia di risonanza ha una sua peculiarità riguardante l’apertura del sipario e una più o meno risuonante corrispondenza con una analoga apertura del sipario interno di ogni spettatore.  Accade come con il Sole. La corona del Sole, infatti, è di alcuni milioni di gradi più calda della superficie dell’astro, stando alle ultime scoperte astronomiche. Non è però ancora chiaro quale sia l’origine di queste “fontane” di plasma. Così come, del resto, non è chiara l’origine delle fonti psichiche interne che emettono e lasciano emergere (enaction) l’attrazione e la paura, la tentazione e il timore della bellezza, generando la fatica di attraversare il suo “intorno” per raggiungerla. 

 

 

12.  Piacere e dolore della bellezza.

L’ipotesi che propongo allora, come richiamato all’inizio, è che l’accessibilità alla bellezza dell’arte e del teatro, intesa come espressione sufficientemente buona del proprio mondo interno nella relazione con gli altri e il mondo, sia possibile e difficile allo stesso tempo, perché la bellezza è ambigua e accedervi esalta il suo contrario, non lo supera ed elimina. Più s’intensifica la luce, più aumenta la sua separazione dall’ombra; i margini divengono confini e, perciò, più difficili da attraversare.

Più alta è l’esperienza di bellezza che si para innanzi, più sembrano ridursi le possibilità e lo spazio del significato e del linguaggio per accedere all’espansione interna richiesta: quell’accesso esige un’apertura all’immediatezza dell’indicibile e allo stesso tempo riduce la resilienza degli equilibri e degli ordini di senso esistenti, esaltando il valore rassicurante di questi ultimi.

Scrive Beckett:

“Non esiste suprema manifestazione della Bellezza di fronte a cui saliamo comodamente una scala di sensazioni per sederci leggeri sull’ultimo gradino ad assimilare il nostro appagamento: quello è il piacere della Leggiadria. Noi veniamo afferrati fisicamente e scagliati a perdifiato al sommo di una rupe a picco: che è il dolore della Bellezza.”

(Beckett, 1929)

Appare opportuno mettere in discussione una concezione dialettica della bellezza e dell’accessibilità ad essa (un accesso mediante il superamento del suo contrario), che la propone come un passaggio da una posizione ad un’altra, mediante il superamento di una contraddizione tra progettualità e resistenze, di cui l’accesso ad una nuova pienezza sarebbe la sintesi, appunto, nell’arte, nella scienza, nella politica, nella vita. L’elaborazione efficace dell’ansia relativa implicherebbe, in questa prospettiva, una transizione di stato.

Deve pur esistere, invece, una dimensione progettuale accanto a quelle depressive e conservative, si è chiesto Luigi Pagliarani, avendo il merito di averla indicata, quella dimensione, nella propensione alla bellezza e nell’angoscia relativa alla sua elaborazione; a noi la responsabilità di approfondirne criticamente le dinamiche e le manifestazioni nella nostra esperienza, mediante la ricerca per abitare esteticamente la soglia del sipario interno che all’accessibilità alla bellezza può condurci. Il potere da indagare è quello analogico della bellezza. La parola, infatti, cela sempre qualcosa e, per trasformarla in azione, occorre agire (poiesis): creare un gioco di relazioni attraverso immagini che si legano tra loro generando una visione. L’analogia interroga e invoca la memoria, compie salti logici, mette in moto catene di immagini, si fa, così, immaginazione. Impone di guardare, di creare connessioni tra le cose anche quando queste sembrano lontane. Guardare è un lavoro che ci aiuta ad avvertire l’intelligenza tra le cose. Chiede di “fare il fare”, di mettere alla prova i nostri discorsi, accettare la sfida dell’alogico, dell’analogico, dell’immaginale, del visionale. Tendere il corpo in una tensione rinviante oltre sé stessi.

Se si interroga “lo statuto sensibile del vedere” per ritrovare il movimento dell’immaginazione come origine della conoscenza, per una logica delle sensazioni, per andare oltre l’apparenza delle cose, per estrarre le cose dall’abitudine, per riconoscere lo spazio di immersione di ciascuno, si percorrono strade capaci di creare luoghi aperti dove il corpo può avventurarsi nel seguire una tensione che porta oltre il consueto, sulla soglia di risonanze che possono permettere l’accesso alla bellezza.

Le esperienze non possono essere ridotte solo al loro contenuto concettuale: è necessario che la domanda che rivolgiamo a noi stessi diventi qualcosa di simile alla parola ebraica ruach che ha a che fare con il vento, il soffio, lo spirito, l’ispirazione, e rende vivo il vuoto del deserto.

                       

Se il vagabondaggio mentale è possibile, e lo è perché ne abbiamo le prove, è vero anche, come abbiamo più volte sostenuto, che si pone una questione di accessibilità alla bellezza. Quegli stessi neuroni che si aprono all’inedito, si abituano. Se sopraggiunge un nuovo stimolo percettivo sparano prontamente, ma interrompono gradualmente la risposta se lo stimolo permane. C’è una spiegazione evolutiva per questo: ai fini della sopravvivenza è importante accorgersi se dal cespuglio spunta fuori qualcosa, mentre prestare attenzione a un cespuglio che se ne stia lì verde e modificato può risultare uno spreco di risorse cognitive. Diveniamo addirittura ciechi a uno stimolo visivo se il nostro occhio viene costretto artificialmente a fissarlo senza poter usufruire dei movimenti microsaccadici, che hanno appunto la funzione di evitare la staticità delle immagini sulla retina. Dalla bellezza, al fine di accedervi, ci viene chiesto di sentire e guardare meglio (Sharot, Sunstein, 2024). È investendo in eccedenza per sporgersi sulla soglia del possibile che si possono creare le condizioni per accedere alla bellezza.  

 

 

Bibliografia

 

  • Beckett S., Assumption, “transition”, 16 – 17, giugno 1929, ed. it. a cura di Bertinetti P., trad. di. Bocchiola M., Einaudi, Torino 2010 

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  • Gallese V., Bodily Self e schizofrenia, Congresso FIAP, Riva del Garda, 2-5 ottobre, 2014 

  • Gallese V., Morelli U., Cosa significa essere umani. Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024. 

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  • Jauss H. R., Toward an Aesthetic of Reception, University of Minnesota Press, 1982 

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  • Meltzer D., Harris Williams M., Amore e timore della bellezza, Borla, Roma, 1989 

  • Morelli U., Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, con postfazione di Gallese V., Allemandi & C, Torino 2010 

  • Morelli U., La lanterna di prua…ovvero, la soglia della bellezza, in Educazione Sentimentale, 16, 2011; pp. 144-163

  • Morelli U., Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza, Città Nuova Editrice, Roma, 2014 

  • Morelli U., Direzione scientifica e sperimentazione del progetto quadriennale di “Con i bambini”: Di bellezza si vive, 2019-2024 - https://percorsiconibambini.it/dbsv/scheda-progetto/ 

  • Musil R., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1996 

  • Pagliarani L., Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003 

  • Sharot T., Sunstein C. R., Guardate meglio. Perché l’abitudine ci rende ciechi, Raffello Cortina Editore, Milano, 2024 

  • Stern D., Forms of Vitality, Oxford University Press, Oxford Mass. tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010

A.I.E.M.S. - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche

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