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Riflessioni Sistemiche n° 31


Bellezza

Ogni fiore mancato.
John Muir, la natura e il bello ecologico

Danilo Selvaggi

Ambientalista, scrittore, è direttore generale della Lipu - BirdLife Italia. Si occupa di politiche ambientali, cultura ecologica, teorie dell'ambientalismo. Segue e coordina campagne nazionali e internazionali sulla conservazione della natura. Tiene master post universitari in tema di ambientalismo e cultura ecologica e scrive per riviste e quotidiani. È autore di Rachel dei pettirossi. Primavera silenziosa, Rachel Carson e un nuovo inizio per la cultura ecologica (Pandion, 2022), libro vincitore del Premio Demetra 2024 per la Letteratura ambientale e nella terna finalista del Premio Campiello Natura 2023.

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Sommario

L’esperienza del bello, filo conduttore della storia di John Muir, è alle origini della cultura ambientalista e della creazione del sistema delle aree protette, che ha posto un decisivo argine alla distruzione della natura selvaggia e impedito la sua completa trasformazione in merce. Nella visione di Muir, concretamente vissuta in vagabondaggi e lunghe immersioni naturali, specialmente in California, la natura selvaggia è un valore inestimabile che regala esperienze di elevazione spirituale, stimola l’attenzione per il mondo e richiede sacralizzazione, cioè una protezione rigorosa, a suo e nostro beneficio.

Parole chiave

Bellezza, estetica, natura selvaggia, scienza, vagabondaggio, immersione, modernità, alienazione, risonanza, sacro, parchi, aree protette, capitale naturale, assenza.

Summary

The experience of beauty is the underlying theme of John Muir's story and is among the causes of the birth of the environmentalist culture, as well as the creation of the system of protected areas, which placed a decisive barrier to the destruction of wild nature. In Muir's vision, concretely experienced in wanderings and long natural immersions, especially in California, wild nature is an inestimable value that offers spiritual experiences, stimulates attention to the world and requires sacralization, that is its rigorous protection , for its and our benefit.

Keywords

Beauty, aesthetics, wilderness, science, wandering, immersion, modernity, alienation, resonance, sacred, parks, protected areas, natural capital, absence.

 


 

Il nome di John Muir (1838-1914), lo scozzese che scoprirà la natura selvaggia degli Stati Uniti, è strettamente legato alle origini dell’ambientalismo e alla sua stessa fondazione, attribuita a Muir per via del grande impegno a favore della conservazione della wilderness e del determinante contributo alla creazione delle prime aree protette, da cui il movimento ambientalista di fatto nasce.

All’opera di John Muir si devono, tra le altre cose, la piena protezione del Parco di Yosemite (1906), tra i primissimi parchi nazionali americani e mondiali, e la fondazione di quel Sierra Club (1892) che costituirà la prima grande organizzazione protezionistica statunitense, la cui influenza sul movimento ambientalista sarà notevole. Soprattutto, a Muir si deve l'avvio di un'intera cultura alternativa che intorno alla natura selvaggia nasce, si sviluppa e giunge fino a noi, con le sue innovative pratiche, politiche e visioni del mondo.

Nella genesi dell’azione di Muir e dunque negli eventi con i quali la storia dell’ambientalismo prende il via, il tema della bellezza ha un ruolo decisivo, quasi esaustivo. Il bisogno di protezione della natura promosso da Muir è in effetti il passo successivo rispetto a un’esigenza più di fondo che il naturalista di Dunbar avverte e di cui si fa testimone: il riconoscimento della natura selvaggia, la presa di coscienza che la natura selvaggia non è un'entità incompiuta, una serie di inesistenze o semi-esistenze in attesa di giustificazione umana, vale a dire di sfruttamento, ma un mondo dotato di statuto pienamente autonomo e dignità esistenziale. Qualcosa che non esiste per noi e da noi e anche perciò fa la nostra fortuna.

A questa consapevolezza, tra i principi fondamentali della cultura ecologica, John Muir giungerà proprio attraverso l’esperienza del bello. È un'esperienza singolare, lontana dai canoni classici, che Muir vive in lunghi anni di vagabondaggi e immersioni nella natura ma che trova il momento cruciale in quella vera e propria rivelazione sperimentata in California, dove il bello ecologico di Muir prende forma. Lì, tra la valle di Yosemite e la Sierra Nevada, John Muir finalmente “vede”.

Cercherò, in questo scritto, di affrontare la questione del bello di John Muir attraverso una rapida e comunque parziale biografia del naturalista scozzese, con le sue tappe e gli eventi salienti (le svolte), e la messa in evidenza di tre elementi tematici che dalla vicenda di Muir emergono: 1) la visione sistemica della natura, 2) l’esperienza di risonanza nella natura e 3) il sacro, nella particolare accezione che esso assume nella concezione di Muir.

Tali elementi, legati a doppio filo all'esperienza del bello, costituiscono l’architettura del pensiero di John Muir e, tutt'altro che anacronistici, rappresentano motivi di grande rilievo per il presente e il futuro della cultura ecologica.

 

  

Lezioni d’amore

 

Il rapporto con la natura segna l’esistenza di John Muir fin dall'inizio. Il ragazzino che scorrazza per le spiagge e le campagne di Dunbar, la cittadina scozzese costiera, nei pressi di Edimburgo, dove Muir nasce e vive i suoi primi anni, della natura è già intensamente innamorato. La natura è la molla di ogni suo interesse, la ragione della felicità, un appello costante. Quella che Muir ama è già, però, una natura di tipo speciale. Non una condizione domestica, non il giardino ordinato davanti casa, seppure pieno degli affascinanti gigli bianchi piantati e curati dalla madre e dalla zia, ma un luogo altro, oscuro e persino rischioso. In una parola, selvaggio. È al tempo stesso un luogo di affetto e di spavento, di appartenenza e di estraniazione, secondo una concezione del tipo dentro/fuori (“Ho scoperto che uscire vuol dire entrare”, dirà un giorno) che accompagnerà Muir tutta la vita.

 

“Quando ero bambino in Scozia ero appassionato di tutto ciò che era selvaggio, e per tutta la vita mi sono sempre più affezionato ai luoghi e alle creature selvagge. Intorno alla mia città natale, Dunbar, in riva al burrascoso Mare del Nord, la natura selvaggia fortunatamente non mancava, sebbene la maggior parte della terra fosse coltivata in modo regolare. Con i miei compagni di gioco dal sangue rosso, selvaggi come me, amavo vagare nei campi per ascoltare il canto degli uccelli, e lungo la riva del mare per osservare e meravigliarmi delle conchiglie e delle alghe, delle anguille e dei granchi nelle pozze tra le rocce, quando la marea era bassa; e soprattutto per osservare le onde durante le terribili tempeste che tuonavano sui neri promontori e sulle rovine scoscese del vecchio castello di Dunbar, quando il mare e il cielo, le onde e le nuvole, si confondevano” (Muir, 1913).

 

Sono chiari, già in queste battute, gli elementi tipici dell’estetica romantica - le tempeste, le rovine, il buio, le maree - che Muir farà propri ma che sin da subito trasporterà da un discorso prettamente letterario a una dimensione esistenziale, del corpo, della mente, dello spirito, della vita stessa.

A undici anni Muir lascia la Scozia per emigrare negli Stati Uniti con la famiglia, alla ricerca di una vita da rifarsi e un pezzo di terra da coltivare, che i Muir troveranno in Wisconsin. È la prima svolta nella storia di Muir. In Wisconsin, di fronte agli scenari del midwest americano, la concezione naturalistica del piccolo John fa un salto di livello. Agli occhi di Muir si presenta un’immagine di natura selvaggia imparagonabile a quella scozzese. Gli spazi della terra americana sono immensi e in gran parte ancora vuoti, cioè vuoti di insediamenti umani ma pieni di vite che non sono le nostre. Alberi, uccelli, fiumi, insetti, natura non umana a non finire. John ne resta folgorato.

 

“Questo improvviso tuffo nella pura natura selvaggia - questo battesimo nel cuore pulsante della natura - ci rese tutti assolutamente appagati! La natura stessa si riversava in noi, insegnandoci e persuadendoci con le sue meravigliose lezioni luminose, così diverse dalla lugubre grammatica con cui tanto a lungo ci avevano sferzato. Qui, senza saperlo, eravamo a scuola; ogni lezione selvaggia era una lezione d'amore, che ci incantava col suo fascino e senza prevaricazioni. Oh, la magnifica natura selvaggia del Wisconsin! Tutto era nuovo e puro come al culmine della primavera, quando le pulsazioni della natura battevano più forte e tenevano misteriosamente il tempo con le nostre! Giovani cuori, giovani foglie, fiori, animali, i venti e i ruscelli e il lago scintillante, tutti selvaggiamente, felicemente gioiscono insieme!” (Muir, 2020).

 

In queste poche righe Muir condensa ed anticipa un’intera cultura di educazione ambientale quale sarà, più tardi, a partire dalle esperienze di fine Ottocento del Nature Study Movement (Comstock Botsford, 1986), quella dell'aperto, delle scuole del bosco, dell'outdoor education. A differenza della scuola di Dunbar, con le sue classi al chiuso, l’organizzazione rigida e la pedagogia della memoria (che lo stesso Daniel Muir, il padre di John, userà per far memorizzare ai figli l’intera Bibbia), la scuola della natura è un’esperienza meravigliosa, imprevedibile, sempre diversa che, come un fiume di conoscenza, si riversa nelle persone e le “persuade, appagandole”. Cioè, le istruisce soddisfacendone al tempo stesso i desideri. È un evento dolce, non forzato.

Per questo Muir parla di lezioni di luce (la luce reale dell’aperto e la luce metaforica della conoscenza) ma soprattutto di lezioni d’amore, abbinando due concetti, scuola ed eros, che sembravano, e spesso sembrano tuttora, decisamente confliggere. E in effetti, il legame che alla scuola della natura si crea con la materia da apprendere è più prossimo a un innamoramento che a un apprendimento (simile a ciò che Hartmut Rosa, come dirò più avanti, chiamerà “triangolo di risonanza”). Non è solo tecnica, non è un mero raccogliere informazioni ma il divenire parte della cosa della conoscenza, proprio come in un fatto d’amore, e, grazie a ciò, acquisire nuova linfa e nuovo desiderio. Le alunne e gli alunni di questo genere di scuola non possono che esserne felici.

 

  

Mai prima d'ora

 

Nel 1863, dopo quattordici anni di lavoro nella fattoria di famiglia - e di immersione nella natura che la circonda - il venticinquenne Muir fa un passo in più, lasciando il Wisconsin per intraprendere il primo dei suoi vagabondaggi, che dopo un lungo viaggio a piedi nella natura del midwest, lo porterà a stabilirsi in Canada. I sentimenti e le conoscenze naturalistiche di Muir, pur ancora grezzi, si amplificano, godendo di altra bellezza selvatica e acquisendo nuovo materiale di percezione e pensiero.

Tornato negli Stati Uniti nel 1867, una seconda svolta attende Muir. Nella fabbrica in cui lavora, a Indianapolis, la stecca metallica di un macchinario che sta maneggiando gli perfora la cornea dell'occhio destro, con interessamento simpatico del sinistro, rendendolo cieco per molte settimane. Il rischio di perdere per sempre la vista e dunque di dover rinunciare alla bellezza della natura, quantomeno a quella cui si accede tramite la vista, gli fa capire che il suo destino non è di costruire macchine.

L'ingegneria è un campo nel quale Muir, appassionato di algebra e meccanica, in contraddizione solo apparente con il senso poetico, è straordinariamente abile. Potrebbe dargli successo, potrebbe renderlo milionario, in un paese che sta nascendo proprio grazie ai tecnici, agli ingegneri, alla ferrovia, agli insediamenti urbani. Tutto ciò, però, non si sposa con il destino cui Muir si sente legato: il wandering, il vagare nella natura. È questa la modalità con la quale John Muir desidera vivere e solo nel momento in cui ha perso e riacquistato la vista lo ha capito del tutto. Fino ad allora ne era convinto a metà. Aveva guardato senza davvero vedere, aveva ascoltato senza prestare l’attenzione che il mondo richiede. Ogni istante perso, ogni bellezza non colta, ogni fiore mancato è una piccola cecità. Non deve più accadere.

Così, a settembre dello stesso anno, guarito, Muir abbandona il lavoro in officina e parte per il secondo lungo viaggio in cerca del bello naturale, mille miglia a piedi verso sud, con l'obiettivo di raggiungere le meraviglie del Sud America, sulle tracce di Alexander von Humboldt, il naturalista e viaggiatore tedesco che per Muir è fonte di ispirazione. La stanchezza e la malaria fermano Muir a Cuba ma non ne cancellano l'intenzione generale. Semplicemente gli cambiano i piani, spingendolo più o meno causalmente verso la terra all'estremo ovest degli Stati Uniti chiamata California. È lì che devo andare, pensa John Muir. In California.

Così, tornato a New York, Muir si imbarca su un battello, fa scalo a Panama e prosegue su una seconda nave per la costa ovest. Dopo 48 giorni complessivi di viaggio sbarca a San Francisco, il cuore economico della California. La sensazione è terribile. Muir è inorridito. A San Francisco tutto è frenetico, caotico, tutto è respingente, dominato dalla logica degli affari e dalla sete di denaro. La corsa all’oro degli anni precedenti ha reso San Francisco una città deforme, cresciuta a dismisura e diventata, agli occhi di Muir, l’emblema di quella modernità senz'anima che sta per imporsi ovunque. Questa è la società che stiamo costruendo? Questa la strada che sta prendendo il mondo? Sono interrogativi che già Henry D. Thoreau si era posto, giungendo a conclusioni simili a quelle di Muir, sebbene più teoriche e forse più distaccate. Io andrò da un'altra parte, pensa Muir. Seguirò altri ideali, come dovrebbe fare chiunque.

Muir chiede a un carpentiere quale sia “la strada più rapida per uscire dalla città. Ma per andare dove?, domanda il carpentiere. ”In qualunque luogo selvaggio”, risponde Muir (Jenni, 2021, pp. 111-112). È la primavera del 1868, la terza svolta. John Muir entra così nel suo territorio di risonanza.

Lo splendore della natura californiana va “al di là di ogni lode e descrizione” (Muir, 2022, pag. 93). L’aria è “perfettamente deliziosa, abbastanza dolce per essere respirata dagli dèi” (ibidem), i pendii delle colline sono di “bellezza inimitabile, rivestiti dall’erba più verde e dalla luce più ricca che abbia visto, e colorati e ombreggiati da milioni di fiori, di ogni tonalità, soprattutto viola, giallo, oro” (ibidem). I fiori, specialmente, sono uno spettacolo senza pari, sia qualità - colori, forme, luci, composizioni - sia in quantità: migliaia in pochi metri.

La valle di San Joaquin, che Muir attraversa per raggiungere Yosemite e la Sierra Nevada, è in effetti una festa di fiori dalla bellezza oltre l'immaginazione.

 

“E’ il pezzo di mondo più fiorito che abbia mai percorso, una vasta aiuola piena e uniforme, un lenzuolo di fiori, un mare liscio increspato solo dagli alberi che orlano il fiume, e qua e là da piccoli ruscelli che corrono di traverso le montagne. La Florida è davvero una terra fiorita, ma per ogni creatura floreale che vive nei suoi luoghi più stupendi qui ne vivono a centinaia… Qui, qui, è la Florida!”. (ibidem, pag. 94).

 

Infine, giunto nella Valle di Yosemite, dinanzi ai ghiacciai, alle rocce, alle cascate, alle sequoie, ai cieli sconfinati, la sensazione di meraviglia è di un'intensità che Muir, pur già ricco di esperienze del bello, non credeva possibile.

 

“Mai prima d’ora avevo visto un paesaggio così magnifico, un’abbondanza così sconfinata di sublime bellezza montana. Qualunque descrizione che potrei dare di questa vista, neppure la più elaborata, a chi non ha mai ammirato un simile panorama coi propri occhi, riuscirebbe ad accennare alla grandiosità e bagliore spirituale che l’ammantava” (ibidem, pag. 107).

 

“Mai prima d'ora”. In effetti, l'avvento in California e tutto ciò che in California accade, sono, per Muir, un superamento di soglia, l'inizio di un’avventura culturale, scientifica e politica che molte differenze produrrà nella storia.

 

  

Il corpo aperto

 

Per cinque anni Muir resta a Yosemite. I pochi giorni inizialmente previsti si moltiplicano a dismisura. L’esperienza estetica deve decantare. Il bello della natura di Yosemite ha bisogno di lunghe durate per potersi esprimere e ricevere corrispondenza. Serve molto tempo orizzontale (cronos, il tempo degli orologi) come presupposto per muoversi, camminare, esplorare, scoprire, scalare, fermarsi, creando le condizioni affinché il tempo verticale, il kairos, l'evento della bellezza e dell'appartenenza, si verifichi.

E in realtà è un evento che nelle giornate di Muir si verifica continuamente, con estasi ripetute, continue evasioni dal corpo chiuso per entrare in una sorta di corpo aperto, di “allargamento comunitario dell’io” (Selvaggi, 2023), grazie al quale l’umano e il naturale, John Muir e la natura selvaggia, si congiungono, o meglio si ricongiungono, vista l'origine comune, terra con terra, di naturale ed umano. Le cose non accadono intorno a noi, fuori, ma dentro. Fuori/dentro.

 

“[E’] meraviglioso come tutto nella natura selvaggia ci calzi a pennello, come se fosse davvero una nostra parte progenitrice. II sole scintilla non su di noi, ma in noi. I fumi scorrono non oltre noi, ma attraverso noi, tremando, titillando, facendo vibrare ogni fibra e cellula delle sostanze dei nostri corpi, facendoli volteggiare e cantare. Gli alberi ondeggiano e i fiori sbocciano nei nostri corpi come nelle nostre anime, e ogni canto di uccello, e di vento, e ogni terribile canto tempestoso delle rocce nel cuore delle montagne è il nostro canto, il nostro vero canto, e canta il nostro amore. (Muir 2020, pp. 187-188).

 

Nella poetica narrazione di Muir, la dimensione sistemica della natura e il senso di appartenenza sono costanti quasi ossessive. Muir è rapito, dolcemente ossessionato dall’idea di sistema, di relazione, di “palinsesto del mondo”, di disegno unico che tiene tutto assieme e nel quale “ogni frammento dell'esistente [è] colto ogni volta come un tutto, compiuto ed eterno”. “Che si tratti di descrivere una goccia di pioggia di rugiada, o un'ombra proiettata su una roccia, fino a una tempesta di vento arrampicato su un albero o un terremoto che scuote le pareti di Yosemite e fa tremare la terra, lo sguardo di Muir è sempre teso a rintracciare l’unico palinsesto della natura, in cui ogni cosa - grande o piccola - partecipa di una sola unità, di una sola armonia, di una sola bellezza” (Miliotti in Muir 2022a, pag. 11).

 

“Non c’è un singolo frammento in tutta la Natura, perché ogni frammento relativo di una cosa è di per sé un’unità piena e armoniosa. E tutte insieme formano l'unico grande palinsesto del mondo” (Muir, 2022a, pag. 16).

 

Per comprendere meglio l’idea muiriana di “palinsesto del mondo”, o meglio la visione unitaria di Muir, dovremmo leggerla in una doppia accezione che vede l’umano e il naturale specchiarsi, dialogare, scambiarsi i ruoli: da un lato, l’umano che nella natura selvaggia vede molto di sé stesso e si ritrova finalmente nella vera casa; dall'altro, il naturale che assume caratteri quasi umani, come di qualcosa che ci somiglia molto più di quanto credevamo, non tanto in uno scivolamento antropomorfo ma in un'elevazione esistenziale, in un'acquisizione di valori, facoltà, virtù, poteri che la cultura e la scienza hanno storicamente attribuito ai soli umani.

Gli alberi, ad esempio, non sono fermi, piantati, né si limitano a danzare nel vento. Si muovono, camminano, sono viandanti che compiono viaggi molto lunghi. E così persino le rocce, i massi, le piccole o grandi pietre di fianco alle quali Muir si siede, si accampa, dorme, per studiarle e conoscerle meglio. Non stanno ferme. Si muovono, camminano anch'esse. Parlano, cantano, se solo si ha la cura di prestare loro ascolto.

 

“Questo è il mio metodo di studio. Vago di roccia in roccia, di bosco in bosco. Dove mi sorprende la notte, là dormo. Quando scopro una nuova pianta mi accampo accanto a lei per qualche minuto o giorno per fare la sua e provare ad ascoltare cos’ha da dirmi… Ai massi che incontro chiedo da dove giungano e dove stanno andando (Muir 2020, pp. 14-15).

 

Dunque, Muir parla non solo agli animali (i più vicini a noi) o alle piante, anticipando quel superamento della plant blindess, dell’incapacità di vedere e considerare il mondo vegetale che oggi è fortemente promosso da scienza e cultura ecologica (Snæbjörnsdóttir, 2020). Va oltre. Nella sua visione unitaria, apre un dialogo con l’inorganico. Scopre che esiste un linguaggio dell’inorganico che è parlabile ed udibile, a patto che ci si metta accanto, con il corpo aperto e il tempo giusto e si lavori per la rivelazione cognitiva. Usando una terminologia batesoniana, potremmo dire che rocce e pietre non sono realmente o completamente pleroma, inanimato. Rientrano in un discorso mentale più grande, che ci riguarda. Sono pienamente sistemiche. In qualche modo ragionano, agiscono mentalmente anch’esse. Partecipano della creatura.

 

“Siamo ora nelle montagne ed esse sono in noi, accendendo l’entusiasmo, facendo fremere ogni nervo, riempendo ogni porro e ogni cellula. Il nostro tabernacolo di carne ed ossa sembra trasparente come vetro di fronte alla bellezza che ci circonda, quasi ne fosse davvero parte inscindibile, palpitante con l’aria e gli alberi, i torrenti e le pietre nelle onde del sole - parte della natura intera, né vecchio né giovane, né malato né sano ma immortale (Muir, 2021, pag. 20).

 

Il “tabernacolo di carne ed ossa” è il corpo, che non è più chiuso ma aperto, “trasparente come vetro” di fronte alla bellezza della natura selvaggia, al risuonare della natura selvaggia, alla sua musica. L'esperienza del bello ha questo potere: di aprire il corpo all'epifania naturale, regalando a chi vive l'esperienza un nuovo corpo, più grande e accogliente e in qualche modo anch’esso, come la natura, né vecchio, né giovane, né malato, né sano ma immortale.

 


Assi di risonanza (e assi di alienazione)

 

Il concetto di “risonanza”, elaborato dal sociologo tedesco Hartmut Rosa, è molto utile per leggere e riassumere, con una parola pregnante, l’esperienza estetica ed esistenziale di Muir. Per Hartmut Rosa, la risonanza è lo stato di relazione benefico con il mondo. È l’entrare in un dialogo significativo, una “relazione responsiva”, in cui la persona protagonista si apre al mondo - dove questo si presenta sotto forma di un certo “asse di risonanza”, sia esso natura, paesaggio, arte, persona, libroo lezione, gioco, impegno politico, religione o altro ancora - e lo incontra, e dall’incontro trae una soddisfazione profonda. “Vita buona” la definisce ancora più semplicemente Rosa.

Nell’evento della risonanza, nell’incontro significativo con una delle forme del mondo, siamo come la corda di uno strumento opportunamente toccato, con la musica che, appunto, risuona. “Quando si stabilisce una forma di risonanza, la corda inizia a tendersi, gli occhi brillano. Di qui, un potente effetto di reciprocità, di interazione. Qualcosa ci prende e ci tocca, entriamo in contatto con l’altro” (Rosa 2020, pag. 180).

Può, appunto, accadere con la visione di un paesaggio, con una giornata di birdwatching, con la lettura di un libro, con l’innamoramento (l’amore tra due persone), con la passione per una causa, con una lezione a scuola. Nella quale lezione, dice Rosa, quando essa funziona, si determina un “triangolo di risonanza” dato dall’incontro positivo dei tre assi coinvolti: lo studente, l’insegnante, la materia dello studio. A rifletterci, è proprio ciò che avveniva a Muir nella scuola della natura del Wisconsin, dove lo studente era lui medesimo, la maestra era la natura e la materia, di volta in volta, erano uccelli, torrenti, lucciole, alberi, fiori… Risultato: risonanti lezioni d’amore.

 

“Il triangolo di risonanza descrive una situazione o un’ora di lezione… [nella quale] i tre assi di risonanza sono costitutivamente aperti: insegnante e studenti riescono a raggiungersi e a motivarsi l’un l’altro. Entrambi sono interessati alla materia affrontata a lezione e mirano non tanto ad averne il controllo quanto alla sua appropriazione trasformativa (Rosa 2020, pag. 184).

 

Peraltro, la condizione del dover raggiungersi per produrre risonanza fa capire che non sempre la risonanza è effetto che ha luogo. Un incontro così benefico, che porta al raggiungimento dell’altro e (in misura variabile) alla trasformazione del sé, può avvenire solo a determinate condizioni, tra le quali la condizione oggettiva di incontrare l’asse giusto e la condizione soggettiva, del protagonista dell’incontro, di essere disposto alla risonanza.

 

“La disposizione alla risonanza è un atteggiamento di base positivo da parte del soggetto di fronte al mondo. In altri termini, è la predisposizione a entrare in relazioni di risonanza, ad aprirsi al mondo confidando in sé stessi e pertanto a mettere in conto anche la vulnerabilità che inevitabilmente ne deriva” (ibidem, pag. 181).

 

Alessandro Miliotti dice la medesima cosa a proposito della disposizione verso la natura di Muir e di chiunque voglia vivere un’esperienza naturale significativa:

 

“Lo sforzo di vedere la natura come un unico organismo, come terra vivente è sempre interconnesso al modo di porsi [dell’osservatore]. L’occhio fisico e l’occhio della mente possono giungere alla percezione dell'unità solo se in chi osserva e presente l’apertura a un tale sforzo trascendente. E questa apertura, in Muir, non è altro che amore, emozione, vivificato dalla conoscenza. In altre parole, per Muir non si può cogliere la bellezza, la perfezione, l’unità dell'ente naturale senza esser mossi dall’amore, dall'empatia, dalla compassione, dall'immaginazione, dalla meraviglia e così via” (Miliotti in Muir 2022a, pp. 11-12).

 

Bellezza e compassione, estetica ed etica ambientali, assieme.

Nel corso della nostra vita noi abbiamo accesso a molti punti del mondo, incontrando una moltitudine di “assi” potenzialmente benefici, in modo però che non tutti questi incontri abbiamo l’esito di risuonare, di cambiare positivamente il nostro stato. Al contrario, spesso il nostro tempo scorre piatto, nell’indifferenza e nel distacco, ove non nel disincanto e nel cinismo. In tal senso è utile notare che Hartmut Rosa elabora la concezione della risonanza in risposta all’alienazione come condizione che domina il mondo della tarda modernità e rende difficile, se non impossibile, ogni esperienza significativa.

Riprendendo il tema storico dell’alienazione (Rosa, 2015), Rosa lo colloca nel nostro tempo (la tarda modernità) e lo assume anzitutto in chiave di disfunzione temporale. L’alienazione è cioè una dissoluzione dell’essere nel mondo, una rottura delle relazioni col mondo dovuta principalmente alla “velocizzazione del tempo”, o meglio all’accelerazione dei fenomeni che riguardano l’esistenza: accelerazione del ritmo di vita, dei mutamenti sociali, della tecnologia. Tutto è accelerato al punto da rendere impossibile ogni relazione sensata con il mondo e con il sé, fino a condurci a quel crack esistenziale che è, appunto, l’alienazione, il nulla delle relazioni significative. Il nulla della risonanza.

I motori di questi processi accelerativi, nota Rosa, sono vari ma tutti rimandano al tipo di mondo che abbiamo costruito e di sistema economico che lo domina, finalizzato alla spinta dei consumi e dunque all’accelerazione dei tempi di consumo, a danno della soddisfazione. È questo lo scopo dell’economia contemporanea, basata sulle merci:

 

“indurre incessantemente i consumatori a comprare nuovi prodotti, per esserne necessariamente delusi, mai però al punto di astenersi dal comprare la merce (…) ma in modo che dopo ogni delusione ne acquistino una nuova e più grande” (Rosa 2024, pp. 125-126).

 

Questa dinamica di accelerazione/accrescimento del possesso vale per gli oggetti di consumo, per i dispositivi tecnologici, per le esperienze culturali, per il turismo urbano mordi e fuggi (incluso l’acquisto di simulacri della città, sotto forma di souvenir), per i tour distratti in un museo e persino per un certo turismo naturalistico, veloce e superficiale, nel quale le chance di responsività sono davvero minime.

Il risultato è un’anti-risonanza, una piattezza, una vita che ruota intorno non agli assi della risonanza ma agli assi dell’alienazione. La modalità del sentirsi coinvolti, del sentirsi fremere, brillare, cede il posto alla “modalità di indifferenza”, “il disinteresse alla relazione con una persona o una cosa”, la sensazione che “qualcosa non ci dice proprio nulla o una persona non significa niente” (Rosa 2023, pag. 181), se non addirittura alla “modalità di repulsione: ostilità, disgusto, rifiuto, rigetto, essere rifiuti o rifiutare”. Un “reciproco respingersi”, una “reciproca resistenza ed ostilità” (ibidem). Il mondo che non risuona. Il mondo che è silenzioso, di un cattivo silenzio, o che stride, rumoreggia, urla.

Capiamo bene, allora, la congruità del tema della risonanza, così come quello capovolto dell’alienazione, rispetto all’esperienza di John Muir. Per descrivere le sue estasi in natura, Muir usa continuamente metafore musicali (canto, musica, suono, melodia, suono, risuonare…) e tuttavia è proprio il cuore del discorso filosofico muiriano che, dal tema della risonanza, viene interessato. Un secolo e mezzo prima di Rosa, con altri termini e altri spunti, Muir propone la stessa coppia oppositiva, alienazione versus risonanza, e la declina. Anzi, la vive. È il desolante panorama sociale che Muir vede a San Francisco contro le meraviglie di San Joaquin, è l’assalto alla natura selvaggia contro la sua ammirazione, è la corsa al progresso che spinge gli Stati Uniti ad accelerare, occupare territorio, contro una visione del mondo che “non si oppone ciecamente al progresso ma si oppone al progresso cieco”, all’egemonia dell’utile ed ai suoi danni.

 

“Migliaia di persone stanche, esaurite, iper-civilizzate, stanno iniziando a scoprire che andare in montagna è tornare a casa; che la natura selvaggia è una necessità, e che i parchi e le riserve montane non sono utili solo come fonte di legna e di acqua per irrigare, ma come fonte di vita” (Muir 2020, pag. 19)

 

Nella tarda modernità, ogni esperienza cosciente è egemonizza dal calcolo dell'utile, cosicché lo spazio per esperienze non-utili è ridotto al minimo, ove non azzerato. Ciò comporta ulteriori accelerazioni e scorciatoie nel nostro cammino e molto poco tempo a disposizione per la Valle dello Yosemite. Questo in definitiva avverte e denuncia Muir: che nello schema socioculturale che si va affermando non c’è terreno per la risonanza. A questo dramma Muir oppone il credo nella natura selvaggia e la necessità, poetica e scientifica, di farla salva. Una via d'uscita c'è - dice - e dovremmo imboccarla.

 

  

Scienza e scienza

 

Le esperienze muiriane in California, le descrizioni che Muir fa della natura selvaggia, il suo afflato potentemente poetico possono indurre facilmente all'idea che quella di Muir sia una modalità non scientifica, pseudoscientifica, mistica, di vivere e conoscere la natura. Non è così. Mai Muir rinuncia al discorso scientifico e mai vive il bello come un intralcio alla conoscenza. Al contrario, bellezza e scienza sono protagonisti dello stesso progetto di comprensione del mondo.

I termini bello e bellezza, che con il loro universo analogico inondano il racconto di Muir, si affiancano a quei passaggi che riportano alla dimensione logica (della nozione, della descrizione precisa, della teoria), alla quale Muir si dedica con meticolosità, finendo peraltro col dare contributi scientifici di grande rilievo come ad esempio avverrà, in campo geologico, con la sua scoperta dell'origine glaciale della Valle di Yosemite.

Muir non è un sognatore vacuo né un negatore della logica. Piuttosto, la critica di Muir distingue scienza e scienza, si rivolge criticamente alle derive tecnicistiche che spingono la scienza verso una china divisionista, troppo identificante, come direbbe Adorno, e per questo incoerente con il modo in cui il mondo è. Insomma, alla fine, poco scientifica.

 

“L’uomo di scienza, il naturalista, perde troppo spesso di vista l'unicità essenziale di tutti gi esseri viventi; tenta di classificarli in regni, ordini, famiglie, generi, specie e così via, annotando il tipo e la disposizione delle membra, dei denti, delle dita, dei piedi, delle squame, dei peli, delle piume eccetera, misurando e ordinando in metri, centimetri e millimetri; invece l'occhio del Poeta, del Veggente, non si chiude mai sull'essenziale affinità di tutte le creature di Dio, e il suo cuore pulsa sempre in empatia con gli esseri grandi e piccoli, come suoi compagni nati sulla terra e compagni mortali” (Muir 2022a, pp. 12, 13).

 

Al di là dell'enfasi del tono o dei riferimenti religiosi, ad emergere nel discorso di Muir è il bisogno di una correzione dello sguardo scientifico che, troppo impegnato a distinguere e specificare, non riesce a connettere, disegnando così una realtà frammentata e infine alienata.

Invece, nella visione di Muir, scienza e poetica rappresentano variazioni reciproche, due spartiti di un’unica composizione del vivente, due amiche e non due nemiche se non quasi un tutt'uno, perché entrambe strumenti di lettura del gioco di connessioni che unisce il vivente e lo mostra, ai nostri occhi, in continuità. Tra le conseguenze della relazione diretta con la natura, del vivere la natura in modo prossimo e approfondito, c'è in effetti anche questo: il crollo della concezione dualistica che oppone il logico e analogico. Un dualismo che la cattiva modernità sta favorendo, al pari di quanto favorisca l’opposizione nell’analoga coppia umanità-natura, costringendo a scegliere tra l'una e l'altra: o umanità o natura, o scienza o poesia, o progresso (dighe, città, ferrovie) o wilderness. Grave errore, con gravi conseguenze.

Il dualismo, sembra dirci Muir, è una forzatura che non ha ragione di esistere. Non dualismo ma dualità. Il dualismo è il presupposto pericoloso di divisione e opposizione. La dualità è il presupposto benefico di differenza e ammirazione. Di relazione. È la garanzia che l'altro esista e sia protetto, e dunque, per relazione e gioco di specchio, che esista e sia protetto anche il sé. Cioè, noi esistiamo davvero solo se abbiamo un altro, se riconosciamo un altro, accessibile ma indisponibile, con cui co-esistere. Altrimenti stazioniamo in quella sorta di inesistenza sostanziale che è l'esistenza alienata. Più disconosciamo l'esistenza altrui, meno esistiamo noi. Anche a questo serve allora la natura selvaggia: a farci esistere davvero.

Siamo così, infine, al discorso del sacro, uno dei centri della filosofia di Muir e, più in generale, di una vasta sezione della successiva filosofia della natura.

 

  

L’area protetta

 

Cos’è il sacro, per John Muir? È l’autonomo, il sottratto a noi, il protetto da noi.

Tra le prime note che Muir appunta sul diario, giunto a Yosemite, ci sono metafore di stampo religioso, osservazioni incantate tipiche di chi arriva in un luogo talmente bello che non può mancare di coglierne il divino.

 

“Qui è di gran lunga il più nobile di tutti i tempi della natura in cui mi sia stato permesso di entrare. Qui deve essere il sanctum sanctorum di tutta la Sierra (Muir, 2022a, pp. 94-95).

 

“Lieto di essere il servo dei servi in questa sacra natura selvaggia” (Muir, 2022b, pag. 21).

 

In tali considerazioni, così come quelle che insistono sul “vedere”, sulla “visione”, c'è senz'altro l'impronta della religiosità di Muir, parzialmente dovuta all'educazione paterna giovanile, sebbene sviluppatasi secondo linee che via via allontaneranno Muir dal credo ortodosso per aprirlo a una religiosità più orizzontale, non priva di tratti panteistici.

Tuttavia, la questione rilevante non è solo nella preziosità dei tesori custoditi dalle aree naturali bensì nel fatto che le aree della natura selvaggia sono, e devono restare, escluse dalla manipolazione umana. Questo è ciò che interessa a Muir, e questa è la sua idea di sacro. Il sacro è il riservato, l’indisponibile, il tolto dalla disponibilità umana. È il limite non valicabile, la non-risorsa. È l’area protetta. La circoscrizione di una parte di mondo nella quale noi non ci siamo, ovvero ci siamo ma non nelle modalità consumistiche ed alienate con cui normalmente frequentiamo il mondo. Siamo in un tempio, non all’emporio.

Nel 1869, accompagnando un pastore ed un gregge di 1500 pecore per la Central Valley della California, Muir colse ciò che quell’attività apparentemente innocua rappresentava: l’inizio della fine anche per le solenni valli e montagne californiane, invase dalle greggi, brucate, mangiate, sfruttate in modo sempre più intensivo. Ai suoi occhi quel gregge di pecore era l’inizio della fine (fu probabilmente un gregge di pecore il motivo della rottura tra Muir e Gifford Pinchot, amico-rivale, sostenitore di una visione meno romantica e più utilitaristica dei beni naturali). Se la storia continua così, se i bisogni umani diventano desideri incontrollabili e se i desideri incontrollabili si fanno mercificazione, che ne sarà, da qui a breve, della natura di Yosemite e della Sierra e di ogni altro sanctum sanctorum? Come fermare l’avanzata dello spirito distruttivo?

L’idea di Muir è chiara: con il sacro. Con i santuari naturali. Con la wilderness che resta wilderness. Con l’istituzione di un sistema di aree rigorosamente protette. Con la sottrazione alla disponibilità umana di beni che non sono fatti a nostro esclusivo uso e consumo e devono mantenersi in quella indisponibilità che ancora Hartmut Rosa pone alla base dell’esperienza di risonanza: solo ciò di cui non disponiamo, non controlliamo, può darci emozione, soddisfazione vera. Fuori/dentro. Estraniazione e appartenenza. “L’idea che il mondo sia stato creato appositamente per gli esseri umani - scrive Muir - è un assunto non supportato dai fatti” (Muir, 2022b, pag. 17), dando esempi concreti dell’infondatezza di questo pur millenario credo. I beni del mondo sono rivolti non solo al nostro accesso, anche se del tipo più delicato, ma anche a qualcosa che è più di noi: l’innumerevole vita selvatica, le vite che non siamo noi. Senza un riconoscimento pieno di questo dato, nessuna filiera virtuosa che riguardi l’ecologia del nostro essere nel mondo potrà essere attivata.

E così, come accadrà mezzo secolo più tardi con Rachel Carson, costretta a posticipare il suo libro sulla meraviglia (purtroppo senza poter più scriverlo) per occuparsi delle “primavere silenziose” (Selvaggi, 2022), John Muir rinuncerà a parte della sua passione per intraprendere con preoccupazione una battaglia politica finalizzata al sacro della natura, vale a dire a far sì che gli Stati Uniti d’America aprissero un nuovo capitolo di politiche attraverso la creazione di un sistema di aree naturali come beni indisponibili della nazione.

L’impegno di Muir si rivolgerà anzitutto alla Valle di Yosemite, che nel 1860 era diventata parco ma di rango soltanto statale, sottoposto alla debole giurisdizione della California e quindi ai forti interessi economici che la dominavano. Muir chiedeva la promozione di Yosemite a parco nazionale, come già avvenuto per Yellowstone. Articoli, lettere, incontri con la gente, pressioni sui politici proiettarono Muir in una dimensione nuova, quella del lobbista, nella quale lo scozzese del Wisconsin dimostrò una speciale abilità comunicativa e persuasiva, che ebbe l’apice, e la chiave di volta, nel tour per la Valle di Yosemite con il presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt.

Per tre giorni, nel maggio 1903, Muir e Roosevelt girarono da soli nella valle. Ammirarono gli alberi, ascoltarono gli uccelli, goderono delle meraviglie, si accamparono intorno al fuoco e parlarono a bassa voce nella notte silenziosa di Yosemite. Roosevelt ne uscì incantato, colpito. Incantato dal fascino della natura, colpito dal discorso di Muir, il cui argomento fu la perorazione del bello come valore nobile e indispensabile della nazione, che porta con sé la sacralizzazione, ovvero la protezione della natura selvaggia. La natura - sostenne Muir - è certamente una ricchezza in termini di risorsa materiale, come acqua, cibo, legna, materie prime, essenziali per la nostra sussistenza, ma è altresì una ricchezza in termini immateriali, come fonte di bellezza, ammirazione, elevazione, essenziali per la nostra esistenza.

La risorsa è l’utile, eppure l’utile non basta a soddisfarci, né a rispondere al senso della vita né a rendere giustizia all’utile altrui, cioè ai bisogni delle vite che non sono le nostre. Le quali verrebbero presto annientate se i bisogni umani, specie nella versione potenziata dei desideri della nuova società consumistica, non fossero arginati, e se la natura venisse ridotta alla dimensione di risorsa. Dopo breve, della wilderness resterebbe nulla.

Il punto chiave dell’estetica e dell’etica ambientali di John Muir, della sua concezione di bello ecologico, è questo: il bello è la garanzia di presente e futuro, perché richiede che una parte cospicua del mondo sia sottratta alla materialità dell’utile e posta nell’indisponibilità. Quale straordinario strumento di protezione è dunque l’esperienza del bello! Ci permette di godere oggi (di parte) del mondo, senza consumarlo, e così di preservarlo per domani. Ci permette di cogliere il disegno armonico della natura, regalandoci eventi di risonanza e dunque felicità, e di evitarne la distruzione, conservando il mondo anche come risorsa. Il bello è insomma il filo di un percorso che mette assieme il sistemico, il risonante e il sacro. Ci fa percepire il sistemico (l’unità ecologica del vivente), e il sistemico ci conduce al risonante, ed entrambi necessitano del sacro, del nostro consapevole ritrarci. Di aree protette.



Oggi e domani

 

La Valle di Yosemite divenne parco nazionale l’11 giugno 1906. John Muir aveva vinto la battaglia, aprendo la strada alla nascita del sistema delle aree protette - statunitensi e mondiali - ma soprattutto dando il via ad un nuovo modo di pensare la natura, decisamente diverso da quello fino ad allora maggioritario. Natura non soltanto come 1) magazzino di risorse ma come 2) fonte di esperienze spirituali e 3) luogo di vite altre. L’utile, il bello, il giusto in circolarità tra loro.

L’ambientalismo storico nasce e si evolve da qui, da John Muir, dalla novità di questa triade e dalla missione di promuoverla, a cominciare dall’impegno di estendere il più possibile la messa a protezione delle aree naturali più preziose. Tra i risultati concreti ci sarà l’argine all’assalto della Grande accelerazione del ventesimo secolo, la quale, ciononostante, porterà alla modifica antropica del 65% degli habitat marini e del 75% degli habitat terrestri, nonché al rischio di estinzione per un milione di specie (Ipbes, 2019) e ad uno spaventoso processo di consumo del suolo (Pileri, 2024). È ciò che chiamiamo antropocene, l’antropizzazione del pianeta. Una questione seria, che pone la nostra stessa specie a rischio esistenziale.

Allora, quale contributo può dare ancora il bello ecologico, oggi e domani? Cosa ha ancora da dirci il vagabondo John Muir, 150 anni dopo? Molto, moltissimo, e proprio in relazione all'attualità della triade utile/bello/giusto che egli ha contribuito a promuovere.

Lo stato socioeconomico del nostro mondo globalizzato, con le sue accelerazioni e gli stili di vita insostenibili pur in un’iniqua asimmetria, pone in primo piano il tema della gestione e della distribuzione delle risorse naturali, sempre più ridotte, contese e difficili da reperire.

Il primo elemento della triade, l’utile, è così diventato tema di riflessioni e politiche planetarie, che soprattutto intorno alla metodologia del cosiddetto capitale naturale propongono modelli gestionali e culturali alternativi, votati alla sostenibilità di lungo termine dell’uso della natura, a una maggiore giustizia ambientale, alla circolarità dell’economia e dunque a stili di vita diversi che devono affermarsi.

In questo senso si pone allora il tema della protezione della biodiversità e del territorio naturale, che ha ormai scalato i vertici delle preoccupazioni ambientali, per via dei livelli di perdita di natura raggiunti e della tendenza all’ulteriore declino. La questione delle aree protette è per questo tornata fortemente in auge, sia con prese di posizioni scientifiche eminenti tra cui la proposta di Edward O. Wilson di dedicare alle aree protette “metà del pianeta” (Wilson, 2016), sia con i programmi strategici ufficiali di istituzioni internazionali quali la Convenzione della Biodiversità della Nazioni Unite e la Commissione europea, secondo cui le aree protette dovranno, da qui già al 2030, coprire almeno il 30% del territorio mondiale, di cui il 10% a protezione rigorosa (European Commission, 2020). In un modo o nell’altro, è la wilderness di John Muir. Il sacro di John Muir, il terzo elemento della triade.

Il che ci riporta, per concludere, al tema dell’esperienza estetica. Non avremo protezione adeguata e attento uso delle risorse se tra i valori che professiamo, tra le attività che pratichiamo e consideriamo importanti, cioè tra le abitudini consolidate, non ci saranno anche quelle libere dall’utile e votate al riconoscimento del mondo. All’arte di vedere le cose, direbbe John Burroughs.

La felicità che Muir si è regalato con il suo wandering naturale, che un tempo non lontano appariva una mera bizzarria, oggi è una crescente esigenza sociale, non tanto sotto la forma stretta del wandering o le forme estreme di certe imprese naturalistiche ad alto rischio che Muir ha messo in atto (andare incontro alla tempesta che impazza nella Sierra, salire sulle cime di alberi di trenta metri sferzati dal vento, scalare montagne di roccia in pieno inverno), ma sotto forma di una diversa espressione vitale, di  schemi esistenziali differenti da quelli dell’accelerazione, che ci strappano via dal mondo e ci privano di ogni risonanza. Essere nel mondo, non alienazione. Tempi più larghi, disposizione all’amore. Sentimenti gratificanti di appartenenza alla comunità del vivente.

È, manco a dirlo, un’impresa molto difficile, individualmente e soprattutto collettivamente, dovendo essa passare dalla ricostruzione di intere infrastrutture politiche, economiche e culturali, cioè da processi piccoli e grandi di transizione. E tuttavia è un’impresa necessaria se davvero teniamo al destino dell’umanità, al mondo e alla qualità delle nostre vite.

Ogni fiore mancato è una cecità. Ogni momento di indifferenza è una sofferenza silente, un’alienazione. Ma non solo: potremmo dire che il messaggio più intelligente che emerge dalla storia di Muir, la chiave di volta che essa suggerisce, per oggi e domani, oltre che nei fiori di cui godiamo, nell’attenzione e nella cura che prestiamo al vivente, sta nei fiori che nostro malgrado manchiamo, in quelli che sfuggono al nostro bene, al nostro desiderio. Nelle promesse dei fiori. Nelle gioie che abbiamo perduto o mai avuto. Nell’apprezzare il vuoto, nel capire l’assenza.

È esistenza anche questo. È sacro, è risonanza anche questo, e forse della qualità più alta.

   

 

Bibliografia

 

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A.I.E.M.S. - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche

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