Antropologo di formazione, manager, informatico, imprenditore, giornalista, formatore, consulente, docente universitario, critico letterario, scrittore.
Sommario
La cosiddetta 'intelligenza artificiale' sembra essere la novità dei tempi che stiamo vivendo. La sua diffusione, e la propaganda che la sostiene, portano a ritenere che qualcosa sia cambiato nella produzione e nella fruizione di arte, letteratura, musica. Si può infatti oggi immaginare che ciò che era un mezzo di produzione sia oggi un ente capace di per sé di generare autonomamente opere comparabili, in un modo o in un altro, alle opere umane.
Di conseguenza, ci si può chiedere se il concetto stesso di 'bellezza' debba essere inteso in modo nuovo.
Qualcosa, in effetti, è cambiato. Il modo più costruttivo per parlarne consiste nell'evitare linguaggi e spiegazioni tecniche, e nel non perdersi nel guardare alla macchina ed al suo funzionamento.
Ciò che conta è osservare come l'esperienza umana della ricerca e della comprensione della 'bellezza' si manifesti oggi, nonostante la presenza incombente della macchina.
Bellezza come manifestazione di sé, bellezza nella relazione con gli altri, bellezza dei sistemi viventi.
Parole chiave
Algoritmo, Arte, Bellezza, Computer Science, Estetica, Intelligenza Artificiale, Letteratura, Malattia, Poesia, Responsabilità, Tecnica, Tecnologia.
Summary
So-called 'artificial intelligence' seems to be the novelty of the times we are living in. Its diffusion, and the propaganda that supports it, lead one to believe that something has changed in the production and enjoyment of art, literature, and music. Indeed, one can now imagine that what was once a mean of production is now an entity capable in itself of independently generating works comparable in one way or another to human works.
Consequently, one may wonder whether the very concept of 'beauty' should be understood in a new way.
Something, indeed, has changed. The most constructive way to talk about it is to avoid technical language and explanations, and not to get himself lost in looking at the machine and its performance.
What is important is to observe how the human experience of seeking and understanding 'beauty' manifests itself today despite the looming presence of the machine.
Beauty as manifestation of self, beauty in relationship with others, beauty of living systems.
Keywords
Algorithm, Art, Beauty, Computer Science, Aesthetics, Artificial Intelligence, Literature, Disease, Poetry, Responsibility, Technology.
1. Su un vasetto di terracotta, risalente probabilmente al VII secolo avanti Cristo trovato nel 1880 nei pressi del Quirinale, si legge: “duenos me fecit”. Si credette inizialmente che Duenos fosse il nome dell’artigiano, ma oggi si preferisce interpretare: “bonus me fecit”, “mi ha fabbricato una persona buona”. Duenos è infatti una versione arcaica del latino bonus.
Il diminutivo di duenos è duenolus. Da qui il latino bellus: come dire ‘cose piccole ma buone’.
Sempre da bonus discende l'avverbio bene: significa ‘in modo buono’. Ci parla del modo di agire, allargando il concetto a campi differenti: bene vivere; bene mori ‘morire bene’; bene velle: ‘voler bene’, ma anche benevolentia; bene dicere: ‘benedizione’, e quindi anche ‘lavoro come benedizione’; bene facere: ‘beneficenza’, ‘benefattore’, e perciò ‘cura’ nel lavoro, ‘cura’ del proprio lavoro.
Non si può pensare all’agire e al produrre, al lavorare senza tener conto del bello, del bene e del buono. Che - come ci mostra il latino - risalgono ad una stessa, basilare idea.
La bontà è la statura morale che distingue un umano dall’altro. L’artigiano è consapevole di come il buon manufatto sia conseguenza di un complessivo atteggiamento, che possiamo ben chiamare bontà. Dalla persona - “duenos me fecit” - la bontà si trasferisce all’opera, al processo.
Il senso originario sta nella d, radice indeuropea da cui anche il sanscrito duvas: ‘onore’, ‘rispetto’, ‘culto’. Il suffisso -eno- indica il participio. E dunque duenus, bonus, buono significano: ‘dotato di doni e di virtù”.
La bellezza è il frutto del lavoro, dell'agire responsabile dell'uomo buono.
2. Potrebbe apparire scontata, ed anche retorica, la definizione che ho appena proposto: la bellezza come caratteristica distintiva dell'uomo buono, che cerca il bene.
Eppure, ci troviamo oggi a dover ribadire che anche nell'andate oltre, lontano da noi stessi, nel nostro cercare l'immagine della bellezza sistemica - la bellezza della complessità, la bellezza nella complessità - l'inizio di tutto sta nella consapevolezza dell'essere umano. Nell'auto-riconoscimento, e quindi nel passaggio dall'idios al koinós, nella percezione dell'appartenenza alla natura, alla vita.
3. Noi che ci interroghiamo sulla bellezza, noi che osservando noi stessi e il mondo, leggendo e scrivendo, siamo dunque qui a ragionare attorno alla bellezza, noi siamo esseri umani.
Ma è accaduto qualcosa nel Ventesimo Secolo. Qualcosa che possiamo riassumere in una frase.
“We may hope that machines will eventually compete with men in all purely intellectual fields”
scrive Alan Turing in Computing Machinery and Intelligence (Turing 1950).
Alan Turing, essere umano, spera. We may hope. Speranza: attesa fiduciosa. Desiderio: speranza ardente di vedere presente ciò che al momento è invisibile, assente. Ho bisogno di sperare che le macchine possano prendere il posto degli umani.
Incapace di accettare sé stesso, abbandonato dal padre, privo di affetti e di comprensione, spera in una macchina migliore dell'essere umano.
4. Eventually: prima o poi, alla fine, alla fin fine, infine, finalmente, in ultimo, in breve, in un modo o nell'altro. L'avverbio, con la sua ampiezza di senso, sottolinea l'ansia di Turing. Il bisogno profondo. Ma merita di essere colto anche l'implicito riferimento al concetto di evento. Edgar Morin ci offre un meraviglioso avvicinamento al concetto in L'événement-sphinx: "Le terme est riche; du même coup, il est polysémique, complexe, incertain". (Morin 1972)
Turing, però, spinto dal proprio bisogno, rimuove ogni ampiezza ed ogni complessità. Riduce a priori il campo: "In all purely intellectual fields". Cerca l'inveramento del desiderio esclusivamente sul terreno che gli è più consono: la metafisica, la matematica assiomatica. La salvezza per lui è stata vivere in questi rarefatti territori. La macchina che immagina non può che essere una macchina matematica: numerica, digitale. (Varanini, 2020)
È qui che Turing va oltre Darwin: One may hope, si può sperare "che questo processo" – lo sviluppo della macchina pensante, intelligente – "sia più rapido dell’evoluzione". "La sopravvivenza del più forte è un metodo troppo lento" (Turing 1950). L’urgenza del proprio bisogno spinge Turing a forzare i tempi lunghi e mai del tutto conoscibili della storia. Lo spinge a tentare di uscire dalla vita.
Ecco il sogno al quale, cinque anni dopo l'articolo seminale di Turing, viene dato il nome Intelligenza Artificiale. (McCarthy e altri, 1955)
5. Sostituire a sé stesso una macchina. Il desiderio traspare da ogni pagina scritta da Turing.
“We may now construct. We could construct a machine. We shall call the machine an ‘automatic machine’. We should wish... It is possible. It must be possible. It will be possible. It was possible. We need not be troubled by this objection. Own beliefs. My belief.” I believe. “One may hope. I hope.” (Turing 1950)
La speranza consiste dunque in fondo nel rimuovere il proprio essere umano, integro; nel rimuovere la complessità sistemica dove mente e corpo sono inseparabili. (Varanini, 2020)
La speranza finisce per consistere quindi nel rimuovere l'umana capacità di vedere la bellezza.
6. La bellezza che c'è, la bellezza che umanamente possiamo continuare a cercare, va detto, non è una facile e piacevole bellezza edenica. È la bellezza moderna, la bellezza del tempo in cui scienza e tecnologie sembrano trionfare. È la inquietante bellezza della Medusa (Praz 1930). La bellezza descritta da Shelley.
“Giace fissando il cielo della mezzanotte, supina
su una vetta montana annuvolata; più sotto,
possono scorgersi terre lontane e tremolanti;
l’orrore e la bellezza sono in lei divini.
Sulle sue labbra e le palpebre sembra posarsi
la grazia come un’ombra, da cui splendono
livide e ardenti, che sotto si dibattono,
le agonie dell’angoscia e della morte.”
(Shelley 1819)
Agonie, angosce e morte possono essere redente dalla poesia, possono essere osservate come Bellezza.
Pure è meno l’orrore che la grazia a volgere
in una dura pietra lo spirito di colui che osserva.
Come Shelley, Baudelaire:
“Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu‘importe?
Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!”
“Tuffatevi nel fondo dell'abisso, Inferno o Cielo, che importa?
Al fondo dello Sconosciuto per trovare qualcosa di nuovo!”
(Baudelaire 1857)
“J'ai trouvé la définition du Beau, de mon Beau", scrive nel suo diario Baudelaire.
“C'est quelque chose d'ardent et de triste, quelque chose d'un peu vague, laissant carrière à la conjecture”.
“Qualcosa d’ardente e di triste, qualcosa un po’ vago, che lascia corso alla congettura”. (Baudelaire 1851).
È questa la bellezza angosciosa e sofferta che Turing - dentro di sé, intorno a sé - non riesce ad osservare ed accettare. E si rifugia così nell'imitazione della bellezza prodotta da una macchina.
8. Goya fu vittima di "una malattia della testa, che è il luogo in cui ha tutti i suoi disturbi".
"Una malattia di testa”, che coinvolge il corpo e la psiche: la persona intera e il suo essere artista. In realtà, la guarigione sta nell’accettare la propria malattia. Il Goya di prima non tornerà più. Il nuovo Goya è più consapevole, ma lacerato. Accetta una doppiezza, una scissione. E accetta che il suo tormentato modo di essere si manifesti nell’opera. I dipinti placidi, manierati e perfezionisti non torneranno più.
Al loro posto, anche nelle opere dedicate a ritrarre regnanti e governanti, il giudizio critico e sardonico traspaiono. A questa produzione almeno in apparenza agiografica si aggiunge un lavoro segreto, la cui fruizione è riservata a pochi amici, o all’autore stesso: l’opera ‘nera’. Opera che Goya - nota il filosofo Ortega y Gasset - crea “con la chiaroveggenza di un sonnambulo”. Opera che ci parla del lato oscuro, doloroso, dannato dell’essere umano.
Il luogo centrale di questa arte che è autoterapia e lavoro su di sé è il Capricho 43. Goya ritrae sé stesso con il capo reclinato, abbattuto, su uno sfondo di incombenti animali notturni. Nell'opera stessa campeggiano le parole: “El sueño de la razón produce monstruos”. La riduttiva comune lettura della frase suona: Il sonno della ragione produce mostri. Ma lo stesso Goya ci indirizza verso la differente, ben più profonda lettura: Il sogno della ragione produce mostri. (Varanini, 2023)
Il monstrum è di per sé un segno, un ammonimento. Goya accetta l'ammonimento, che consiste in fondo nell'antico invito: 'conosci te stesso'.
Goya accetta le tenebre, accetta l'Inconnu, accetta le agonie dell’angoscia e della morte. E si salva con la propria arte. Qui sta la bellezza della sua opera.
9. La bellezza è il frutto di un processo vissuto dall'essere umano. Goya si cura rinunciando a dipingere scene pastorali, arcadiche, si libera dei mostri e del buio disegnando e dipingendo i mostri e il buio. La discontinuità, la rottura che segna la vita è raccontata con le immagini che in ogni fase della vita si sceglie di disegnare, di dipingere.
Freud e nella sua scia Melania Klein ci insegnano a leggere nell’arte un atto riparatorio. Il gesto creativo mira a riparare, a ripristinare, l’oggetto d’amore perduto, o distrutto. ci guida nel porre l’accento, più che sull’opera stessa, sul valore soggettivo della creazione artistica.
La vicenda di Goya, infatti, più che attenzione all’oggetto della creazione – l’opera in sé – ci parla di come il creare un’opera, una certa opera cambia – ripara, restaura – l’artista stesso. L’opera contiene mostri per liberare l’artista dai mostri, l’opera può anche essere brutta, come la bruttura che rappresenta: “La creazione assume nell’inconscio il senso di una riparazione del sé a spese dell’oggetto". L’opera è cura di sé stessi: "La creazione è autocreazione e l’atto creativo trae il suo impulso più profondo dal desiderio di compensare, con i propri mezzi, le mancanze lasciate o causate da altri”. (Chasseguet-Smirgel 1988)
E dunque se ciò che conta, se il luogo della bellezza è l'umanissimo processo di cura, qualsiasi 'opera d'arte' prodotta da una cosiddetta intelligenza artificiale, non sarà che una imitazione, una pedissequa replica di un avvenuto processo di cura.
10. Solo al fondo dello Sconosciuto troviamo qualcosa di nuovo. Questo potrebbe essere il terreno di ricerca di tutti coloro che oggi inneggiano all'innovazione. Ma gli innovatori di oggi, seguaci di Turing, come lui sono ben lungi dal tentar di costruire macchine che accompagnino l'essere umano nel suo affacciarsi sull'abisso. Costruiscono macchine per sostituire l'essere umano. E per sostituire all'abisso una sua imitazione, una sua versione di cartapesta.
Ma questo saper osservare ed osservarsi risulta impossibile a Turing. Osservare l'orrido: è il
lavoro su di sé ciò che Turing non riesce a compiere. E così si rifugia nel porre al suo posto un certo tipo macchina sostituiva, un Ersatz, un surrogato progettato per permettergli di fuggire lontano da se stesso. E così Turing prepara anche per noi la via di fuga.
Turing non riesce a sporgersi sull'abisso. Turing non riesce a sopportare l'incertezza della congettura. Ha bisogno di certezze immediate ed esattamente definite. A costo di contentarsi di imitazioni e simulazioni della Bellezza. È solo questo che ci offrono le macchine di cui oggi disponiamo.
Turing cerca invece la via di fuga in una riduttiva e formale ragione: il vero definito per assiomi, la possibilità di distinguere con un taglio netto il vero e il falso, la complessità del reale sostituita da purely intellectual fields. Ed essendogli impossibile raggiungere tutto ciò nella sua vita, spera con tutto il cuore che ci riesca, al suo posto, una appositamente costruita macchina.
9. Shelley, Baudelaire, Goya, Turing, sono esseri umani. Così come lo sono i ricercatori, i tecnologi, i computer scientist di oggi. Così come lo è ognuno di noi.
Le scelte che ognuno di noi compie nel lavoro sono legate all'equilibrio affettivo, ai sogni ai desideri, alle emozioni. La vita trascorsa nel chiuso del laboratorio non è che una parte, non isolabile, della vita intera.
È difficile per tutti andare oltre i confini disciplinari e le inveterate consuetudini che limitano e impoveriscono il pensiero. Eppure, senza apertura di pensiero non si può vedere la bellezza - che è transdisciplinare, metadisciplinare. Eppure, le chiavi di lettura storiche, sociologiche e psicologiche sono importanti.
Ma il tecnologo, salvo eccezione, trova modo di evitare queste chiavi di lettura dichiarandosi giudicabili solo da altri tecnologi. La formazione scientifico-tecnologico-ingengeristica, mentre fornisce sicurezze legate al ruolo, esime dall'autoanalisi, dall'esame dell'origine delle proprie intenzioni, dall'attenzione ai nessi profondi tra la propria storia di vita e la propria opera.
Mancano quindi le domande: perché sviluppo questa tecnologia invece di quest'altra? Che rapporto c'è tra le mie scelte tecnologiche e la mia storia di vita?
Spiace dire che a sostenere questa posizione non sono solo esaltati guru della Silicon Valley, lontani da noi. Uno stimato decano dei Computer Scientist italiani conclude la sua autobiografia indicando motivi per i quali i giovani dovrebbero incamminarsi lungo la via di questa professione. I giovani, scrive, hanno ottimi motivi per appassionarsi, perché “c’è un aspetto che è specifico, unico dell’intelligenza artificiale: i sistemi di AI potranno essi stessi prendere decisioni su basi etiche. Distinguere il bene dal male. Questo è un settore di ricerca recente destinato a espandersi”. (Stock 2024).
10. È facile supporre che per questi tecnologi le macchine da loro create siano capaci di produrre bellezza. Ma altrettanto facile per noi è smentire questa pretesa: nelle cosiddette intelligenze artificiali non c'è bellezza, né capacità di generare bellezza. Perché l'intelligenza artificiale, come costrutto, come sistema tecnologico, è il frutto di un tentativo del tecnologo di evitare ogni interrogativo sulla propria bellezza, per paura che questa bellezza non ci sia.
Si cerca di vedere la bellezza in comportamenti e prodotti di una qualche macchina perché non riusciamo a vedere in noi bellezza; non riusciamo a vedere in noi la capacità di produrre bellezza.
11. Si apre così il campo ad una riduzione, ad un impoverimento strutturale dell'esperienza umana.
Se ripercorriamo la storia del Ventesimo secolo, non è difficile osservare il crescere di un timore pressante, motivato da qualcosa che accade vicino a noi: una minaccia tenebrosa che incombe sulle nostre vite, sulla vita in senso lato.
Freud –parlandoci da una Vienna che a lui stesso inizia a diventare straniera, e che giorno dopo giorno svela il suo lato tenebroso e sinistro– ci avvicina così al tema che anche oggi ci inquieta. I sistemi sociali, politici, economici, urbanistici, logistici, industriali sono sempre più com-plessi. I sistemi complessi sono fragili. Nonostante i più accurati modelli, nonostante attente politiche di gestione del rischio, è difficile prevedere i punti di rottura, gli eventi catastrofali. Si aggiunge il fatto che gli esseri umani – anche lo scienziato, il tecnico – fanno parte del sistema. Il sistema complesso non può essere freddamente osservato, governato dall’esterno. Possiamo prenderci cura dei sistemi solo se siamo in grado di prenderci cura di noi stessi.
Cent’anni dopo la percezione di questa minaccia è ben più chiara – anche se forse non ancora abbastanza chiara. I sistemi ai quali apparteniamo sono sempre più complessi e più fragili.
È qui che entra in gioco Alan Turing. Nasce negli anni in cui le inquietudini osservate da Freud si fanno pressanti. I suoi studi lo portano a essere erede della risposta logico-formale, matematica, alle inquietudini descritte da Freud. (Freud 1919; Freud 1930)
Mentre Freud ci invita a guardare alle nostre tenebre interiori, e al nostro stesso essere stranieri a noi stessi, scienziati e filosofi tentano di definire linguaggi capaci di rendere esplicita ogni oscurità, linguaggi capaci di descrivere ogni cosa (Varanini, 2016)
Turing porta a compimento questo disegno: se non saranno capaci gli esseri umani di descrivere con esattezza il mondo, e di governarlo, allora converrà affidarsi a macchine capaci di tutto ciò.
Non posso fidarmi di me stesso, non posso fidarmi di nessuno, non sono in grado di affrontare i problemi che rendono triste e infelice la mia vita. Proviamo con la macchina. Affidiamoci alla macchina. Cerchiamo di attribuire a macchine responsabilità che ci sembra troppo pesante portare sulle nostre spalle.
Un amico Computer Scientist, acuto ed avveduto, mi dice: non siamo stati capaci di uccidere il padre. Resta quindi, come eredità di Turing, la definizione di un preciso modo di intendere l'essere umano: l'essere umano che definisce sé stesso per confronto o similitudine con una macchina alla quale è riconosciuta una qualche intelligenza.
12. La vita umana si nutre della pienezza della nostra esperienza: verbo latino experiri, da cui esperire, sperimentare, esperienza: ex, rafforzativo in cui possiamo cogliere il senso di “in fuori”, perior, “io provo”. (Varanini 2018)
Questa pienezza, nei tempi del pubblico trionfo delle cosiddette intelligenze artificiali. Perché il gioco di Turing e dei seguaci consiste nell'assumere l'esistenza di un terreno, un campo metafisico, nel quale entrambi gli agenti - gli umani e le macchine - si muovono. Si impone una assunzione di principio: esiste almeno un terreno sul quale la macchina compete da pari a pari con l'essere umano.
Stabilita la comparabilità tra macchina ed essere umano, il gioco è fatto: ogni innovazione della macchina, ogni nuova sua nuova versione è presa come nuovo punto di partenza della comparazione tra umani e macchine. L'essere umano è così allontanato dal proprio progetto, dalla propria storia e dal proprio essere, ed è subordinato al progetto della macchina. (Varanini 2024)
L'orizzonte, il campo aperto all'“io provo” è ora condizionato dal costante confronto con la macchina. L'esperienza umana finisce così per essere costretta in una spirale riduttiva, subordinata alle caratteristiche e al funzionamento della macchina.
La stessa tensione verso la bellezza rischia di cader schiava di questo gioco. Come se potesse essere bello per gli umani ciò che è bello per la macchina.
13. Non è da escludere la possibilità che, in qualche modo o misura, possiamo guadagnare qualcosa, o anche migliorare noi stessi, attraverso il confronto con la macchina. Ma nell'ansia di accelerare ed ampliare il confronto con la macchina, finiamo per essere invitati a togliere valore ed attenzione al conoscere sé stessi, e sminuire progressivamente l'importanza attribuita al confronto con esseri umani; e con animali, alberi e fili d'erba.
Basti, a conferma di ciò, l'enfasi posta da tanti esperti nel ricordarci che viviamo ormai non più pienamente nel mondo. Viviamo, si dice, in una realtà aumentata, in una infosfera, in un onlife. In un luogo cioè dove è assunta per principio la compresenza sempre più paritaria di umani e macchine.
14. Questa è dunque la narrazione ingannevole che ci viene proposta. Per illustrarla con chiarezza, gioverà qualche esempio. Basta sceglierne uno tra i tanti.
In un recente libro il primo capitolo inizia con queste parole: “C'è una domanda esistenziale che arrischia il presente e assilla il mondo. È la questione di chi avrà l'ultima parola tra l'umano e la macchina”. (Accoto, 2024)
L'autore pare propendere per una risposta: "l'ultima parola umana è stata proferita". La parola sintetica generata dai modelli linguistici di grandi dimensioni prende il posto delle parole pronunciate e scritte dagli umani. "Questo sorprendente intreccio tra comunicazione e computazione, sociotecnicamente assemblato, sopravanza oggi l'umano divenendo esso stesso oltreumano e sovrumano".
Non intendo entrare qui ora a discutere questa tesi. Mi soffermo invece sull'exergo che campeggia sopra la frase iniziale:
“... non odo parole che dici umane”
- Gabriele D'Annunzio
15. Per svelare il trucco, vale la pena di tornare a leggere la fonte, La pioggia nel pineto.
“Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti, piove su i mirti
divini, (...)”
(D'Annunzio, 1903)
Con un tocco di magia, l'autore si appropria di due versi del poeta, li isola, azzera il contesto, ignora la struttura metrica, per riusarli come pezza d'appoggio al fine di invitare all'ascolto delle parole sintetiche proferite dai modelli linguistici di grandi dimensioni.
Cosa sta osservando, invece, il poeta; cosa sta narrando? La voce che parla, e che invita al silenzio, vive l'esperienza straniante - ma quotidiana, del tutto terrena - della pioggia nel bosco. La pioggia copre le parole umane. Invita al silenzio.
“... non odo /parole che dici/ umane; ma odo/ parole più nuove”. Sarebbero forse queste, le parole della macchina, le parole più nuove, più nuove delle parole umane? Ma no! Il poeta intende invece 'più nuove' le parole “che parlano gocciole e foglie”!
L'autore, dunque, si appropria della bellezza, lì dove esiste, dove si manifesta, per sostenere l'esistenza della bellezza nell'altrove digitale. Si appropria della voce della pioggia che batte sulle foglie per parlare della bellezza della macchina, cita abusivamente la complessa bellezza della natura.
Ritroviamo qui il più comune degli artifici retorici dei celebratori della nuova bellezza digitale: la mistificazione, il 'rendere misterioso' ciò che è semplice. Il trasferire artatamente l'esperienza quotidiana in un altrove digitale.
Ritroviamo qui, anche, ridotta alla sua miseria, una delle critiche più comuni a chi non cede al fascino della macchina 'intelligente'. Si accusa: non sai, non vuoi vedere la bellezza della macchina, perché pecchi di antroprocentrismo. Ma no! Proprio in virtù della mia consapevolezza di essere umano, colgo i limiti della voce umana. Appartenendo alla Natura, colgo il mutare dell'aria che ho intorno, colgo la bellezza della voce della pioggia, taccio colto da meraviglia nel percepire il diverso risuonare della pioggia sui mirti, sulle tamerici, sui pini... “E immersi / noi siam nello spirto
silvestre, / d’arborea vita viventi”. Quante lezioni ancora dobbiamo apprendere dalla natura!
Difficile trovare versi più efficaci per dirci della vanità delle parole di chi ci considera viventi in onlife, infosfere, metaversi, piattaforme. Sorge fondatissimo il dubbio che la ricerca della bellezza della macchina, della bellezza nella macchina, sia la fuga più comoda dall'esperienza: non è così ovvio scegliere il momento per parlare ed il momento per tacere, tra umani; non è così semplice saper ascoltare la voce della pioggia nel bosco.
Più facile rinunciare all'essere-essere-nel mondo e per-il-mondo, e chiudersi in una stanza, di fronte ad uno schermo, ad ascoltare la voce sintetica generata dall' “intreccio tra comunicazione e computazione, sociotecnicamente assemblato”. (Accoto 2024)
16. Possiamo quindi consigliare all'autore che ricorre all'infelice citazione altre fonti, altre pezze d'appoggio, più consone alle sue argomentazioni. Gabriele D'Annunzio nell'estate del 1902, passeggiando nella pineta di Marina di Pisa, attonito ascolta il canto della pioggia. Pochi anni dopo, in quell'inizio di secolo in cui l'innovazione tecnica pareva cambiare il mondo, Filippo Tommaso Marinetti inneggia alla macchina. Il suo Manifeste du Futurisme appare sulla prima pagina di Le Figaro il 20 febbraio 1909. “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità” (Marinetti 1909).
Similmente, agli albori del Ventunesimo Secolo, si afferma che la magnificenza del mondo si è arricchita di una ulteriore bellezza nuova: la potenza di calcolo. Le parole alate che Marinetti dedica ad osannare la rapidità delle automobili da corsa, dei piroscafi e delle locomotive, possono ben essere riprese per osannare questa meravigliosa rapidità, la rapidità del trattamento dei dati, da cui discende la nuovissima macchina che tutto computa e che compie ogni lavoro e che forse è intelligente e che forse pensa.
17. Torniamo dunque a respirare l'aria libera, gli odori della pineta e della macchia mediterranea resi più vivi nell'aria ripulita dalla pioggia.
Riconosciamoci in questa bellezza. Riconosciamoci nella bellezza del saper rendere accessibile, e di nuovo presente, questa bellezza, attraverso parole: l'arte umanissima del poeta. E subito viene in mente come convenga intendere 'poeta' in senso lato, come sinonimo di artista. E subito, anche, viene in mente, leggendo, che non esiste confine tra le arti. E subito, ancora, viene in mente che questi versi mostrano come la poesia è l'eco di un'arte più ancestrale, che non ha bisogno di parole: la musica.
“Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.”
Più delle parole stesse, ci viene offerto un ritmo. È come lo scorrere del fiume. Il poeta, qui, non sovrappone alle immagini una struttura, una forma metrica, un autorevole ordine. Si limita ad ascoltare, e ad invitare all'ascolto.
“E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella”
Ecco, ci ricorda il poeta, l'artista, dove nascono i freschi pensieri e l'anima nostra si schiude al nuovo: tutto nasce dal nostro considerarci felici nella nostra condizione umana, immersi nella natura e nella storia.
Infine, Ermione. Il poeta è con lei in quell'estate, in quel giorno, mentre scoppia la pioggia nel pineto. A lei - oltre che a sé stesso, si rivolge il poeta dicendo: taci, ascolta. Forse era Eleonora Duse, forse un'altra compagna. Ma il poeta la chiama Ermione, come la mitica figlia di Elena e Menelao, simbolo di bellezza.
18. Se ci siamo soffermati su un exergo, se di lì siamo risaliti alla sua fonte, è per passare ora -nutriti dell'odore del pino e del mirto, ripulito lo sguardo dalla pioggia - a porci qualche domanda.
Perché - come amano sostenere tanti fautori della novità digitale - avremmo bisogno oggi di una innovazione culturale nascente dal nostro confronto o incontro con una macchina? Perché c'è qualcuno tra noi che afferma persino che intelligenza artificiale è un nuovo modo d'essere del nostro pianeta?
Ripeto la risposta che ho già tentato di dare: come Turing, viviamo impauriti.
Viviamo tempi difficili. Osserviamo attorno a noi lo stato deplorevole del mondo. Temiamo di non essere all'altezza delle sfide presenti. Temiamo pesi troppo gravosi per le nostre spalle. Temiamo di non saper trasformare l'ansiosa preoccupazione che ci attanaglia in responsabile presenza.
Eccoci quindi a sperare, con Turing, che la macchina intelligente possa prendere il nostro posto.
Possiamo cogliere un sincero, accorato anelito nella frase di Turing. Possiamo cogliervi anche poesia, ritmo. Bellezza.
“We may hope that machines
will eventually
compete with men
in all purely intellectual fields”
Poeti ed interpreti sanno che uno dei modi per tentare di intendere la poesia, è giocare con le traduzioni. In tempi in cui sembra possibile o conveniente affidarsi alla traduzione di scatole nere computazionali ed algoritmiche, cosiddette intelligenze artificiali generative, la traduzione resta per noi umani uno sfiorare l'impossibile, ma anche, nel tentativo i cui limiti ci paiono evidenti, fertilissima occasione per portare alla luce qualcosa del senso che il poeta, volutamente o per incapacità di dire più chiaramente, lascia nella penombra.
"Wir können hoffen, dass Maschinen
irgendwann mit Menschen
in allen rein intellektuellen Bereichen
konkurrieren werden”
“Nous pouvons espérer que les machines
finiront par rivaliser avec les hommes
dans tous les domaines purement intellectuels”
“Cabe esperar que las máquinas
logren por fin
enfrentarse con los hombres
en todos los ámbitos puramente intelectuales”
“Possiamo sperare che le macchine
alla fin fine
competeranno con gli uomini
in tutti i campi puramente intellettuali”
L'autore delle traduzioni, io stesso, come sempre accade, ha fatto tesoro della propria memoria, del proprio estro, del senso del ritmo, della conoscenza delle lingue.
Nulla lo obbliga - anche in questo sta la bellezza delle arti - a dichiarare i mezzi ed i supporti. Se poi magari l'autore avesse usato, oltre a dizionari ed altri testi, uno strumento detto 'intelligenza artificiale generativa', l'uso sarà stato in ogni caso strumentale, subordinato alle mie intenzioni di autore e lettore.
La macchina non potrà 'aggiungere bellezza' al testo non più di quanto possa aggiungerne, per esempio, l'inchiostro di una biro o la grammatura della carta.
19. Quando qualcuno scrive: l'ultima parola è stata ormai pronunciata, si colloca, liberato da pesi e da dubbi, nell'ascolto della macchina
“Taci. Su le soglie
dell'infosfera
non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole artefatte
che parlano
reti neurali ed algoritmi
lontani.”
Wittgenstein -che fu maestro di Turing, e che Turing non seppe ascoltare - ci parla in fondo di questa scelta, o meglio: di questa fuga, nella proposizione 107 delle Ricerche filosofiche (Wittgenstein 1953).
La "purezza cristallina della logica" è ingannevole, dice il filosofo. Ci porta lontano dalla quotidianità, dalla concretezza, dalla autenticità. Siamo costretti a nominare ciò che ci è vicino, evidente ai sensi e ai sentimenti, con parole straniere, imposte da un’autorità lontana.
"È come trovarsi su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito, e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo più muoverci”, dice Wittgenstein: “Vogliamo camminare; dunque, abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno accidentato!”.
Fuori dall’artificio digitale il terreno è sconnesso, disse- stato, impervio, aspro. Ma è questo il terreno sul quale noi umani camminiamo. Torniamo dunque alla nostra vita quotidiana, alle fatiche, ai dolori, ai progetti umani! Ai tentativi di libertà.
Qui sta la bellezza -anche orrida e tenebrosa- di cui ci parlano Shelley, Baudelaire, Goya, ogni artista che cerca sé stesso nel fondo dell'abisso, nello Sconosciuto. In cerca di luce oltre le tenebre. La bellezza che non è qualcosa di già conosciuto, ma è una congettura: un progetto, una scommessa interpretativa. (Varanini 2018)
20. La ricerca della bellezza è un tentativo. Sta a ognuno di noi cercarla dentro di sé e attorno a sé.
Concludo quindi con gli ultimi versi del poema che ho dedicato a ChatGPT e ai suoi adepti.
“La fragile specie nostra non è immortale
non tutto sa
ma non rinuncia a dire ‘io ci provo’
Poseremo quindi con rispettoso disincanto
l’occhio, e curioso
sulla Cosa Digitale prender sua forma
Ma il folle volo nel cupio dissolvi
in quanto umani contrasteremo
Diremo quindi:
ignava è la macchina
non ti curar troppo di lei
ma guarda e passa.
Se poi un giorno l’oracolo
propinquo o remoto, in virtù d’addestramento
scriverà versi
mai saranno i miei
storti come i rami secchi del mio pero
ma versi di Francesco.”
(Varanini 2024)
21. Credevo fosse questa la conclusione dell'articolo. Ma l'altro giorno ho vissuto un'esperienza che mi detta la conclusione più giusta, aperta oltre quella che potrebbe apparire una solipsistica chiusura su me stesso.
Nel corso di un convegno, assisto alla presentazione delle meravigliose gesta di un robot, incamminato, secondo le intenzioni dell'ingegnere-artefice, verso la conquista non solo di intelligenza, ma anche di coscienza e di saggezza. (Carmina, 2024) Per intanto è un pupazzo che pronuncia parole rivolte ad umani, e sembra ascoltare parole umane.
La sala è convenientemente ridotta alla semioscurità, acciocché la luce, così come lo sguardo e l'attenzione di tutti gli astanti si concentrino sul robottino. I presenti si alzano in piedi brandendo il loro smartphone per meglio fotografare il robottino; rispondono in coro, in apparenza felici, alle sue stupide domande.
Spero di non essere stato l'unico ad accorgermi di ciò che intanto accadeva. Per tre volte la porta che si affaccia sul lato della sala semibuia si è spalancata da sola. L'addetto alla ripresa televisiva la richiudeva, e le due ante tornavano ad aprirsi. La luce del sole inondava la sala, ed appariva alla vista la natura bellissima nella quale eravamo immersi.
Ci trovavamo nel magnifico Orto Botanico di Palermo, ma gli sguardi dei presenti, educati dalla cultura digitale, insistevano nel rivolgersi verso il robottino.
Bibliografia
Cosimo Accoto, Il pianeta latente. Provocazioni della tecnica, innovazioni della cultura, Egea, Milano, 2024.
Charles Baudelaire, Journaux intimes: Fusèes, X, a cura di Adolphe van Bever, G. Crès, Paris.
1920; trad. it. a cura di Lucio Zatto, Einaudi, Torino, 1947 [postumo, scritto probabilmente nel 1851].
Charles Baudelaire, "CXXVI - Le Voyage", Les fleurs du mal, Poulet-Malassis et de Broise, Paris 1857.
Irene Carmina, "Antonio Chella: 'La saggezza artificiale è la sfida del futuro'", Repubblica, 21 febbraio 2024, p. 12.
Jeanine Chasseguet-Smirgel, Pour une psychanalyse de l’art et de la créativité, Payot, 1988.
Gabriele D'Annunzio, "La pioggia nel pineto", Alcyone: Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi III, Treves, Milano, 1903.
Sigmund Freud, "Das Unheimliche", Imago, Band V, Wien 1919, trad. it. "Il perturbante", in Leonardo e altri scritti. Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol 1, Boringhieri, Torino 1969, pp. 267-307.
Sigmund Freud, Das Unbehagen in der Kultur, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien 1930, trad. it. Il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10: Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti (1924-1929), Boringhieri, Torino 1978, p. 565.
Filippo Tommaso Marinetti, "Manifeste du Futurisme", Le Figaro, samedi 20 Février 1909.
J. McCarthy, M. L. Minsky, N. Rochester, C.E. Shannon, "A proposal for the Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence" August 31, 1955.
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Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, 1930.
Percy Bysshe Shelley, "On the Medusa of Leonardo Da Vinci in the Florentine Gallery", 1819, in The Poetical Works, a cura di Harry Buxton Forman, con note di Mary Wollstonecraft Shelley, volume IV, Reeves and Turner, London, 1882; trad. it. in Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Mondadori, Milano, 1983.
Oliviero Stock, Meglio artificiale che niente. Cronache dell'intelligenza sulla collina, Guerini e Associati, 2024.
Alan M. Turing, "Computing Machinery and Intelligence", Mind, Vol. LIX, n. 236, October 1950.
Francesco Varanini, Macchine per pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi, Guerini e Associati, 2016.
Francesco Varanini, “Agire in vista di. Il progetto come continuo presentarsi”, Educazione sentimentale. Rivista di psicosocioanalisi, 29, 2018.
Francesco Varanini, Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020.
Francesco Varanini, "Goya e le mostruosità della ragione", Tutte quelle cose, 15 Settembre 2023.
Francesco Varanini, Splendori e miserie delle intelligenze artificiali. Alla luce dell’umana esperienza, Guerini e Associati, 2024.
Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953 [postumo]; trad. it. Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.